Il ricordo non mi basta più, voglio la verità
di Domenico Pisciotta
19 luglio 1992, muore un magistrato. Muore Paolo Borsellino. 57 giorni dopo la morte del magistrato Falcone, un altro pezzo dello Stato cade per mano della mafia.
Dopo vent’anni dalla strage di via D’Amelio siamo ancora qui, a ricordare e a piangere chi ha donato per un’ideale di giustizia ciò che di più caro aveva, la propria vita. Siamo il paese che ricorda ma che non scopre mai la verità. Ciò che lascia sgomenti è che dopo vent’anni non si conoscano i nomi e non siano state accertate le responsabilità dei mandanti esterni; non si conoscano dopo vent’anni i nomi dei politici, degli industriali e dei servizi deviati che hanno deciso la morte di Paolo Borsellino.
La sua morte, ancora oggi, solleva pesanti interrogativi sulla trattativa Stato-mafia. La trattativa vi fu. A confermarlo alcuni ufficiali dei carabinieri che avviarono colloqui informali con Cosa Nostra. Loro sostengono di aver agito per ottenere la resa dell’organizzazione mafiosa, ma sembra difficile pensare che uno stato allo stremo possa anche solo avanzare tale richiesta. È uno stato indebolito dalla scandalo di tangentopoli, è una mafia che vede per la prima volta i suoi componenti più eccellenti dietro le sbarre. È la storia di uno stato che incontra la mafia per raggiungere un accordo. Il terreno è fertile per il dialogo alla luce della notevole infiltrazione mafiosa negli apparati dello stato. Borsellino paga per essersi messo di traverso a quella trattativa, lui non poteva accettare che lo stato, in nome del quale giornalmente rischiava la vita, dialogasse con la mafia. Dialogare significava legittimare la mafia come interlocutore, riconoscerle la dignità di soggetto politico, riconoscere fondatezza alle loro richieste, significava mandare un messaggio chiaro alla mafia: con le bombe lo stato si spaventa e, per timore di un terrorismo mafioso su larga scala, si ferma, tratta e uccide persone come Borsellino. Fare la guerra per fare la pace, predicava Salvatore Riina.
Non importa se l’accordo fu raggiunto o meno. Ciò che è grave è che pezzi dello stato abbiano solo posto le basi per una simile soluzione. Non è una novità. Lo stato e la mafia sono due entità che hanno sempre dialogato. Il confine tra la mafia e lo stato non esiste. Sono due entità che comunicano, si integrano e dialogano da tempo. Lo Stato italiano all’indomani dell’unità d’Italia utilizzava la mafia per controllare il territorio. L’onorevole Diego Tajani nel 1875 affermava nell’aula di Montecitorio che la mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale. Sotto il regime fascista è mandato in Sicilia il Prefetto Mori per combattere la mafia. Riesce a mettere dietro le sbarre la mafia di basso rango. Nel momento in cui mette gli occhi sull’alta mafia, i boss erano diventati fascisti, membri del regime e quindi intoccabili. A quel punto il Prefetto è allontanato dalla Sicilia. Gli stessi americani durante la seconda guerra mondiale per il controllo della Sicilia avevano due possibilità: sconfiggere la mafia o accordarsi con essa. La scelta cadde sulla seconda soluzione.
Un passaggio della sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, che si è occupata della strage di via D’Amelio, recita: “Il processo sulla strage di via D’Amelio non apporta tutte le verità che ci si aspettava. Questo processo concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone del telecomando. Ma questo processo è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interesse, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano “mandanti occulti”, categoria rilevante, non solo sotto il profilo giuridico, ma anche sotto quello politico e morale”.
La magistratura può contrastare la mafia solo dopo che essa ha agito. Spetta alla politica, quella libera, e alla società civile impedire che la mafia agisca.