Carne di cavallo

di Giulio Traversi

Prologo

Tutto cominciò il giorno che Santo Buscemi ritornò a frequentare la scuola dopo un lungo periodo di assenza. Arrivò in ritardo e andò a sedersi all’ultimo banco per osservare bene quello che succedeva in classe. La professoressa stringeva tra le gambe un violoncello e teneva sospeso in aria un archetto con tallone in ebano e crini di cavallo. Solo di cavallo masculo, spiegò la professoressa, perché la femmina urina verso la coda e il pelo sporcandosi diventa una fetenzia. Gli scolari per la storia del pelo fituso si misero a schiamazzare, le femminucce urlavano Schifiu tappandosi il naso col pollice e l’indice. Il fatto del pelo era per tutti una sineddoche senza saperlo. Era già tutto un ciuciuliare sguaiato di mocciosi smaccosi e impertinenti, eppure solo Santo Buscemi a primo sentire fece diventare quel discorsetto una questione di vita e di morte, u cavaddu masculo incaprettato, scrinato e fatto a fettuzze, finché la professoressa inclinò il punteruolo del violoncello sull’impiantito dell’aula e scostò il lembo della gonna intorno ai polpacci. La classe ammutolì. Santo lavorava allora di fantasia assommando le caviglie di quella donna alla carne equina, sciàlo, focu e sangue. I vetri tremarono alle corde più basse, la musica divenne nitrito di galoppo. Dalle note gravi, lunghe e vibrate, l’archetto corse verso quelle più acute. Dal mare in musica emerse una melodia buffonesca, maschera col taglio in bocca. Qualcuno avrebbe cantato a fior di labbra “Vitti na crozza”, ma tutto si scangiò fulmineamente con fumo puzzolente di bracia di filetto, fuliggine di delinquenteria, uno straviamento di sensi. La professoressa col violoncello indossava la gonnella e la camicetta, lo strofinare dell’archetto sulle corde pareva scabroso e puttanesco. Lo zanzarone sfrigolava un rantolo attorcigliato, una voce scoglionata e gaglioffa, fra godere e soffrire, misto di voglia, lacrime e piacere, nitrito ferito di cavaddi mischineddi presi a nerbate e lassati sulla rena nera come asciugamani, mentre la bava del mare sala le ferite. L’angoscia del canto, lo sguardo ridicolo del carnefice. Una di quelle cose di cui Santo aveva tante volte sentito parlare in famiglia. Femminelle e femmine maschie. Un’esecuzione punitiva consumata dentro un garage del centro storico. La cavalla possedeva un manto marrone e lucente, troppo bella in corsa. Le spararono un proiettile in fronte, poi decapitata e tagliata a pezzi col marrancio per evitare che il sangue schizzasse sulla carrozzeria del mercedes coupé. Dopo aver asportato le parti commestibili, il resto dell’equino fu sparpagliato per la spiaggia della plaia. L’indomani i bagnanti stesero ignari teli da mare tra interiora, zampe e tronconi di testa equina.

Santo Buscemi femmine di pelo non ne aveva ancora conosciute personalmente, ma di cavaddi tanti ne aveva visti nella sua città che pareva la California.

Per le stradine l’aria sapeva d’aceto forte e intanfanava addosso come la nicotina: c’erano le fumarole equine, seggiole e tavoli di plastica sopra i marciapiedi, i barbecù, un codazzo di cristiani davanti alle putìe per accattarisi la carne. Alitava tutt’intorno sentore fituso d’arrosto bisunto, carusazzi avvolti nella sciarpa rossazzurra, gente assittata che si arricriava la vita.

Queste cose, i sapori, gli odori, il senso del cavallo, Buscemi se le portò dentro, fino al momento in cui diventato grande cominciò a farsi una vita, che fu labirinto tra delinquenza e legalità.

***

Il cielo era fatto trasparente dalla chiarìa di stelle fitta fitta come brillantina sulla pelle di una femmina.

“Fulippo, che ore sono?” sbraitò Santo Buscemi che stava in mezzo alla carreggiata e faceva da palo. Filippo non rispose, rovistava dentro il portabagagli. Stringeva una torcia elettrica tra i denti e con furia cercava qualcosa: apriva borsoni, rigirava magliette, cappelli, sandali, occhiali da sole, costumi da bagno, indumenti griffati. “Fulippo, che ore sono?” ripeté Santo. Filippo tirò la testa fuori dal portabagagli. “Statti muto” disse. “È tardi.”

Filippo era pelato, barba a cespugli, ovale tondo, un macellaio.

“Statti muto e talìa se ci sono cristiani!” Ma non c’erano altri cristiani. Un silenzio minaccioso. Filippo tornò a rovistare e buttava la roba sull’asfalto. Santo si appostò venti metri più in là muovendosi nervosamente. Non arrivava nessuno e per ora erano salvi.

“Talìa” urlò poi Filippo. “Talìa u vastasu do zu Cammelo!”

Santo lo raggiunse e si tuffò dentro il portabagagli. Sgranò gli occhi. La torcia elettrica illuminava una sostanziosa quantità di neve bianca, roba decisamente preziosa. Ragione aveva lo zio Carmelo. La roba non si nasconde in casa, buttana miseria! Filippo raccolse da terra un borsone vuoto e lo riempì di cocaina. Santo diventò allegro, si tolse la camicia che indossava, sporca e sudata, la gettò via, rimase a torso nudo e scelse una di quelle magliette nuove immacolate, ancora avvolta nel cellofan, ci indovinò subito la taglia e la indossò.

“Come mi sta?”

Santo in mezzo alla carreggiata si aggiustava la maglietta dentro i calzoni.

“Ma che minchia ti sei messo addosso?” “Mi sta bene?” Nella maglietta c’era disegnata una femmina di primo pelo, coi capelli lunghi e dorati, ma era una femmina con le zampe da gallina. Sembrava una strega. Santo siccome a scuola c’era andato e un po’ di cultura se l’era pure fatta, spiegò che quella era una Sirena. Una femmina appollaiata sopra uno scoglio, e dalle labbra rosse usciva un fumetto in cui c’era scritto “Casta Diva”. Questa femmina s’abbronzava sopra un faraglione; e poi c’era disegnata una barca a vela latina e un cristianazzo barbuto legato all’albero di maestra, incantato dalla bellezza ammaliatrice della donna.

“Amunìnni” disse Filippo infastidito dallo sfoggio culturale.

“E la macchina?” “La lasciamo qui.” Santo girò intorno all’automobile sbattendo le mani contro gli sportelli, toccando le maniglie, il cruscotto diamantato, i cerchioni in ghisa intarsiati, tutti pezzi di ricambio di prima scelta.

“Amunìnni, zu Cammelo a quest’ora ha portato il cavallo in garage e ha sguinzagliato gli scagnozzi!”

Filippo tirò il compagno per la maglietta trascinandolo via da lì.