L’auto correva e se ne fotteva degli stop, ma traffico a quell’ora non ce n’era niente, Scibilia poteva guidare come Schumacher. S’arrestò sotto l’insegna dell’agenzia ippica, c’era Santo con le mani dentro le sacchette che aspettava.
Il vento fischiava e trascinava il mondezzaio per strada.
“Sali, amunìnni” apostrofò Scibilia.
Santo Buscemi aprì la portiera posteriore dell’auto e s’infilò dentro.
C’era una ragazza seduta davanti e si chiamava Concetta. Aveva gli occhi verdi, a guardarla sembrava ascoltare i violini del Teatro Massimo. Era bedda e a Santo acchianò issofatto tanticchia di fame arretrata. La taliava di tre quarti mentre l’auto schizzando sopra le pozzanghere strappava carta stagnola. Lei era femmina come la pelle abbronzata di una cubana, come il tavolo da biliardo, come la panna e il cioccolato. L’Etna invece era alta e una bava di sangue gli colava dalla bocca. L’auto correva, i rettilinei incrociavano rotatorie. Scibilia ci furriava intorno tanto per babbaniare. Si divertiva, si sganasciava dalle risate a girarci tondo tondo come fanno le lancette dell’orologio. Ma Concetta stava muta e i secondi scorrevano come il suono del marranzano. Lei taliava fuori, dal finestrino. A destra e a sinistra svettavano certi palazzoni disposti a schiera, scatoloni cupicupi da paura: s’alzavano sopra dirupi di campagna e spianate in cemento.
Quando giunsero sul luogo dell’appuntamento non c’era ancora nessuno. Scibilia scese dall’auto, sputacchiò, abbassò la cerniera, tirò fuori l’uccello e urinò contro i blocchi di cemento posizionati al centro della carreggiata. Poi s’abbissò i calzoni, tornò dentro l’abitacolo e s’addormentò. Se Scibilia si coricava per notte, era preda dell’angoscia più nera. Si dimenava sopra il materasso come la coda mozzata di una zazzamita. Era una lotta impari. La mente furriava effetto random. L’insonnia se la portava di dietro da quando si era messo nel traffico di Santalucia, e si scantava che qualcuno entrasse senza dire permesso e gli faceva la festa dentro casa. La moglie s’era ormai abituata a quell’inquietudine nervosa, infatti a metà nottata prendeva il plaid sopra la seggiola e andava a coricarsi nel soggiorno. Lui invece non dormiva, si arriminava, e fumava come un turco. Ma il sonno Scibilia lo doveva ricuperare, necessariamente, non poteva campare accussì. Il ricupero lo faceva a lavoro, che si sentiva in una botte di ferro. A lavoro c’era sempre d’aspettare qualcuno, e nell’attesa si faceva la pennichella. Gli occhi si chiudevano subito, così non provava manco lo scantazzo se fosse successo qualcosa d’irreversibile; e poi a stare con gli occhi aperti ci pensava sempre qualcun altro più importante di lui, vicino a lui, intorno a lui, perché Scibilia era pagato per scarrozzare qua e là i cristiani, e manco parlare doveva. Era diventato una specie di automa che sgraccava, pisciava e guidava, e se stava fermo, si addummisceva.
Anche quella notte poggiò il capo sopra il volante e fece un sonno senza sogni. Poi lo scalpitio dei cavalli si confuse col chiacchiericcio degli scagnozzi, sorse un brusio smorzato dalla clandestinità dell’evento, e Scibilia si destò di soprassalto.
“Arrisbigghiati!” sentì dire.
Salomone aprì la portiera della macchina e dentro non c’erano né Santo né Concetta.
“Unn’è me figghia?” sbraitò il padre evidentemente incazzato.
Scibilia era stordito dal sonno. “Arrisbigghiati, bestia!” L’autista scatarrò una due volte come se gli fosse andato di traverso qualcosa. “Dove sono andati?” Scibilia s’accorse di essere rimasto solo dentro l’abitacolo. “Ccà erano!” rispose, e bestemmiò pure. Uscì fuori spalancando la portiera, s’aggiustò i pantaloni stringendo la cinghia, stirò sul collo il bavero della giacca perché lo invase una folata di vento freddo umido.
“Unni minchia se ne sono andati?”
“Buttanazza miseria!” aggiunse Salomone, che montò sopra il motore giallo limone perché la corsa era pronta per partire.
“Cetti, Cetti” cominciò a gridare Scibilia.
‘Fanculo, pensò Scibilia, sta femmina è proprio una zoccola!
I cavalli trattenuti alla cavezza scalpitavano. I fantini pestavano i piedi sull’asfalto attrunzati dal freddo. Avevano il numero stampato sopra il giubbotto, stringevano il frustino in mano e indossavano stivali neri e pantaloni a palloncino. I vari com- pari abbissavano i finimenti del calesse e non si taliavano tra loro perché ci poteva scappare un parapiglia e spartivano coppa unn’é ghié.
Uno al margine della carreggiata emise un fischio da pecoraio. I calessi si allinearono. Un altro impugnò la rivoltella e contò alla rovescia. La voce alta spadroneggiava. Ruggì il rombo dei motori che era un crescendo rauco. L’uomo con la rivoltella puntò la canna alle stelle e premette il grilletto.
I cavalli si lanciarono in una corsa forsennata.
“Cimarosa, corri!” incitava Salomone sopra la moto. Cimarosa trottava come il vento, macinava metri e sembrava una lepre. C’erano anche altri cavalli che divoravano la strada e allungavano il collo, trottavano com’erano abituati a fare di notte, quando la gente dorme e la munnizza è depositata sopra i marciapiedi come fiori al cimitero. Erano ben strigliati quei cavalli, macchine sportive serbate al fresco dentro i garage.
I calessi oltrepassarono la prima curva, poi la seconda, ma in fondo al rettilineo si accesero in un momento due potenti fari che spararono una luce accecante, e fuori della notte sbucarono le volanti della Police. I fantini allentarono le briglie, balzarono fuori dai calessi, si sparpagliarono per la campagna come tanti forsennati. Le sirene rotanti coloravano di ghiaccio l’alba invernale. Quella gente colta in flagranza di reato si vide circondata dagli sbirri e non pareva vero che le guardie si mettessero a inseguire anche i cavadduzzi, con tutta la delinquenza che c’era in giro a quell’ora.
Furono tutti condotti a Piazza Lanza con le brac- cia conserte. Gli avvocati si arrisvigghiarono in coro, mentre magari si facevano la trummiata mattutina. Le luci della città si astutarono davvero per quei vastasi, che adesso si taliavano in faccia ammosciati, come i pupi dell’Opera dei pupi quando è terminato lo show.