di Giovanni Caruso
Qualcuno lo descrisse, un uomo dentro al suo giubbotto di pelle con una nazionale sempre in bocca e una “faccia da saraceno”.
Tornava da lontano nella sua terra, amata e disprezzata, tornava a Catania, quella che definì puttana da amare e abbandonare, per poi tornare da lei.
Un uomo, un giornalista, commediografo e artista, sceneggiatore di film e documentari.
Non so se fu un caso quando in quella calda estate dell’ottanta lo incontrammo o se fosse già scritto da qualche parte, so soltanto che fummo accolti con un abbraccio severo che provocò in noi soggezione e rispetto.
Da buon artigiano ci insegnò, e non da una cattedra, il mestiere di scrivere e ci insegnò ad indagare, ad ascoltare e vedere. Insomma, ci fece diventare “mercanti di storie”. Storie di uomini e donne con miserie e debolezze, ma anche con coraggio e lealtà. Storie vere di una società reale, narrate con la penna o attraverso le immagini.
Un uomo che il cinque genaio del 1984 cadde sotto il fuoco mafioso, ucciso dai comitati d’affari, dalla cattiva politica al soldo della mafia, in una città indifferente e matrigna, noi lo chiamavamo direttore, il suo nome è Giuseppe Fava
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Chi lo uccise pensava che sulla città tornasse il silenzio, ma una parte di Catania ribelle, critica e soprattutto giovane si sollevò, nacquero i comitati antimafia, che con la loro luce illuminarono i difetti della città denunciandone il malaffare politico ed economico che opprimeva e toglieva democrazia.
Fù questa Catania che riuscì a far venir fuori tutto ciò che aveva scritto il direttore e che nel tempo fece fallire il grande progetto dei “cavalieri dell’apocalisse”, quello di dominare, con la complicità della borghesia mafiosa, la città.
Il movimento antimafia nel tempo si perse e frantumò ma alcuni gruppi iniziarono un percorso di antimafia sociale che ancora oggi continua.
Era il 1988 quando ritornai a San Cristoforo, c’ero stato tante volte nei primi anni ’80, con una fotocamera al collo a riprendere i morti ammazzati e le facce consapevoli degli uomini e delle donne che guardavano il selciato sporco di sangue, erano gli anni della guerra di mafia tra i Santapaola e i Ferlito, ma nell’88 sembrava che tutto fosse finito.
A San Cristoforo tornai non da solo, ma con dei compagni e compagne che volevano iniziare un lavoro di antimafia sociale partendo dai ragazzini e dalle ragazzine: nacque così il GAPA (Giovani Assolutamente Per Agire). Credevamo nella Costituzione, credevamo che ogni essere umano avesse tutti i diritti sanciti da quella Carta, credevamo che bambini e bambine potessero avere un futuro e un diritto alla dignità. Lo credevamo e lo crediamo ancora, dentro e fuori il nostro centro, che in tutti in questi anni ha visto tessere relazioni con gli uomini e le donne del quartiere per costruire insieme percorsi di cittadinanza attiva attraverso le denuncie per ottenere il diritto allo studio, il diritto al lavoro e la conquista di quegli spazi posseduti e violentati dalle cosche mafiose, insomma, un quartiere vivibile a dimensione umana.
Per quanto mi riguarda le immagini di morte, di degrado e dolore sono solo un ricordo su una pellicola, un ricordo da trasmettere per capire cosa è stata e che cos’è questa città, ma adesso le immagini che immagino sono di una rivolta civile che si compie attraverso il nostro lavoro, e credetemi che i risultati si vedono. Io rivendico che quello che sono oggi e la battaglia di antimafia sociale che conduco insieme agli altri abbia un origine: l’insegnamento di quei due “artigiani della giustizia sociale” che sono Peppino Impastato e Giuseppe Fava.
Ed è a loro che mi rivolgo per dirle:”Noi siamo ancora qui a resistere ed a continuare questa lotta civile”.