testo e foto Daniela Calcaterra
“U trenu a stamatina
Passau supra l’archi d’a marina;
fu chistu ‘n gran successu,
Catania camina ccu progressu”
Questo breve inno al progresso, cantato per l’inaugurazione della linea ferroviaria, 1° luglio 1869, mi ha subito colpito, non per la sua bellezza, ma per la nota di speranza, “Catania segue il progresso”, ma a quale prezzo?
Il viadotto ferroviario assurge a cicatrice e barriera fra la città e il mare, una cicatrice che rievoca alla memoria lo storico legame tra centro urbano e l’originaria rada naturale che fu la porta di antiche civiltà.
Camminare lungo il viadotto equivale a camminare sul filo di un rasoio, da una parte il porto e dall’altro un quartiere la “Civita”, in mezzo il traffico automobilistico.
Spinti forse dall’orrenda visione di un porto che non c’è, si è attratti istintivamente verso il quartiere, subito si percepisce la perdita di qualcosa, e si cammina in cerca di questo qualcosa che si è perso e non bastano gli odori e i colori a colmare il senso di vuoto, la nostalgia diventa sempre più forte man mano che ci si addentra tra piccoli vicoli, case terrane e sontuosi palazzi, ed è tra gli squarci di luce e di buio che si percepisce il dolore inferto dalla ferita. Così gli antichi palazzi sono ormai deturpati e violentati, le piccole case dei pescatori spariscono sotto l’influsso di quell’anarchico senso del brutto che le trasforma in piccole baite di montagna, concrezioni di condizionatori si accavallavano a fili di panni stesi, sarà che alla Civita farà più caldo rispetto a tutto il resto della città?
Ma cosa è rimasto dell’operoso borgo di pescatori e di commercianti?
Poco o niente, qualche pescatore c’è, qualcuno che ancora intreccia le reti della memoria, come ombra di un lontano ricordo.
Resta dentro l’amara consapevolezza che il prezzo pagato in nome del progresso sia stato troppo alto, l’ombra del mare è lì ma non puoi vederne l’azzurro… si può impazzire! La città ha eroso il mare.
Ma ci chiediamo del perché di questo. Ci chiediamo quali responsabilità le vecchie e nuove amministrazioni che hanno governato la città hanno fatto si che questa erodesse il mare, e non solo, anche oggi c’è un dibattito “politico speculativo” nel far diventare il porto una cozzaglia di cemento armato che distruggerà la nostra cultura e la brezza di mare che ci ha sempre caratterizzato.
[…]”A Maurilia, il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo ad osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima: la stessa identica piazza con una gallina al posto del cavalcavia, due signorine col parasole bianco al posto della fabbrica di esplosivi… riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia diventata metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia, provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia essere goduta soltanto adesso nelle vecchie cartoline… e che la metropoli ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era”. Le città invisibili di Italo Calvino