Da Kore a Franca Viola

Viaggio nella memoria di una violenza

Agata Squillaci, foto Daniela Calcaterra

Beatrice_MonroyForse non è un caso che uno dei miti più antichi di cui la Sicilia è ricca, racconti di una violenza maschilista: il rapimento della bella giovinetta Kore ad opera del tenebroso dio dei morti Ade.

Franca Viola, come Kore: è una giovane ragazza come tante altre, vive ad Alcamo, confine estremo della Sicilia, ascolta Mina e sogna il grande amore. Nel dicembre del 1965 è rapita, tenuta nascosta e violentata per molti giorni da Filippo Melodia, imparentato con la potente famiglia mafiosa dei Rimi. Nell’Italia degli anni sessanta, del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (entrambi saranno abrogati dal Codice Penale solo nel 1981) la sua storia non avrebbe destato scalpore se la giovane non avesse rifiutato di sposare il suo stupratore, dicendo un “no” che avrebbe cambiato la nostra storia. Eppure oggi le nuove generazioni non conoscono Franca Viola, figli di una terra che distrugge il passato e che considera la memoria un inutile fardello.

Antidoto a questa smemoratezza è la scrittura di Beatrice Monroy, che il 22 novembre al G.a.p.a ha presentato il suo libro “Niente ci fu” e ha ridato voce alla storia di Franca Viola, all’interno delle tante iniziative promosse dalla rete di donne e uomini catanesi Ragna-tela, che si propone un percorso che abbia come punto d’arrivo la cancellazione d’ogni violenza sessista.

Una “cantrice”, come ama definirsi, che sente il dovere di ricordare e raccontare un passato recente che in qualche modo sopravvive in un certo modo di guardare le donne.

Nella lunga chiacchierata che facciamo prima che la sua voce calda e intensa comincia a far rivivere la storia di Franca, mi dice:

“Leggendo gli articoli del Giornale di Sicilia e dell’Ora che parlavano della vicenda, mi sono resa conto che l’attenzione dei giornalisti era rivolta a Bernardo, padre di Franca, o a Filippo. Nel raccontare i fatti i giornali non parlavano né di Franca né del suo corpo. Eppure il potere maschile si afferma proprio nel possesso del corpo; un corpo prigioniero, addestrato e sorvegliato a vista che viene investito da rapporti di potere e di dominio” .

E a quarant’anni di distanza poco è cambiato nel modo in cui la stampa si pone di fronte alla violenza sulle donne. Ricostruzioni che, raramente, vanno oltre gli eventi, un giornalismo che non informa e che non diventa strumento di riflessione. Esercizio di cittadinanza e strumento di crescita collettiva è invece il narrare di Beatrice che da anni ormai va in giro per l’Italia a raccontare i grandi romanzi, le “storie del mito che arrivano al cuore”, episodi del nostro recente passato come Portella della Ginestra per riflettere attraverso i libri e la letteratura su un modo diverso di fare politica, che parta dal basso e che sia legata al senso del bello e al rispetto degli altri. Racconta soprattutto storie di donne. Storie diverse ma accomunate dal silenzio: il silenzio di chi non denuncia o di chi ha paura di raccontare perché teme di non essere creduta. Altre volte il silenzio è parte di un meccanismo consueto che si innesca nei casi di violenza che le donne subiscono: quello di sentirsi in qualche modo colpevoli e quindi di dover tacere.

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Penso alle tante forme di violenza che subiscono le donne del quartiere che, nello sforzo di dover essere brave mogli prime e madri poi, dimenticano ogni giorno di affermare i loro desideri o dare semplicemente spazio ai propri sogni e mi vengono in mente le parole di Beatrice:

“Si può morire pur restando in vita, pur continuando a camminare, lavorare, parlare. Si può morire perché qualcosa si è spezzato dentro, perché si è consentito a qualcuno di rubarci un sogno, distruggere un’illusione”.

Mi interrogo sugli strumenti e sui percorsi necessari ad estirpare queste forme di violenza che hanno radici antiche e profonde. E forse un buon modo per cominciare è quello di non dimenticare e di cominciare a sentire la storia di Franca come la mia.