Nel campo ammucchiati c’erano le scarpe e gli indumenti di tutte le persone uccise
di Marcella Giammusso
“Vede? Questi qua sono i forni crematoi e questa è una montagna di cadaveri!” Dice con enfasi Il signor Salvatore Alparone nativo di Caltagirone, ma che da anni vive a Catania, reduce di una prigionia durata circa 3 anni durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre mostra delle vecchie foto che ritraggono un campo di concentramento. E’ molto emozionato e rivivere quei momenti lo turba molto. Compirà novant’anni il prossimo 2 gennaio ma narra con lucidità la sua storia ricca di dettagli.
“Eravamo prigionieri dei tedeschi e ci portavano a Varsavia in Polonia. Il treno dove ci trovavamo restò fermo alla stazione mezz’ora, un’ora ….non so quanto di preciso e noi da lì vedevamo questo campo di concentramento . Il campo era recintato da un reticolato dove passava la corrente e dietro c’erano donne, uomini e bambini. Erano tutti ebrei.
Cosa facevano i signori tedeschi di tutti quei prigionieri? Giornalmente ne ammazzavano una quantità. Come li ammazzavano? I prigionieri in buona salute li usavano e toglievano loro il sangue per utilizzarlo per i propri soldati feriti e se ritenevano che ci potevano togliere anche il grasso glielo toglievano. Invece gli altri prigionieri li facevano entrare dentro delle stanze chiuse dove iniettavano i gas. Poi prendevano tutti questi morti e inficcavanu intra i forni crematoi. I bambini li ammazzavano pure. Nel campo ammucchiati c’erano le scarpe e gli indumenti di tutte le persone uccise e c’erano anche le scarpe di bambini.
Io sono stato preso prigioniero dopo l’8 settembre. Ero partito per la guerra nel mese di maggio del 1943 e mi trovavo a Gorizia al 23° Reggimento Fanteria. A settembre quando ci fu l’armistizio i Tedeschi ci dissero: ” Dovete lasciare le armi per tornare a casa.” Ci portarono in un campo sportivo sempre a Gorizia. Eravamo circa tre mila e aspettavamo che ci portassero a casa. Invece ci portarono alla stazione, ci misero dentro dei carri bestiame e via! Trasportati con carri vagone chiusi come bestie, scortati da soldati tedeschi armati con fucili automatici. Ci davano l’acqua nei secchi e 200 grammi di pane al giorno. I bisogni li facevamo in un angolo del vagone. Eravamo trattati peggio degli animali! Dopo tre giorni di viaggio ci portarono in un campo di concentramento a Varsavia dove eravamo solo soldati. Ci davano da mangiare una volta al giorno un po’ di minestrone con rape marce e funghi secchi con i vermi ed un po’ di pane. Ci misero ai lavori forzati e ogni giorno andavamo a piedi ai cantieri navali di Danzica dove lavoravamo 8-12 ore, io facevo il motorista. Indossavamo una tuta e sul petto avevamo scritto il numero di matricola. Non ci chiamavano per nome ma per numero. “38638” era il mio numero di matricola, ancora me lo ricordo.
Un giorno mi fu chiesto se volevo andare a lavorare nei campi agricoli. Io accettai perché pensavo che in campagna era più facile procurarsi da mangiare. Invece ci portarono a fare i taglialegna, i boscaioli. Ci portarono in un bosco grandissimo ed i soldati sotto la minaccia delle armi ci obbligavano a tagliare con asce e serre alberi di faggio alti circa 12 metri. Dopo averli tagliati a pezzi dovevamo comporre due metri cubi di legna. Purtroppo non tutti erano abituati ai lavori manuali, c’erano uomini più delicati che si procuravano ferite nelle mani e non riuscivano a tagliare due metri cubi di legna. Allora dicevamo ai soldati:”Non si possono fare due metri cubi” e loro rispondevano: “Va bene, allora senza mangiare!” Senza mangiare! Allora ci mettemmo tutti d’accordo e lavoravamo anche dodici ore per fare le cataste di due metri cubi anche per quelli che non ce la facevano.
Una mattina appena svegliati e i tedeschi ci dissero che dovevamo andare via. Avevamo fatto circa tre chilometri e ci abbandonarono in un casolare. Restammo lì da soli per alcuni giorni ma non ci allontanavamo perché avevamo paura. Finché arrivarono i russi. Noi non li avevamo visti perché avevano le divise bianche e con la neve che c’era attorno non si notavano. Così all’improvviso … ta-ta-ta-ta…. spararono, sfondarono la porta ed entrarono. Pensavano che eravamo tedeschi, così ci portarono al muro per fucilarci. Ma successe un fatto. Quando lavoravamo nei boschi c’erano delle donne ucraine che erano state prese prigioniere dai tedeschi e portate anche loro a lavorare nel bosco. Erano accampate in un’altra baracca e durante il giorno eravamo spesso in contatto con loro. Mentre eravamo al muro una di queste donne si avvicinò e disse ai russi che eravamo prigionieri italiani e che avevamo fatto i lavori forzati con loro. Così quella donna ci salvò la vita.
I russi ci portarono con loro. Una notte dormimmo sopra un cumulo di morti. Stanchi per come eravamo ce ne accorgemmo soltanto la mattina dopo. C’erano strade dove ai lati c’erano delle montagne, erano tutti morti che con il ghiaccio erano diventati una massa di pietra. Poi però quando si scioglieva la neve si capiva che erano tutti “poveri cristi”.
In Russia rimanemmo un anno. Dopo un anno i russi ci scortarono sul treno e ci portarono a Tarvisio per farci tornare a casa. C’erano tre vagoni pieni, eravamo circa trecento persone. Al confine con l’Italia ci tennero un giorno in osservazione, ci diedero un vestito, un paio di scarpe buone e ci mandarono a casa.
Arrivai alla stazione di Caltagirone e a piedi andai verso casa mia. Per strada incontrai dei parenti che non mi riconobbero, talmente ero sfigurato, ero solo pelle ed ossa.”