a cura di Elio Camilleri
C’è un’enorme differenza tra il carattere erotico e scurrile delle note composizioni e le vicende fondamentalmente tristi e patetiche della sua vita. Vero è che trascorreva ore ed ore all’osteria di don Ramunnu a bere vino e declamare i suoi versi con gli altri avventori, osservati con leggerezza dai grandi occhi della cameriera dagli abbondandi seni.
Il padre lo avrebbe voluto accanto nella falegnameria e la madre, rimasta vedova, lo supplicò di badare agli affari che Domenico non sapeva proprio curare e andò a finire che fu costretto a cedere quel po’ di legna che era rimasta per comprare il feretro per il funerale della madre.
Rimasto solo e disperato, si convinse a prendere moglie con funzioni prevalenti di balia e lui si tirò un po’ su: ritornò più spesso da don Ramunnu, come quella domenica di Nata del 1787 quando Micio Tempio arrivò trafelato, stralunato e confuso: la notte la moglie era morta di parto e adesso lui non sapeva cosa fare. Caterina, quella dai grandi occhi e dai grandi seni si offrì alla piccina che, purtroppo, non riuscì a sopravvivere al freddo, alla fame e a tutto il resto.
Caterina decise di restare con lui, gli rassettò la casa, lo curò nel mangiare e nel vestire e convinse anche quel pescatore che aveva in affitto la barca del “professore” a pagare il canone e a pagarlo regolarmente.
Poi gli chiese un figlio e Micio Tempio fu padre di Pasqualino che sfibrò Caterina e la condusse verso la malattia senza ritorno che non le impedì di fare di tutto, anche di chiedere l’elemosina, per non far mancare nulla al figlio e al “professore”.
Prima di morire chiese agli amici ricchi e potenti del poeta di garantirgli un aiuto mensile ora che anche la barca infradiciata dal tempo era finita in fondo al mare; rimase assicurate e se ne andò serena.
Lui si prese a casa una vecchia senza naso, continuò a scrivere sulla carestia del 1797 fino a quando, nel ricordo e nel pensiero di Caterina, anche lui se ne andò la mattina del 4 febbraio 1820.