Agata Squillaci
Proprio mentre scrivo arriva la notizia della morte di una donna uccisa a Napoli, a coltellate, dal marito.
Più di cento, quindi, è il numero allarmante delle donne uccise in Italia dall’inizio del 2012. Un numero che potrebbe essere anche più alto se si tiene conto del fatto che questi dati derivano dai mezzi d’informazione, nei quali non sempre sono rintracciabili tutti i casi realmente accaduti e che la scomparsa di donne senza permesso di soggiorno non viene sempre registrata.
C’è un legame tra questi dati e il fatto che nel nostro paese le donne contano poco in politica e nelle istituzioni? Quanto pesa nella coscienza comune l’immagine banale che la pubblicità e la televisione danno delle donne? Influisce in certe zone, a cominciare proprio da San Cristoforo, la difficoltà di trovare un lavoro, di ottenere quell’indipendenza economica che darebbe la possibilità a molte donne di allontanarsi da un marito o da un compagno violento?
È possibile che in un periodo come il nostro incerto e confuso ma che, proprio per questo, trova rassicurante fare riferimento ad un immagine tradizionale dei rapporti tra i sessi, faccia paura il tentativo delle donne di mettere in discussione il ruolo di persona tradizionalmente adatta alle faccende domestiche?
Queste e altre domande mi vengono in mente leggendo gli unici dati statistici disponibili sull’argomento pubblicati dall’associazione “Casa delle donne”. Le istituzioni, infatti, non hanno ancora avviato indagini ampie sull’argomento che porterebbero ad una conoscenza tale da intervenire con strumenti capaci di prevenire o fermare le violenze sulle donne. La percezione del problema da parte della gente comune è affidata solo ai principali mezzi di comunicazione: programmi televisivi e giornali nei quali si cerca sempre di trovare una giustificazione alla violenza maschile. Ad uccidere è lo straniero, l’uomo che agisce per depressione o in preda a raptus di follia. Ricostruzioni che tendono a restringere il problema ad una dimensione privata, intima. La violenza sulle donne ha invece una dimensione pubblica, riguarda tutti, uomini e donne e ha una valenza sociale e culturale.
Si, perché a guardare da vicino queste storie, emerge chiaramente che ad uccidere o a compiere violenza non sono mostri o persone che agiscono per follia, ma uomini comuni che vivono in un contesto di radicata cultura maschilista dove le donne fanno i conti, ogni giorno, con situazioni che le vedono sottomesse sia sul piano fisico che psicologico.
Da Nord, dove le vittime sono il 48%, al Sud con il 25 % di vittime, la violenza sulle donne non conosce limiti di luogo, ceto, età. Carmela Petrucci è morta a Palermo, a 17 anni, nel tentativo vano di difendere la sorella dall’aggressione dell’ex fidanzato. Sharma Gafu, 18 anni, è stata strangolata a Monza dal fidanzato geloso. Domenica Menna, 24 anni, è morta a Fognano, uccisa dall’ex fidanzato, guardia giurata. Leda Corbelli di 65 anni è morta a Novate Milanese dopo due mesi d’agonia; il convivente le aveva dato fuoco il 17 dicembre. Rosetta Trovato, 38 anni, è stata strangolata a Scicli dal marito, un uomo violento che picchiava la moglie abitualmente. E la lista potrebbe essere molto più lunga.
Storie e situazioni diverse ma che hanno tutte un dato in comune: le donne che hanno provato a difendersi, a denunciare, sono state lasciate sole. La maggior parte delle denunce è caduta in prescrizione pochi mesi dopo. Dato che fa riflettere sulla necessità di intervenire a livello politico e sul piano delle leggi. La violenza tra i sessi non è, infatti, un dato naturale ma culturale. Gli uomini non uccidono o picchiano le donne perché è in loro innato un istinto che li porta ad agire con violenza, ma perché sono cresciuti in contesti che hanno visto per secoli la violenza privata maschile sulle donne tutelata dalla legge e giustificata, perché sono stati educati all’idea di un rapporto uomo donna basato sul dominio. Per questo motivo se vogliamo comprendere e affrontare seriamente il problema della violenza sulle donne, è necessario intraprendere un cammino lungo che parta dalla famiglia, dalle scuole e dalle università a partire dalla consapevolezza che il problema riguarda il sesso maschile, riguarda i maschi.
Perché solo una società in cui uomini e donne partecipino in modo paritario, solo una società che ottenga uguaglianza nel rispetto dell’individualità di ogni persona, può portare a gerarchie di valori diverse da quelle che attualmente ci condizionano.