Rinascere dalle nostre ceneri
testo e foto di David La Mendola
Catania, un po’ prima delle otto, in un bar un signore legge a voce alta: “L’Etna diventa patrimonio Unesco…”. Una pausa e poi continua: ” e ora non manciu”. Mi avvicino dopo aver preso al bancone il mio panzerotto al cioccolato e chiedo: ” Perché non è contento della notizia? ” Mi risponde; “Perché? Perché, a me, dopo che il Muncibeddu trasiu docu, che m’interessa. Ma perché non danno un poco di travagghiu, invece di fare ‘sti buffonati”.
Rimango perplesso al sapere che la bella notizia del nostro vulcano, ormai anche dell’Umanità, non sia condivisa da un mio concittadino e rispondo : “Pensa che questa iniziativa non possa essere un modo per dare lavoro? Un modo per far partire settori come la ricerca, l’università, il turismo e di conseguenza il commercio? Insomma con la cultura si potrebbe lavorare tutti, no?” Scoppiata la diatriba dentro al bar e dopo molti botte e risposte, uscii. Unico rammarico: il panzerotto era diventato freddo.
Questo avvenimento mi ha fatto riflettere sull’idea che abbiamo di bene, e in particolar modo di bene culturale a Catania. In questo periodo in cui tutta la penisola affronta questo problema, noi catanesi da che parte stiamo? Pompei sta cadendo a pezzi e pezzi di storia di Roma si allagano e cascano come biscotti inzuppati nel latte.
Qui a Catania non va di certo meglio. Vi faccio alcuni esempi. Salta agli occhi, visto che siamo nella stagione estiva, il lungomare. La scogliera, che potrebbe e dovrebbe essere un bene paesaggistico di primordine, da tutelare e salvaguardare in termini ambientali e non solo, viene invece massificata da badilate di cemento. Questo si nota sotto l’immondizia e le sterpaglie che si possono ammirare da zone transennate alla bene e meglio e parapetti logori. A preannunciare la situazione del lungomare ci pensa l’ultimissimo scempio della precedente amministrazione: la fu Piazza Europa.
Tornando verso il centro della città arriviamo alla chiesa di San Nicola in Piazza Dante. Quella che ufficialmente è la sede dei Benedettini e dell’ateneo catanese, è in realtà nei giorni feriali un enorme parco auto che svilisce la visione della monumentale facciata della chiesa. L’interno della chiesa dall’essere un restauro è passato a diventare un vero e proprio cantiere senza fine. Poco più in là dall’entrata del monastero si scorge una vasca recintata al cui interno serpeggiano sterpaglie che stanno lentamente inghiottendo i resti delle antiche terme romane. Accanto a queste si trova uno spazio desertico con degli stuzzicadenti al posto degli alberi, piantati su della paglia secca. E a proposito di paglia secca, questa sta diventando ormai caratteristica principale delle nostre piazze, vedi: piazza Cavour al Borgo, Piazza Jolanda, Piazza Cutelli, Piazza Palestro e tante altre.
Proprio in Piazza Palestro, lo storico Fortino non è altro che diventato un enorme pisciatoio ricoperto di scritte colorate. L’onta dell’urina sulla parte bassa dell’antica porta rilascia la puzza di una città incontinente. Di una città che non riconosce il valore dei concittadini che le hanno portato onore e prestigio come Vincenzo Bellini, la cui casa è in ristrutturazione da tempo immemorabile, e Giovanni Verga, per la cui dimora non si trova indicazione né tantomeno facile accesso, con le auto parcheggiate proprio all’entrata.
Che ne vale allora ricordare la condizione del teatro Massimo Bellini, del Castello Ursino, dell’ Odeon di Catania, delle terme Achillee proprio sotto il Duomo, delle terme di Sant’ Antonio (da poco riqualificate nel quartiere di San Cristoforo) e di tanto altro. Che ne vale se dopo tutto, oltre l’indifferenza dello Stato, del Comune, e di tutti gli organi istituzionali, siamo noi catanesi a non riconoscere il valore di quello che abbiamo sotto gli occhi e tra le mani. Che ne vale se non abbiamo ancora capito la differenza tra sfruttare il patrimonio e metterlo a frutto.
Eppure proprio sulla terra arida del nostro vulcano nasce un fiore. Una terra dura e desertica all’apparenza, ma ricca di nutrimento che dà vita al fiore giallo della ginestra.
Quando capiremo che solo la cultura potrà riscuoterci da questa apatia e da questo torpore agonizzante, allora forse potremmo costituire quella “solidal catena” di reminescenza leopardiana, e rinascere dalle ceneri del vulcano che ci ha generato.