testo di Ivana Sciacca, foto Alessandro Romeo
L’accettazione del diverso libera dalla paura
Gli attentati di Bruxelles di qualche settimana fa hanno incoraggiato atteggiamenti xenofobi che in teoria la nostra Costituzione e tutte quelle europee dovrebbero ripudiare, ma che nei fatti vengono alimentati. Ormai “essere musulmano” pare voler coincidere con “essere terrorista”, e purtroppo nella quotidianità il prezzo di questa bugia si continua a pagare caro. Piccoli episodi di ogni giorno continuano ad accendere la spia della paura verso il diverso. I politici cavalcano l’onda per farsi propaganda, ma è soprattutto di ogni singolo cittadino la responsabilità di reagire verso questi episodi di razzismo con fermezza e comprensione, senza lasciarsi travolgere dalla “necessità” di avere un nemico cui dare la colpa del proprio malessere.
In uno dei tanti supermercati del centro, durante l’ora di punta, è un classico che si impieghi più tempo per fare la fila che per fare la spesa. Dalle piccole cose, come aver la pazienza di aspettare il proprio turno o avere la bontà di lasciar passare il cliente che abbia un bambino piccolo, si scorge il livello di civiltà che ci caratterizza. Inutile dire che spesso siamo proprio noi catanesi a non aver pazienza, o peggio: a fingerci furbi e a scavalcare tutti senza neanche chiedere la cortesia di lasciarci passare. Il problema è che finché lo facciamo noi tutto è concesso (si fa per dire), ma se è un immigrato a permettersi un simile atteggiamento scatta la polemica che rischia di trasformarsi in una vera e propria “questioni”.
“Arruau chidda spetta chi supera a tutti!” esclama un signore di fronte a una donna africana col bambino di pochi mesi e tre soli yogurt da pagare. “ O ‘so paisi su abituati accussì, ma a cuppa è nostra ca i facemu trasiri!” gli fa da eco una giovane mamma. Si scatena un dibattito che percorre tutta la fila sui danni che gli immigrati ci procurano ogni giorno con la loro presenza. Sarcasmo e cinismo si fondono colpendo senza riserve il diverso di turno: in questo modo ci sente uniti verso quella persona vissuta come una minaccia. Ci si sente in qualche modo autorizzati, anche dalle chiacchiere dannose che la televisione contribuisce a fomentare verso questi nostri simili, che vengono da lontano per sfuggire loro stessi ai terroristi, alla fame, alla miseria, al non poter essere liberi cittadini.
Questo è lo stesso meccanismo che si è attivato durante la Seconda guerra mondiale, quando milioni di ebrei e milioni di persone considerate “diverse” vennero deportate nei campi di concentramento e poi bruciate nei forni crematori. Una macchia indelebile nella storia dell’umanità che invece di farci fermare e riflettere, cerca di moltiplicarsi. Anche allora tutto ciò fu possibile perché le singole persone preferirono il silenzio e la paura al coraggio di prendere posizione verso gesti disumani. Preferirono diventare complici dei carnefici anziché difendere la vita incondizionatamente.
Ma oggi? Com’è possibile che sia così difficile mettersi nei panni degli immigrati persino nei piccoli gesti quotidiani? Cosa ci fa pensare che prendercela verso queste categorie più deboli possa farci sentire forti? Assistiamo continuamente all’abuso della parola “integrazione”. Qualcosa ci fa credere che queste persone dovrebbero integrarsi nel nostro sistema.
La parola “integrazione” in realtà è piena di equivoci: sottintende che a casa nostra le regole le dettiamo noi e chi vuole rimanerci deve rispettarle, anche se i primi a non farlo siamo noi stessi. È una parola che sotto un’apparenza benevola nasconde le infamie più atroci: pretendere che queste persone si integrino significa pretendere che si pieghino alla legge del più forte, e i più forti “a casa nostra” siamo noi. In realtà il rispetto della diversità e dell’identità di ogni individuo non presuppone integrazione ma accettazione. La parola magica, che potrebbe liberarci da ogni paura e dal bisogno di avere un nemico contro cui combattere e prendercela, è proprio l’accettazione. A nessuno di noi piacerebbe essere offeso o escluso solo perché ci troviamo in un’altra parte del mondo. Perché non dovrebbe valere per tutti? “Se per te non lo vuoi, agli altri non lo fare” è una massima che in forme diverse accomuna tutte le civiltà e le religioni del mondo. Forse è ora di mettere in pratica ciò che vorremmo vedere nel mondo a partire da noi stessi, invece che continuare a puntare il dito contro l’altro, contro il “diverso”.