Integriamoci

Invece di un “cazzotto” diamo il buon esempio

Ivana Sciacca

integrazione1Autobus 431 linea nera. In un giorno qualunque, schiacciati come sardine, ognuno ha il suo posticino per affrontare il “viaggio della speranza” quotidiano.

Nel traffico caotico della via Plebiscito si procede lentamente, e gli accenti stranieri si mescolano a quello catanese sino a confondersi.

E fin qui nulla di strano. Sennonché proprio davanti all’ennesima fermata accade qualcosa di molto fastidioso.

Sale a bordo una ragazza musulmana col capo coperto ma sale da quella che dovrebbe essere l’uscita, una (malsana) abitudine diffusa tra la maggioranza dei passeggeri AMT di tutte le razze e di tutti i colori, rossazzurro compreso.

Una sua coetanea catanese non la prende affatto bene – “Dovevo scendere prima io! Come ti permetti!”. Inveisce contro la donna e ad un certo punto le sferra un pugno sul naso facendoglielo sanguinare. Questa per difendersi le tira i capelli.

Alcuni passeggeri cercano subito di dividerle, altri guardano come se fosse un film “divertente” che però non fa ridere, qualcun altro tifa addirittura per la donna rossazzurra invitandola a “darici quattru coppa” come se davvero li meritasse. Tuttavia il mio sdegno è condiviso dalla maggior parte dei presenti.

La donna rossazzurra abbandona l’autobus continuando ad urlare brutte parole mentre quella col capo coperto viene soccorsa. L’autobus riparte e tutti ci guardiamo delusi come se avessimo perso una partita: non di calcio ma di civiltà.

Torniamo indietro di 56 anni, a Montgomery, stato dell’Alabama, negli USA. Qui all’epoca gli autobus sono divisi in tre settori: uno per i bianchi, uno per gli afroamericani e uno neutro per entrambi, ma se un afroamericano occupa un posto neutro quando sale un bianco, se non ce sono altri, deve obbligatoriamente cedergli il posto.

1º dicembre 1955: Rosa Parks, un’afroamericana, viene arrestata perché rifiuta energicamente di alzarsi dal suo posto nel momento in cui un bianco lo esige.

Un anno dopo, dopo il boicottaggio degli autobus intrapreso dalla comunità afroamericana con il supporto di Martin Luther King, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiara fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici in quanto incostituzionale.

Cosa c’è in comune tra quell’episodio accaduto più di mezzo secolo fa e quello accaduto nel nostro quartiere qualche mese addietro?

integrezione3“Razzismo” sembra una parola desueta come se riguardasse periodi storici ormai conclusi che non ci riguardano più. In realtà guardare con occhi diversi gli immigrati è un tranello quotidianamente dietro l’angolo, specie in un periodo di crisi economica (e non solo) come quello che stiamo vivendo.

Al San Cristoforo c’è qualcosa in più che ci lega a queste persone sopraggiunte da lontano: è la povertà, che di certo non è per niente bella ma ci accomuna e ci consente di rispecchiarci nelle debolezze degli altri ritrovando le nostre. E in quale altro modo si possono affrontare le debolezze se non insieme?

In questo i bambini sono dei maestri di vita perché loro, liberi di ogni forma di pregiudizio, riescono a rapportarsi con una naturalezza che supera ogni confine geografico, ogni barriera mentale.

Basta recarsi un pomeriggio qualsiasi al GAPA e li trovi lì, seduti intorno allo stesso tavolo come avviene in ogni famiglia il giorno di Natale: giocano, ridono, parlano e si scoprono come se non potesse essere altrimenti.

E noi adulti invece? Cosa ci impedisce di accorgerci che apparteniamo tutti a una stessa famiglia? Cosa ci fa credere di avere il diritto di sentirci “migliori” degli altri? Solo perché giochiamo in casa? Non abbiamo ancora capito che il mondo è la casa di tutti?

Gli immigrati apprendono da noi le nostre consuetudini: quelle buone e quelle cattive. Si adattano inevitabilmente a noi. Ma noi autoctoni siamo davvero i primi a dare il buon esempio? Davvero rispettiamo tutte le regole del vivere civile? Forse qualcuno sì, ma può capitare lo stesso che a queste persone con la pelle ambrata o gli occhi a mandorla sfugga qualcosa. Ma in tal caso che senso ha cercare di veicolare un nostro pensiero scegliendo uno dei modi peggiori per farlo come ad esempio l’aggressività?

Non sempre è facile passare dalle belle parole ai fatti ma se solo osservassimo i nostri bambini potremmo apprendere da loro parole antiche ma sempre attuali; parole che denotano sì concetti astratti ma che richiedono ogni giorno, con una certa urgenza, di essere tradotte in modo concreto; parole come uguaglianza, fratellanza, tolleranza che dovrebbero appartenerci come l’aria che respiriamo.

E se ancora faticheremo a sentirle nostre queste parole, basterà ricordarsi dei nostri parenti o amici emigrati in altrettanti paesi lontani in cerca di quel pezzo di pane che, oggi più che mai, anche noi siamo chiamati a spezzare per condividerlo con chi ha lasciato la propria terra in cerca di speranza. E la speranza non va negata a nessuno perché tutti ne abbiamo bisogno.