di Ivana Sciacca
“Alcuni di noi sono nati negli anni delle stragi di mafia. Mentre Peppino Impastato e Pippo Fava venivano uccisi. Mentre intere generazioni di ragazzini sparavano ed erano sparati. E i cadaveri per le strade di ogni città e paese non si potevano più contare da quanti erano. Mentre noi crescevamo, qualcuno continuava a morire. Alle elementari abbiamo dovuto fare i conti con le auto imbottite di tritolo di Falcone e Borsellino”.
Le immagini scorrevano da un canale all’altro e a volte “sentendo parlare i grandi avevo l’impressione che avessero uno scopo educativo. Come dire: vedete cosa sappiamo fare? Vedete che fine fanno quelli che giocano a sfidare la nostra ‘giustizia’? A scuola se ne parlò appena, in un modo che non faceva i conti con le nostre domande e paure di bambini”.
Per sapere chi è stato davvero Falcone o Borsellino, quali “gravi colpe” avevano per meritare di morire in quel modo, è stato necessario crescere – in un modo molto difficile – ancora. “Non si sono fatti gli affari loro… Che ci pareva? Che potevano continuare a mettere nei guai i pezzi grossi senza pagare nessun prezzo?”. “Mah… Si sa che da noi funziona così, pensare di cambiare le cose è da folli, perché siamo noi stessi a essere così…”.
Queste le dichiarazioni a caldo – ma anche a freddo – di molti adulti.“Quelle immagini e quelle leggi – neanche tanto invisibili. Tutto questo era accettato come normale. Sono passati decenni ma quelle stragi hanno improntato per sempre le nostre vite”. E il silenzio che è calato dopo, che ha cercato di convincere che da noi funziona così, non è bastato a raggiungere lo scopo educativo che era stato temuto. Quei bambini invocano ancora il riscatto di quelle vite, e la libertà per quella di ognuno. La libertà dalla dittatura mafiosa. E quel silenzio continuano a romperlo. “Anche per questo oggi abbiamo scelto l’Antimafia, seguendo le orme dei Siciliani che hanno sempre trovato la forza nella libertà”.