… e la faccia tosta di chi non garantisce il lavoro
testo e foto Ivana Sciacca
Un tempo si chiamava “sfruttamento minorile”, oggi si è assistito a un mutamento lessicale che ci ha consegnato nuovi termini: stage, tirocinio, apprendistato, etc. Tutte parole che però riconducono alla necessità di sopravvivere, sebbene arrancando.
Naturalmente tutto ciò appare andando oltre la superficie, perché se ci si sofferma lì i paroloni pomposi si sprecano: competenze, professionalità, abilità e tanti altri blablabla con cui mascherare lo sfruttamento del lavoratore che inizia già in età adolescenziale. Inoltre con la Riforma del Lavoro dell’attuale Governo Renzi (il famigerato Jobs Act) la posizione dei lavoratori non farà che peggiorare: i nuovi assunti a tutele crescenti infatti non potranno mai raggiungere la tutela “piena” prevista per gli attuali lavoratori a tempo indeterminato e, come se non bastasse, potranno essere licenziati in qualsiasi momento, anche senza giusta causa e senza l’intervento di un Giudice.
Tutto sembra quadrare in una prospettiva lavorativa che non solo ti vuole precario a vita ma perché no? Anche sfruttato! E al Meridione lo sfruttamento, anzi il “bisogno impellente di sopravvivere alla povertà” inizia molto prima dell’adolescenza. Inizia in tenera età infatti: a volte parttime (per farsi occasionalmente le ossa), altre volte full-time (la dispersione scolastica così assume un senso, spietato ma pur sempre un senso).
Così non ci allarma più il fatto che in tutte le occasioni festive che il consumismo ci propina puntualmente durante l’anno si assista al proliferare di bancarelle abusive che a chiamarle bancarelle viene persino da ridere (o da piangere, a seconda del punto di vista!). Infatti spesso sono solo dei cartoni o dei tavolini di plastica su cui viene adagiata merce di qualsiasi tipo, a seconda delle esigenze del mercato. Un mercato esigente e spietato che mette in ginocchio…
Cuoricini di plastica e peluche per San Valentino, petardi per Capodanno, palme prima di Pasqua e mimosa e fiori per la Festa della donna. E dietro questi fantomatici banchettini ometti di 7-8 anni che si dilettano a fare i venditori. Si dilettano? Beh non proprio. Diciamo che il bisogno li costringe a cimentarsi in queste attività abusive, spesso accompagnati dai genitori, per racimolare qualche soldo che magari consentirà di soddisfare qualche loro capriccio di bambino e più semplicemente permetterà ai genitori di comprare il pane per qualche giorno in più senza farsi fumare la testa sul come, sul come comprarlo appunto.
In questi giorni di festa, questi ometti si mimetizzano perfettamente tra i colori sgargianti della merce che vendono e assumono quasi un’aria di fierezza. Forse si rendono conto di quanto nobile sia il loro piccolo contributo alla loro famiglia? O forse non ne sono affatto consapevoli… Chissà? Ma poco importa e poco ci scandalizza vederli sparsi in ogni angolo della città in questi giorni particolari. E’ brutto dirlo ma ormai si è così assuefatti al bisogno che non riesce ad inquietarci più di tanto.
Naturalmente anche se la distinzione sembra ormai superata (o meglio ignorata), c’è da dire che non tutti i bambini “impiegati” in queste attività danno una mano ai genitori: molti si limitano ad essere un serbatoio di manovalanza per padroni mafiosi che, avvalendosi della loro tenera età, portano avanti i loro progetti di illegalità indisturbati.
Ma per quanto riguarda questi babyvenditori abusivi, questi piccoli eroi che aiutano le loro famiglie, viene spontaneo contrapporre alla loro fierezza e innocenza la faccia tosta di tutti quegli attori istituzionali e sociali che, travolti dai loro fiumi di blablabla, dimenticano che il vero decoro deve prima nascere nell’animo e dopo attraverso azioni concrete che restituiscano i cittadini ai loro diritti, tra cui quello al lavoro.
Ci si auspica ad ogni modo che l’esempio di questi piccoli ometti possa servire agli adulti per migliorare e non demordere, e che il loro piccolo sacrificio di oggi li possa premiare in qualche modo domani, magari non facendoli diventare parcheggiatori o venditori abusivi ma lavoratori onesti piuttosto che schiavi della precarietà. Lavoratori di cui la società possa esser fiera tanto quanto lo sono loro adesso dando una mano alla loro famiglia.