Quando le parole battono la mafia
Elena Alongi
“Posso fare qualche foto?” “Meglio di no perché qui lavoriamo in nero”
Da questa domanda che sembra innocente nascono tutta una serie di domande a cui presto troviamo risposte. Ci troviamo nella falegnameria davanti piazza don Pino Puglisi e stiamo osservando questa struttura piena di macchinari per la lavorazione del legno. Quando attraversiamo il cortile notiamo un cavallo e chiediamo subito al proprietario della falegnameria come mai tenesse un cavallo nel ristretto spazio del cortile. Lui risponde vagamente “non è mio e io non posso tenerlo”.
Quando usciamo dalla falegnameria ci troviamo in piazza Puglisi, chiamata cosi in ricordo di don Pino Puglisi, sacerdote palermitano ucciso dalla mafia che combatté contro di essa istruendo i bambini e impedendogli di seguire le orme dei boss mafiosi di quel tempo. La piazza come ci appare oggi è un paradosso proprio perché è un luogo in cui gli spacciatori si incontrano spesso.
Ma come mai in questo quartiere nessuno vuole spiegare cosa c’è dietro il silenzio dei cittadini?
Ben presto ci spiegano i volontari del GAPA che i cavalli vengono usati per le corse clandestine e che molto spesso vengono affidati a persone che vengono pagate per occuparsene. Scopriamo anche che dietro le corse dei cavalli e dietro lo spaccio di sostanze stupefacenti c’è un’unica associazione che conosciamo molto bene: la mafia
“La mafia uccide e il silenzio pure” così diceva Peppino Impastato e se la mafia continua a esistere ancora oggi è grazie al silenzio, l’unica resistenza a questo fenomeno è il movimento dell’antimafia sociale che va avanti grazie alla consapevolezza delle persone che insieme fanno resistenza. Peppino era un giornalista di Cinisi ucciso dalla mafia perché non voleva diventare come il padre Luigi Impastato, celebre boss mafioso.
Un’altra persona che è riuscita a mettere in difficoltà la mafia grazie al giornalismo è Giuseppe Fava, drammaturgo, sceneggiatore e giornalista, fondatore del giornale “i Siciliani”. Peppe veniva considerato un giornalista “scomodo” perché diceva alla gente quello che non voleva sentirsi dire: la verità. Lottò per spargere la voce che la mafia non era un ideale da seguire ma un associazione criminale che spesso ostacola il diritto di informazione, perché la mafia teme la voce dei cittadini e tende a creare in essi ideali falsi. E come diceva lui “a che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?” che senso ha fingere di non sapere per evitare di agire? Ecco perché chi non vuole sapere è peggiore in confronto a chi non sa. Perché chi non vuole sapere favorisce, volontariamente o no, che movimenti come la mafia piantino le radici nella nostra società. Chi invece non sa può apprendere da persone, associazioni ma anche libri o film e nel momento in cui si apprende si elabora un pensiero personale e si riesce a distinguere cosa è giusto da cosa è sbagliato ragionando con la propria testa. E chi sono le persone che si fanno influenzare più facilmente se non i bambini dei quartieri più disagiati? La mafia punta tutto su di loro perché sin da piccoli possono assumere una realtà distorta del concetto di “giusto”.
L’istruzione viene temuta dalla mafia perché nelle scuole i bambini si confrontano con i compagni e i docenti che in un modo o nell’altro influenzano il loro modo di pensare e di agire. In molti quartieri come quello di san Cristoforo la mafia trova terreno fertile perché si verifica il fenomeno della dispersione scolastica, cioè l’assenza degli alunni a scuola che non viene denunciata, proprio per questo san Cristoforo risulta il quartiere con la maggiore dispersione scolastica.
L’unica cosa da fare è educare i cittadini all’uso dell’istruzione come arma contro la mafia permettendo un proprio pensiero critico così da diventare cittadini del mondo, cioè cittadini “attivi” che si rendono utili e consapevoli di ciò che li circonda.