La scuola dell’obbligo che non obbliga


Lo sfacelo dell’istruzione di base nel ping-pong tra i governi che si sono succeduti nel corso degli anni

Ivana Sciacca

Lo chiameremo Samuel ma avrebbe potuto avere qualsiasi altro nome. Samuel ha 17 anni, ha aspettato avidamente di compierne 16 per abbandonare finalmente la scuola dell’obbligo. Al biennio delle superiori si è iscritto ma ha frequentato solo occasionalmente senza per questo destare la preoccupazione di nessuno, a parte dei suoi genitori.

Saranno migliaia i ragazzini che come lui vivono il compimento dei 16 anni un po’ come la maggiore età per poter vivere finalmente in “libertà” sbarazzandosi della scuola, dei libri e degli insegnanti. Una forma di libertà molto simile a una gabbia, molto simile all’anarchia.

Per loro la mattina non suona nessuna sveglia, impegni non ne hanno, il lavoro sembra addirittura un’utopia. E tutto questo nel migliore dei casi, perché nel peggiore dei casi il loro tempo è scandito dagli impegni presi con i mafiosi del quartiere che, fregandosene di tutto, li “assumono” alle loro dipendenze per spacciare, per rubare, per fare qualsiasi cosa illegale. Così: senza scrupoli.

Quelli come Samuel vengono chiamati NEET (Not in education, employment or training): giovani che non hanno un’occupazione né precaria, né di formazione, né di inclusione sociale. Secondo l’ISTAT nel Mezzogiorno la quota di NEET è doppia rispetto a quella del centro-nord.

Perché i NEET sono bassamente scolarizzati quando l’obbligo scolastico e formativo arriva, rispettivamente, ai 16 e ai 18 anni? Perché di fatto si può non andare a scuola perché manca un’anagrafe nazionale degli studenti, non si sa nulla di loro. Le Regioni dovevano costituire le anagrafi e non lo hanno mai fatto. Il tasso di abbandono scolastico è elevatissimo e i NEET sono in crescita.

Ma com’è possibile che l’istituzione scuola abbia dato la possibilità di abbandonare il percorso formativo a questi ragazzi? Che non solo rimangono in mezzo a una strada (e non solo in senso metaforico) ma rimangono addirittura con un pugno di mosche in mano, senza nessuna competenza, senza nessuna qualifica, senza niente.

Bisogna fare un salto nel tempo per cercare di capire, per provare a dare un senso (ammesso che ce ne sia uno!) a quest’amarezza che ci invade ogni volta che qualche ragazzo crede che, abbandonando la scuola, conquisti la sua libertà.

In Italia l’obbligo formativo è stato istituito nel 2000 con la legge De Mauro- Berlinguer. Questa legge prevedeva l’obbligo di frequenza e l’obbligo di conseguire un titolo di studio. Gli oneri scolastici sarebbero gravati almeno parzialmente sullo Stato: infatti si partiva dal presupposto che l’istruzione di base fosse un diritto fondamentale del cittadino, di qualunque cittadino.

Inoltre si prevedeva l’innalzamento dell’obbligo da 8 a 10 anni attraverso un riordino dei cicli scolastici: si auspicava l’unificazione tra scuola elementare e scuola media accorciando il percorso di un anno in modo che negli ultimi tre anni di scuola superiore gli studenti avrebbero potuto conseguire una qualifica.

All’interno di questo quadro c’era un senso anche per il NOF (Nuovo Obbligo Formativo), ossia il diritto-dovere di permanere nei vari canali della formazione-istruzione fino alla maggiore età. E fin qui tutto chiaro.

Poi nel 2003 con la Riforma Moratti si è verificata un’anomalia che lasciava presagire la catastrofe formativa che da lì a qualche anno si sarebbe verificata. La “ministra” infatti annullava l’obbligo scolastico mantenendo solo quello formativo: ciò equivaleva a dire che dopo le scuole medie se gli studenti non si fossero iscritti alle scuole superiori o ad un corso di formazione, avrebbero potuto optare per l’apprendistato consistente in forme alternate di formazione e lavoro.

Il tira e molla sull’innalzamento dell’obbligo scolastico continua tra i diversi ministri dell’Istruzione per diversi anni: nel 2006 è Fioroni a ripristinarlo; nel 2008 con la Riforma Gelmini l’obbligo scolastico è sì fino a 16 anni ma poteva essere assolto anche soltanto attraverso l’apprendistato (e non consideriamo i tagli vertiginosi che la stessa “ministra” ha attuato alla scuola che così si è ritrovata ad essere più impoverita di quanto già non fosse. Giusto perché l’istruzione è un diritto di base!) Ma non finisce qui.

L’ apprendistato è diventato anche lo strumento principe della Fornero (Ministro del Lavoro e delle politiche sociali dello scorso anno) nella sua riforma per l’imposizione della flessibilità : un vero e proprio contratto schiavitù con la quale si è cercato di inserire nel mondo del lavoro un esercito di giovani tra i 16 e 29 anni con contratti a termine, sottopagati fino a due volte in meno rispetto alla categoria di riferimento.

Samuel forse tutte queste cose non le sa ma ha deciso che “la scuola non serve a niente”, e come lui chissà quanti altri la pensano così.

A volte ho la tentazione di pensare che abbiano ragione loro visto che, anche con una quantità inimmaginabile di titoli di studio, il mondo del lavoro resta quello che è: un labirinto insidioso che, sotto l’ala della flessibilità e del precariato, ti offre poco o niente e ti predispone ad accontentarti, o peggio ancora a demoralizzarti.

Ma poi scuoto la testa, mi risveglio: non è possibile che la scuola non serva a niente. Dovrebbe servire non solo per imparare ma soprattutto per crescere bene: per formare quelli che saranno i buoni cittadini di domani.

La scuola dovrebbe “favorire il pieno sviluppo della persona nella costruzione del sé, di corrette e significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale”: leggo queste parole in una delle tante leggi che hanno provveduto a distruggere il nostro sistema scolastico. Parole splendide che sono rimaste come elementi decorativi solo sulla carta, la stessa carta che tutti i ministri e tutti i governi hanno usato come carta igienica.

“Mammoni”, “bamboccioni”, “fannulloni”, se non addirittura “schizzinosi”. Così alcune tra le più alte cariche dello Stato italiano hanno definito i giovani.

Di contro, la parola “giovani” è stata la più abusata dai politici, soprattutto durante le campagne elettorali e, a guardare gli investimenti economici degli ultimi 20 anni, una parola e una categoria alla quale sono state date pochissime possibilità.

Perciò non ci resta che ringraziare. Grazie a tutte le istituzioni che continuano a prodigarsi affinché Samuel e tutti i cittadini di domani rimangano mediocri e senza speranze.