Quando il sistema ti vuole apatico, senza speranza o morto
di Ivana Sciacca, foto Stefania Di Filippo
“Tra qualche giorno sarà passato un anno esatto da quella che reputo la svolta della mia vita. Smettere di assumere stupefacenti è stato come venire al mondo una seconda volta”. Esordisce così Silvia: la confessione le pesa ma si affida al potere catartico della condivisione e perciò continua la sua testimonianza ripercorrendo gli anni bui della sua adolescenza.
“Quando ho iniziato a sballarmi sembrava un passatempo da weekend. Non sospettavo che quel “gioco” sarebbe diventato presto la mia prigione. La prima volta che acquistai da un pusher ero poco più di una bambina, frequentavo ancora le medie. All’inizio mi sembrava un modo per ribellarmi a ciò che mi circondava, un esilio da un mondo sbagliato che non ti vuole e che perciò rinneghi a tua volta. Ai miei occhi di adolescente c’erano cose ben più gravi che drogarsi: le ristrettezze economiche, ciò che causavano, le incomprensioni costanti e l’impotenza di poter cambiare una virgola. Il mio disagio ci mise poco a condurmi verso amicizie sbagliate e amori distruttivi. Per molto tempo mi è sembrato che in quel campo chiamato “vita” io non sarei potuta mai fiorire. E il paradosso era che sbocciare sarebbe dovuto essere un mio diritto a quell’età.”
Con rammarico dice che la sua probabilmente è stata davvero una “gioventù bruciata” ma poi aggiunge che è stata fortunata lo stesso visto che c’è ed è ancora viva. Alcuni suoi amici sono morti: non sono né sbocciati né fioriti, “mangiano solo terreno”.
“All’inizio con i miei amici andavamo a Librino per comprare. Il codice di gesti, sguardi e movimenti è preciso, chiaro per qualunque acquirente. Una sorta di codice comportamentale universale valido in qualsiasi quartiere degradato del mondo.
Una volta ci beccarono i poliziotti in borghese al palazzo di cemento: uno di loro mi disse che avrei dovuto vergognarmi. Ebbi un po’ di paura: lo sapevo che in un modo o nell’altro mettevo a repentaglio la mia facciata di brava ragazza. Avrebbero potuto schedarmi come tossica o trovarmi roba addosso e sbattermi in galera. Queste cose io le sapevo ma non mi persuadevano a smettere. Dopo quell’episodio cambiai zona dirigendomi al San Cristoforo. Alle 15 di ogni pomeriggio mi intrufolavo in quelle viuzze strette raggiungendo il cuore del degrado. Ci andavo anche da sola per non dare nell’occhio ma mi pesava: passare davanti ai bambini che facevano da sentinelle nel caso si avvicinasse qualche volante di “sbirri”; gli sguardi delle signore sedute davanti ai loro usci che sembravano serbarmi disprezzo. Lì la mia facciata di brava ragazza crollava: diventavo come chi me la vendeva, una complice del sistema mafioso. Mi pesava pure dover girare a zonzo finché andavano a prenderla o doverla nascondere addosso. Ad un certo punto mi chiesi perché. Perché mi sottoponevo a tutta quella miseria?
Non mi costringeva nessuno quindi perché non ero in grado di essere libera? I pretesti che chiamavo in causa cominciavano a fare acqua da tutte le parti, mi rendevo conto che non era vero che attraverso lo sballo mi scivolasse tutto addosso e mi sentissi più serena. Era vero piuttosto che tutto ciò che scivolava mi stava seppellendo giorno dopo giorno e di certo era una serenità artificiale la mia. Quando cominciai a valutare l’ipotesi di smettere la sofferenza fu atroce: cominciai a soffrire di insonnia e quando riuscivo ad addormentarmi avevo gli incubi. La mia coscienza si stava risvegliando. Fu una lotta tra me e me e mi resi presto conto che non avrei mai potuto vincere senza l’aiuto di qualcuno. Mi recai al Sert più vicino con la speranza che il tossicologo mi dicesse di smettere gradualmente. Invece dovetti smettere di colpo dopo più di 10 anni di assuefazione. Mi resi conto che non soffrivo perché stavo smettendo. Soffrivo perché avevo perso di vista me stessa per tutto quel tempo. Ritrovarmi è stata una gioia, un cammino che continua ancora oggi”.
Silvia sigilla con un sorriso la sua storia. Di ragazzi come lei coinvolti in storie di droga ne è piena la città ma anche i cimiteri. Chiunque sa perfettamente quali siano i quartieri dove si può reperire fumo, cocaina, eroina. Sono quartieri dove puntualmente le forze dell’ordine fanno dei blitz ma dove non cambia mai nulla. Gli spacciatori sono giovani come Silvia: quando vengono arrestati, sono subito rimpiazzati da altri giovani. L’attività di spaccio, che produce tanti soldi quanta miseria, non si ferma mai: altrimenti non si potrebbero pagare gli avvocati. In questo modo si alimenta un sistema che non ti vuole lucido ma apatico, senza speranza o morto. Non fa differenza.
Tutto ciò è risaputo da chi nei quartieri ci vive da vittima e da complice, da chi ci va come se andasse al supermercato, da chi non ci va mai perché timoroso della peste che dilaga, ma soprattutto dalle istituzioni che non muovono un dito perché scoperchiare sfacciatamente questo giro significherebbe un testa a testa cruento con la mafia e il coraggio di proporre valide alternative. Finché non ci saranno alternative a questo modo di vivere mafioso infatti questo cane rabbioso continuerà a mordersi la coda.
Ma per chi ci governa è più semplice sprofondare nella propria poltroncina e insabbiarsi la testa come gli struzzi. Peccato solo che così facendo sarà insabbiata anche la speranza di tutti quei giovani che non hanno ancora avuto la stessa forza di rifiorire di Silvia. Perché si sa: nel deserto non può esserci alcuna primavera.