Un pomeriggio a Jungi, quartiere periferico di Scicli
testo e foto di Michela Lovato
“Cos’è successo?” chiede Marta avvicinandosi. Sara cambia tono ed espressione “Io niente ho visto”. Marta continua a chiedere cos’è successo, nessuno risponde, nessuno ha visto niente.
Il gioco tra i bambini riprende dopo che Marta si è allontanata. Sono le quattro del pomeriggio. A Jungi, quartiere di periferia di Scicli, il tempo sembra fermo: c’è silenzio, non una mosca, il sole illumina i mattoncini rosa e le ringhiere arrugginite e mancanti di molti pezzi. Fa davvero caldo.
Il quartiere inizia a svegliarsi intorno alle cinque e mezza, orario in cui i ragazzini si danno appuntamento in piazzetta e si divertono a girare in motorino sui marciapiedi e a impennare lungo la salita. È il gioco che li impegna fino a sera tardi, senza casco, ma questo non stupisce nessuno, non quando a giocarci sono ragazzini di quattordici anni e quando sono i padri a urlargli di fare più veloce, di alzare di più la ruota davanti, di superare in velocità chi il giro l’ha fatto prima. Con le urla dei ragazzi, scendono in piazzetta anche i primi bambini.
C’è Micael, sette anni, a terra, ha un taglio sotto la gamba che sanguina, non parla. Neanche si rialza dopo essere caduto. Sara, nove anni, sta urlando, parla in siciliano, è arrabbiata con Dario che ha cinque anni e la fissa con aria di sfida. Gli altri tre bambini si allontanano subito.
Dario e Micael litigano per il pallone di continuo, iniziano a stuzzicarsi. Un momento dopo Dario è a terra e Micael scappa verso casa. Si affaccia la mamma di Micael “Micael, chi fu?” chiede urlando. Micael le spiega che Dario gli ha sputato addosso e allora lui gli ha dato un pugno. “Glielo hai dato forte?” si rassicura la mamma. Micael raddrizza le spalle, con lo sguardo orgoglioso le dice “certo mamma, è pure caduto dalla panchina”.
“Bravo! La prossima volta daglielo ancora chiù forti!” La mamma di Micael, ha ventinove anni, ha il viso stanco ma è bella. Ha due figli, oltre Micael, c’è Federico che ha appena un anno. Suo marito è in carcere, ci resterà altri undici anni, per traffico internazionale. Vorrebbe andare via dal quartiere, ma non si può permettere una casa altrove. Mentre Micael corre verso la piazzetta, la madre continua “L’anno prossimo lo iscrivo a boxe. Qui o picchi più degli altri, o non ci stai. A me non piace che mio figlio cresca così, ma è la filosofia del quartiere e noi ci dobbiamo adattare”.
In piazzetta arriva anche Giusy, con sua figlia Aria. La tiene per mano, poi, quando la bambina va a giocare, non le stacca gli occhi di dosso. “Non la faccio scendere a giocare sola, mai. Devo fare attenzione a come gli altri si comportano con lei e fare attenzione a come lei si comporta, perché se per sbaglio fa male a qualche bambina in particolare mi vedo spuntare i genitori sotto casa e io problemi non ne voglio. Una volta delle bambine hanno lasciato da sola mia figlia per un pomeriggio, ferma in mezzo alla strada, per farle uno scherzo, e io non ho potuto fare nulla, sono stata zitta, perché mio marito mi ha vietato di andarmi a lamentare. Ma so che se mia figlia si permetterà di fare scherzi o farà male a qualcun altro durante il gioco, io e mio marito ci possiamo trasferire”.
“Io me lo ricordo com’era, so cosa vuol dire crescere qui”. Si ferma a guardare i bambini che giocano a nascondino. “Quando ero piccola venivo qua ogni giorno, mia mamma mi lasciava andare ma avevo l’ordine che quando usciva in piazzetta Rosario, il ‘capetto’, dovevo tornare a casa. Per il resto era più tranquillo di adesso”.
“Adesso in quartiere non c’è più vita, non c’è più tranquillità” continua, guardandosi intorno “c’è un parchetto piccolo dietro casa mia, lo hanno distrutto in due notti da quando lo avevano sistemato, ho pure fotografato delle siringhe che ho visto per terra. Io lì mia figlia non ce la porto”.
Giusy viene interrotta da Giulia, mamma di Caterina, sette anni, che si avvicina per controllare che la figlia stia frequentando le compagnie giuste “Non si deve avvicinare a Giovanna” dice “e neanche alle bambine rumene. Se lo fa, me la riporto a casa”. Silvana ha otto anni, ha sentito e dice piano “Con Caterina abbiamo litigato perché vuole uscire con la bici anche quando a me mia mamma dice che non posso. Non è giusto, se io non posso usare la bici, non la deve usare nessuno”.
Se uno non può fare una cosa, per vari motivi, non la deve fare nessuno: è una regola del quartiere. Così Leandra, quindici anni, ha lasciato il gruppo della parrocchia perché nessuno dei suoi amici ci voleva andare “Le cose si fanno insieme” spiega “Se gli altri del gruppo non vogliono fare una cosa, non la fa nessuno. Però quando mia mamma la sera non mi fa uscire, non esce nessuno della piazzetta, per rispetto. È una regola nostra, dopo quella del massimo rispetto per tutti”.