Miei cari devoti concittadini, egregi signori della curia vescovile,
a lungo ho subito in silenzio le angherie e l’arroganza della vostra supposta devozione nei miei confronti. Mi sono lasciata trascinare anno dopo anno lungo le strade di una città che non amo e di cui non vorrei essere “patrona”. Ma ora voglio dire basta!
Nel nome della fede per cui ho subito il mio martirio di donna e di cristiana, nel nome della nonviolenza e della legge dell’amore testimoniata da Cristo, sospendete i festeggiamenti a me dedicati, sospendete una festa che io rifiuto in quanto manifestazione massima di tutto ciò che di peggio questa città possa esprimere: illegalità diffusa, l’abusivismo e il controllo mafioso del territorio, l’affarismo becero della cera, la violenza dei fuochi d’artificio sparati senza criterio in ogni angolo di strada, l’arrustiemangia dei cadaveri di quei poveri cavalli prima torturati e poi macellati dentro le stalle e nelle corse clandestine, nobili creature di Dio martirizzate per il gusto sadico del palato sulle fetide griglie a cielo aperto.
Non le mie reliquie, ma quelle di Quinziano dovreste portare in processione durante quei due giorni di festeggiamento: è lui il vero patrono di quella massa che affolla e trascina il fercolo con lo stesso spirito della mondanità nottambula e consumistica del sabato sera. Sì, il mio carnefice sarebbe il degno patrono di quella processione a cui mi costringete in interminabili percorsi urbani senza regola alcuna e senza limiti di orario. I miei devoti vestiti di bianco e così pittoreschi nel loro grido di fede sono in maggioranza gli eredi più genuini del maschilismo e della prepotenza di quel Quinziano che tentò di possedermi con la forza, quell’uomo di potere contro cui io ebbi il coraggio di ribellarmi. La curia catanese è degna rappresentante, nel suo silenzio complice, di tutto ciò che offende la spiritualità della fede sotto la meschina etichetta di tradizione popolare, dallo smercio della cera, all’arrustiemangia ad ogni angolo di strada. Purtroppo sono consapevole che questa mia lettera giunge a voi ormai troppo tardi perché non avrà alcun potere di evitare che il martirio si ripeta.
Purtroppo è ormai vicino il giorno in cui le mie stanche reliquie verranno trascinate a forza fuori dalla mia serena prigionia per essere portate in processione lungo le strade della vecchia Catania dai cosiddetti miei devoti, molti dei quali arroganti teppisti, esponenti della delinquenza locale e manovalanza delle famiglie mafiose catanesi. Già da oggi quelle stupende architetture vaganti delle candelore stanno girando per le strade dei quartieri di San Cristoforo, degli Angeli Custodi e di tutto il centro storico catanese, a marcare mediante soste notturne il controllo del territorio da parte di questa o quella famiglia vincente.
Ve lo ripeto una volta per tutte, miei cari concittadini: io non condivido i vostri annuali festeggiamenti e anzi li considero da decenni il mio vero martirio a cui vorrei sottrarmi nel nome della fede e del mio essere stata una donna che ebbe il coraggio e la forza spirituale di ribellarsi alla violenza maschilista del potere; quell’infamia da cui la curia catanese non ha mai voluto prendere le distanze, nemmeno il giorno in cui consegnarono le mie reliquie a mani macchiate di sangue, a quei teppisti ultras che ventiquattrore prima avevano scatenato la violenza omicida davanti allo stadio, nemmeno il giorno in cui l’arroganza dei cosiddetti devoti mi costrinse a vagare per tutta la notte fino al mattino inoltrato per poi travolgere e uccidere un innocente lungo la salita di San Giuliano. In quei giorni la mia anima subì davvero una violenza assai peggiore di quella inflittami dal mio carnefice.
Oh, come vorrei che mi lasciaste risposare in pace laggiù dentro la mia cripta, a sognare il sogno per cui ho sacrificato la mia breve vita, il sogno dell’avvento di un mondo di pace e di uguaglianza un mondo in cui gli ultimi saranno i primi e saranno i primi per il semplice fatto che non ci saranno più né ultimi né primi perché tutte le differenze di genere, di razza e di specie saranno non più motivo di discriminazione e di sfruttamento ma la radice stessa dell’uguaglianza e del diritto alla vita e alla felicità di tutte le creature di Dio.
Anonimo