L’utilità di un mezzo di comunicazione dipende dall’uso che se ne fa
Ivana Sciacca
A chi non capita di collegarsi ad Internet con una certa regolarità? Chi non possiede un computer, un tablet o un i-phone per connettersi? Quante volte in una settimana spediamo e-mail, tagghiamo i nostri amici su Facebook o cerchiamo un’informazione di qualsiasi natura sul web?
Sembra che Internet sia entrato nelle case di chiunque con una certa facilità. In realtà, potersi connettere alla rete rimane un privilegio: perché se è vero che negli ultimi anni i costi per la connessione si sono abbassati, è anche vero che finché non sarà garantita a tutti l’accessibilità gratuita, si continueranno ad alimentare gravose disparità, soprattutto a carico delle nuove generazioni.
I ragazzi che non hanno un pc (e una connessione) a casa inevitabilmente avranno meno dimestichezza nell’utilizzarlo rispetto a chi ha la possibilità di “smanettarlo” durante il giorno.
Ma i ragazzi che invece hanno questa possibilità? Cosa vanno a fare su Internet? Linkano, chattano, taggano. In una sola parola: condividono. Condividono immagini, filmati, canzoni, aforismi e chi più ne ha più ne metta, sminuendo spesso la portata innovativa della rete che permette di fare tante altre attività, magari anche più proficue.
I social network come Facebook o Twitter hanno decisamente la meglio tra le attività online preferite dai giovani.
Da questo punto di vista si configurano come importanti strumenti di democratizzazione visto che permettono (almeno in teoria) di dare voce a tutti in modo paritetico e rappresentano un progresso per la libertà di espressione.
Ma possiamo considerarli davvero così social? Questo bisogno di condividere con gli altri restandosene comodamente rinchiusi nelle proprie camerette non è paradossale?
Probabilmente non si può scoprire su Internet cosa si cela dietro questo bisogno di condivisione “mutilato”. Bisogna abbattere barriere reali: bussare alle porte dei nostri ragazzi, far loro abbassare il volume su youtube, distogliere il loro sguardo dal monitor e… parlare.
La comunicazione umana, più di qualunque altra, è in grado di filtrare tante piccole sfumature che aiutano a comprenderci meglio: uno sguardo preoccupato, un’espressione dubbiosa o un sorriso raggiante non potranno mai trovare un equivalente assoluto nel linguaggio della rete.
A tal proposito anche le emoticons, le faccine usate per indicare stati d’animo, risultano solo un irrisorio tentativo di riprodurre le emozioni vere delle persone.
Le nuove forme di socialità promosse dai social network non devono e neanche possono sostituire quelle tradizionali: non vi è alcun dubbio infatti sul fatto che fare una passeggiata con un amico, facendosi raccontare come sta, abbia un valore affettivo superiore rispetto a lasciargli centinaia di commenti sulla bacheca di Facebook.
Al solito l’utilità di un mezzo di comunicazione dipende dall’uso che se ne fa: spetta al singolo individuo non farsi sovrastare. Stabilire un punto d’equilibrio. Evitare soprattutto che queste nuove forme di socialità diventino nuove forme di emarginazione.
Per quanto riguarda i ragazzi, i genitori hanno la responsabilità di tutelarli affiancandoli durante la navigazione, informandoli dei pericoli cui possono incorrere, assicurandosi che rispettino lanetiquette ( ossia le norme di buona educazione in rete) e, perchè no, sbirciando i loro profili online: infatti spesso è proprio qui che riversano tutte le parole non dette.
Internet si configura, ancora oggi, come una giungla selvaggia visto che per molti versi sfugge ad ogni forma di regolamentazione. Essere adescati da pedofili o essere bersagliati da bulli sono pericoli reali per i minori che navigano in rete. E spesso possono avere risvolti agghiaccianti: come nel caso di Carolina che il mese scorso si è suicidata a Novara a soli 14 anni lanciandosi dal terzo piano della sua casa perché alcuni suoi coetanei la prendevano in giro su Facebook.
Tragedie di questo tipo forse a volte capitano perché il livello di attenzione nei confronti dei ragazzi è molto basso, e in alcuni casi inesistente.
Prendersi concretamente cura delle persone che ci sono care è un atto d’amore che nessun progresso tecnologico dovrebbe mai soppiantare. Se capita, c’è qualcosa che non va.