di Giovanni Caruso
Abbiamo intervistato, Don Ezio Coco parroco della chiesa di “San Cristoforo alle sciare” giovane e pieno di volontà ci racconta la sua missione pastorale e sociale nel nostro “maltrattato quartiere”.
Sappiamo che la sua esperienza di sacerdote fonda le sue radici come missionario in Africa, quale filo rosso può collegare la sua esperienza africana a un quartiere, come San Cristoforo?
Si, ho vissuto per un anno, un’esperienza missionaria presso la Parrocchia di Migoli nella regione di Iringa in Tanzania a cavallo tra gli anni 2006 e 2007. Ritengo che ci sia più di un filo rosso che lega Migoli a San Cristoforo, la missione nasce dove c’è l’uomo e l’umanità, In modo speciale San Cristoforo è ancora di più terra di missione perché è sempre più dimenticata da tutte le istituzioni.
Sono arrivato a San Cristoforo da appena due anni ed ho ancora bisogno di capire bene alcune dinamiche del quartiere.
Crede che fare il parroco nel nostro quartiere la possa definire prete di “frontiera”?
Questa della Parrocchia “San Cristoforo alle Sciare” è la mia prima esperienza di parrocato. Quando sono arrivato a San Cristoforo, ho avuto qualche difficoltà perché non conoscevo per niente il quartiere, se non per sentito dire. In origine sono arrivato con i soliti pregiudizi di chi arriva per la prima volta.
Mapoi ho detto tra me e me che sarei stato un ipocrita se non avessi accolto con gioia questa nuova missione allo stesso modo della precedente in Tanzania: come si può essere missionari in Africa se prima non si è missionari a casa propria e nella propria città? Non mi sento prete di frontiera perché la frontiera indica un ostacolo, una barriera. Già nel nostro quartiere ce ne sono troppe di frontiere! Noi uomini di Dio, non possiamo e non dobbiamo creare ulteriori frontiere…
Come pensa di affrontare “uno stato sociale” da troppo tempo degradato e che produce disagio, disoccupazione, povertà, negazione dei diritti più elementari, l’oppressione della cattiva politica e delle mafie?
Esordisco dicendo che tutti noi che operiamo a San Cristoforo non siamo i supereroi inviati a salvare il mondo… ognuno di noi è chiamato ad interagire secondo le proprie energie e possibilità. Con questo evidentemente non voglio lavarmi le mani, ma intendo sottolineare che una cultura non può cambiare ed essere trasformata dall’oggi al domani; piuttosto è necessario investire e puntare sulla formazione, informazione ed istruzione.
Il compito della Chiesa nella società è quello di essere profetica: di punzonare le istituzioni perché eroghino i servizi senza abusi, non come favoritismi personali, ma come diritti dei cittadini; incoraggiare la gente a chiedere ciò che gli è dovuto di diritto ed a battere i pugni sul tavolo qualora sia necessario; scoraggiare la logica della “raccomandazione” per evitare politici servilismi.
Crediamo che il parroco di San Cristoforo non possa fare tutto da solo, ha un progetto per aggregare i giovani e le giovani del quartiere in modo da creare un gruppo che può supportare la sua missione sia pastorale che sociale?
Assolutamente concordo col fatto che non posso lavorare da solo perché la Chiesa è comunità e soprattutto è “Popolo di Dio” che non assiste, non è spettatore, ma è protagonista della Chiesa stessa. Il mio obiettivo non è quello di riempire la chiesa a tutti i costi con gente proveniente da svariate realtà di Catania, ma incoraggiare i “Cristofolani” stessi ad “abitare” la loro parrocchia. Il gruppo di animatori, deve quindi nascere da parrocchiani con coscienze formate alla relazione, alla società ed alla fede.
A livello sociale è urgente creare una rete capillare con tutti gli “uomini di buona volontà” che operino per il bene comune. L’incontro con voi, amici del GAPA, è stato un evento molto produttivo che ha instaurato un dialogo con giovani che si scommettono quotidianamente al fine di formare coscienze critiche e pensanti nel quartiere.
Sottolineo l’urgenza di una continuità e di un incremento nel lavoro di rete e nel dialogo per trasformare la cultura di morte che si respira, in una cultura di vita; mi riferisco ai problemi dello spaccio di droga, dell’alcolismo, dei giochi d’azzardo, di povertà e disoccupazione, delle mafie, ecc…
Il parroco di San Cristoforo ha il supporto dell’arcidiocesi di Catania e in che termini?
Ovviamente la mia presenza a San Cristoforo rappresenta la diocesi perché sono inviato dal Vescovo; sento la vicinanza del Vescovo perché mi ha inviato il Diacono Salvatore Caio per sostenermi nel ministero; ha incaricato l’ufficio tecnico della Curia per effettuare dei lavori di manutenzione del palazzo parrocchiale; spesso paternamente mi telefona per avere notizie sull’andamento delle attività parrocchiali.
Certo, però, mi rendo conto che in un progetto a più ampio respiro, la diocesi di Catania, dovrebbe puntare maggiori energie presso i quartieri come San Cristoforo e Librino (per citarne alcuni), decentrando e rimodulando la pastorale del centro storico di Catania, maggiormente ricca di parrocchie poco abitate.
Come Lei sa, le organizzazioni cattoliche e laiche del terzo settore privato hanno a disposizione notevoli finanziamenti che normalmente servono per progetti a medio tempo, e che molte volte non servono al vero fine, ma piuttosto “a foraggiare” le organizzazioni, creando come ci racconta la cronaca anche corruzione e assistenzialismo che rende dipendenti i cittadini che dovrebbero usufruirne e non come cita il vangelo “non regalare il pesce ma insegna ai pescatori come pescarlo”.
Anche se la citazione, “non serve regalare pesce, bisogna insegnare a pescare”, è di Muhammad Yunus, padre del microcredito, la Chiesa cita questo proverbio a difesa dei piccoli, per “essere voce di chi non ha voce”.
Sono da poco a conoscenza di qualche progetto del terzo settore privato, in quanto sono già stato invitato come partner, ma mi sono subito tirato fuori perché ho notato delle notevoli sperequazioni nelle distribuzioni dei budget previsti a favore dei servizi destinati ad alcuneparrocchie.
Per il resto non sono molto informato su altri progetti, ma spero che si cerchi di investire nel tempo ad “insegnare a pescare”, per evitare di cadere in insidiose trappole di servilismo e dipendenza.
Desidero concludere il dialogo con voi e amici lettori con una citazione di Don Oreste Benzi, che faccio mia riproponendovela: “leggere i fatti alla luce del Vangelo; denunciare senza timore le ingiustizie; utilizzare un linguaggio semplice, diretto, capace di trasmettere serenità ma anche indignazione di fronte alle ingiustizie; entrare in empatia con chi sta di fronte; ridare entusiasmo ad una fede intorpidita. Non si può vincere il male limitandosi a denunciare il bene che manca. Gesù è venuto prima di tutto a vivere e la sua vita è testimonianza di bene…”