Ci sono quartieri stracolmi di persone agli arresti domiciliari
di Paolo Parisi, foto Archivio Giovanni Caruso
Camminando per le strade di San Cristoforo capita spesso di vedere uomini affacciati dal terrazzino della propria abitazione o davanti l’uscio delle case a piano terra. Stanno fermi, immobili per ore ed ore, come sentinelle in garitta, sembrano guardiani del territorio. Sono persone agli arresti domiciliari e stanno lì nella speranza di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno di loro conoscenza quando passa davanti la propria abitazione.
Molto spesso si sente parlare di carceri sovraffollate, ma non si tiene in considerazione che ci sono quartieri stracolmi di persone agli arresti domiciliari e San Cristoforo è uno di questi, un quartiere carcere dove tanti detenuti si trovano a scontare gli arresti presso la propria casa.
Ma nessuno si chiede come fanno questi detenuti a vivere nella propria dimora senza avere un reddito. Spesso le famiglie di chi sconta la pena agli arresti domiciliari sono monoreddito e le rispettive mogli o conviventi hanno enorme difficoltà a trovare un lavoro, già è difficile per chi ha un mestiere figuriamoci per coloro che senza nessuna specializzazione desiderano intraprendere una occupazione. Queste donne possono fare soltanto lavori domestici, ma in questo campo c’è una concorrenza spietata.
“Non posso pagare l’affitto della casa ed ho lo sfratto in corso,” mi dice un uomo affacciato ad una finestra “devo scontare ancora due anni di reclusione. Ho da pagare due bollette dell’Enel e da un momento all’altro mi staccheranno l’energia elettrica. Mia moglie è andata dall’assistente sociale, ma questa le ha detto che il comune non può fare niente, così le ha suggerito di andare alla Caritas e portare le fatture da pagare. Fiduciosa mia moglie si è recata alla Caritas ma anche in questo caso si è sentita dire che loro non possono fare niente, non fanno questo tipo di intervento”.
Incontro la moglie di un altro detenuto ai domiciliari che mi dice: “a casa siamo senza gas, non abbiamo niente da mangiare, qualche mese fa sono andata dal parroco della chiesa e mi ha detto che sarebbe passato qualcuno della parrocchia per aiutarci, ma fino ad oggi non si è visto nessuno, sono andata in un’altra chiesa ma il parroco mi ha detto che mi devo rivolgere alla nostra parrocchia di appartenenza. Se non fosse per la solidarietà dei vicini non sapremmo come fare”.
Salendo le scale di un palazzo per andare a trovare la famiglia di un ragazzo che frequenta il nostro centro GAPA, una donna che già ci conosce mi viene incontro e dice: “Siamo disperati non sappiamo come fare, mio marito si trova agli arresti domiciliari con il permesso di andare a lavorare però io non so come trovargli un lavoro, l’avvocato ci ha suggerito di recarci dal parroco e dagli assistenti sociali e farci fare una lettera dove invita il magistrato a concedergli qualche ora di permesso per lasciare l’abitazione e cercarsi lui stesso un’occupazione. Già il parroco della nostra parrocchia si è rifiutato perché non vuole prendersi nessuna responsabilità, sono sfiduciata, probabilmente l’assistente sociale mi dirà la stessa cosa”.
Possibile che il Comune non è in grado di prevedere e risolvere i bisogni primari di questi cittadini che hanno commesso un errore durante la loro vita? Possibile che lo Stato non si interessa di questi problemi che sicuramente saranno nazionali? Queste persone trovandosi in situazioni così disperate potrebbero fare delle azioni inconsulte oppure spinti dalla necessità potrebbero continuare a delinquere vedendosi passare davanti tante opportunità di guadagno. Le istituzioni scaricano sui privati ciò che uno stato civile non vuole affrontare.