San Libero – 126

Palestina-Israele. Una donna e i suoi due bambini ammazzati da un carro armato; un altro bambino da una cannonata. “Ci rincresce”, hanno detto i militari. Va bene. È passata già una settimana, e quindi immagino che sia di cattivo gusto parlarne ancora (sarò antisemita, per questo?). Un assassinio scaccia l’altro dai giornali, una strage di ebrei cancella una strage di palestinesi, e viceversa. Gli assassini si strappano l’un l’altro le prime pagine con le mani insanguinate.
Raffinatezze: la bomba nella sala giochi ammazza più statisticamente più giovani maschi che una bomba alla fermata del tram. Dunque è più efficace. Qualcuno avrà fatto questo ragionamento, suppongo, e dopo averlo fatto avrà anche impiegato una mezz’ora a giustificarlo con qualche nobile ideologia o religione, per consentire agli imbecilli come me di dare delle ragioni all’uno o all’altro assassino.
I giornalisti seri, immagino, in questo momento dovrebbero elevarsi al di là del contingente e parlare della “situazione politica in Medio Oriente”. Io non ci riesco. Rifletto sul fatto che a Jenin i bambini muoiono ancora così (movimento sospetto:fuoco!) una settimana dopo la fine dei combattimenti. Immagino dunque che cosa sarà successo durante. Immagino e non saprò mai, perchè l’inchiesta sull’eccidio di Jenin – per ordine di Sharon, e per viltà dei paesi civili – non si farà mai. Sono dunque autorizzato a credere che si sia trattato di un’altra Sabra e Chatila. Ma sono passate già tre settimane. Dunque, non parliamone più.
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Marketing. La gente muore. E che c’entra la Fallaci?

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Napoli. Grande è il disordine sotto il cielo, ma la situazione non è per niente eccellente. Insomma, quella manganellata (a corteo finito) da Tizio a Caio è stata data o no? È tutto qua: non dovrebbe essere difficile determinarlo senza tirare in causa grandi principi. Invece, come a Cogne, il processo in tribunale viene sostituito dal processo in televisione. (Peccato che anche uno come Cordova si sia lasciato mettere in mezzo dai politicanti. Che fosse un rozzo lo sapevo, ma finora coi processi non ci aveva mai giocato).

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La giustizia si rinnova/ 1. Assolto il sindaco di Capo d’Orlando, un paesino siciliano in cui – secondo il prefetto, le associazioni ambientaliste e gli investigatori – si erano verificate “reiterate e persistenti illegalità” nella gestione di lavori pubblici affidati direttamente a ditte “di fiducia” senza gara d’appalto. Il locale procuratore della Repubblica, quando ha chiesto gli atti delle indagini, si è sentito rispondere che gli atti in questione erano fisicamente irreperibili, semplicemente spariti senza lasciare traccia. L’indagine a carico del sindaco Roberto Sindoni è stata dunque archiviata “per mancanza di prova di sussistenza del fatto”.

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La giustizia si rinnova/ 2. Assolto anche il poliziotto romano che a novembre dirottò un autobus, prese in ostaggio i passeggeri e alla fine sparò all’autista mandandolo all’ospedale. Al momento del fatto il poliziotto – hanno dichiarato i giudici, recependo evidentemente la nuova giurisprudenza ministeriale – era incapace di intendere di volere; adesso tuttavia ne è capacissimo, e dunque non va neanche ricoverato in istituto. Essendo un poliziotto (iuxta novam legem) non è neanche “socialmente pericoloso”.
“Se la legge dice questo, io mi rimetto alla legge e non dico una parola”, ha detto l’autista ferito. A Roma, intanto, hanno mandato all’ospedale altri tre autisti di autobus, uno a coltellate e gli altri due a pugni in faccia.

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Sinistra. Qualche settimana fa, l’onorevole D’Alema aveva annunciato di essere in procinto di partire per un lungo viaggio nelle lontane Americhe, che lo avrebbe tenuto per un tempo indefinito lontano dall’ingrata sinistra italiana.
I commentatori avevano parlato di una sorta di esilio autoimposto, dottamente citando l’ostracismo che gli antichi greci infliggevano a quei personaggi che, lodevoli in sè, avevano tuttavia una statura politica tanto eccelsa da disturbare l’eudaimonia del demos e della polis; e avevano fatto i nomi di Aristide, di Temistocle e di Cimone (che però, prima di beccarsi l’ostracismo, avevano fatto un culo così a Forza Serse).
A questi illustri nomi si sarebbero potuti aggiungere quelli di Solone ateniese e Licurgo spartano, che avevano scelto l’esilio per obbligare moralmente gli iscritti a non cambiar nulla, in loro assenza, all’eccellente andamento dei partiti da essi fondati; oppure, più modernamente, quelli di Santorre di Santarosa, di Byron, addirittura di Garibaldi.
Comunque, questi sono dettagli. L’essenziale era che D’Alema, come tutti ci aspettavamo, partisse per l’America e ci restasse. Mentre invece D’Alema è ancora qui. Escluso che dalla sinistra italiana si sia levato un coro di “resta, resta!”, cosa mai ha impedito all’onorevole di porre la sua esperienza al servizio dei democratici americani?
L’impedimento – siamo in grado di rivelare in esclusiva – è stato tecnico ed ha a che fare con la natura imperialistica del bieco capitalismo ammericano. Quest’ultimo infatti da molto tempo, per impedire a D’Alema e Velardi di rivoluzionare anche il nuovo continente, aveva stabilito una legge secondo cui nessun communista può mettere piede negli Stati Uniti; il senatore McCarthy, una sorta di McStalin locale, ne era stato il promotore.
Così, quando il nostro si è presentato (completo di mazze da golf, berretto da navigatore, camicia hawaiana, cuoco personale e psicanalista del cane) a Ellis Island, il funzionario della dogana ha detto: “Sorry. Lei non può sbarcare”. “E perchè?”. “Because you are… communist”.
Dopo qualche minuto (il tempo per la traduzione di quell’orribile parola) D’Alema, uomo di mondo, ha abbozzato un sorriso. “Ma via, vogliamo scherzare! Ma guardi un pò: mezzo milione la camicia, seicentomila il berretto firmato, le scarpe un milione l’una – guardi, le faccio vedere pure gli scontrini – e lei pensa che io mi metta a fare il communista? Su, siamo seri, mi lasci passare!”.
“I’m sorry. Qui c’è scritto che lei è the president of left democratic party, che fino a poco tempo fa aveva una falce e martello nello stemma…”.
“Sì, è vero… ma ce l’ho levata io!”.
“Non conta. La nostra ambasciata comunica che lei ha in più occasioni dichiarato che intenderebbe difendere i diritti dei lavoratori…”.
“Vabbè, cose che si dicono… sa, in politica…”.
“Il nostro presidente dice che lei vuol fare del male al povero mr Berlusconi…”.
“Ma se l’ho salvato io, quell’imbranato, dalla rovina!”.
“E lei ha pure criticato la posizione del governo americano sui bombardamenti afgani…”.
“Certo! Non si bombarda così senza coinvolgere le forze democratiche e di sinistra! Altrimenti va a finire che si buttano giù solo bombe rozze e di destra, mica bombe democratiche e intelligenti! Clinton sì che sapeva bombardare!”.
“Lei ha parlato male anche dei nostri amici di Cosa Nostra…”.
“Sì però guardi come ho ingabbiato Caselli e gli altri giacobbini!”.
“Ha detto che il governo italiano è troppo filoamericano…”.
“No, troppo filotexano! Nessuno pensa più in Italia alla California, all’Arkansas, alla Carolina… Così rischiamo di non essere ammessi mai nell’Unione!”.
“Sorry, mr D’Alema. You are communist and the communist perde the hair but not the vice…”.
“Ma guarda tu che ingrati questi ammericani! Ma insomma che deve fare un poveraccio per farsi accettare? Bombardare Cuba?”.
Ma il funzionario aveva già chiuso lo sportello.
“A Dalè – disse a questo punto Velardi – e che te ffrega? Tanto, l’ammerica, ce la troviamo noi a casa nostra! Basta qualche altra cena là a casa de Letta…”.
“Hai ragione – disse D’Alema – Ma è per una questione di principio. Non si può andare avanti così, con ‘ste prepotenze. Poi dice che uno si butta a sinistra”.

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In Francia, tradizionalmente, comandano le persone intelligenti. Ogni tanto, qualcuno degli altri si ribella. La ribellione dura sempre poco perchè i capi degli imbecilli: a) o sono degli imbecilli a loro volta, e dunque fanno fallire il movimento; b) oppure sono, per necessità di funzione, delle persone intelligenti e il ciclo ricomincia fino alla prossima crisi.
In Italia tutto ciò avviene esattamente al contrario, e questo è il nostro grande vantaggio sulla Francia

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Taccuino francese. Qui, la Nazione è di sinistra. Irresponsabilità e senso di responsabilità della sinistra. L’irresponsabilità (presentarsi divisi al primo turno) verrà pagata subito dai lavoratori, poichè Chirac per prima cosa ha annunciato che abolirà le trentacinque ore. Il senso di responsabilità l’ha condotta – al seguito degli studenti – a porsi come forza egemone e unita contro il fascismo.
Il test dell’unità: al secondo giro, la sinistra unita si è dimostrata più forte di chiunque altro. Pagherà tuttavia a caro prezzo la disunione del primo giro.
La lezione: più uniti nelle istituzioni, più a sinistra nella società. Finora i soli ad aver cercato di individuare una politica di sinistra nuova e potenzialmente unitaria sono stati i noglobal. Ma sono cascati in diverse trappole, si lasciano etichettare in modo rozzo e ideologico, dunque perdente. Dalla sinistra vecchia ereditano la tendenza al ghetto e la difficoltà a parlare in italiano e non in politichese (lo stesso termine no-global è un esempio classico di politichese).
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In Italia, la lezione è stata recepita dalla base (dove lo spirito unitario è molto maggiore di sei mesi fa) ma non dal vertice. Rutelli, l’attuale – fragile – leader del centrosinistra ritiene che per non fare la fine di Jospin bisogni spostarsi subito molto a destra, e ha immediatamente (e demagogicamente) proposto misure contro gli emigranti. Questa posizione, proprio alla luce di quanto è successo in Francia, appare estremamente ingenua e perdente, e prepara un’altra vittoria della destra alle prossime elezioni.
A parte questo, il centrosinistra – e, in genere, qualsiasi opposizione – alle future elezioni andrà con un grado molto basso di visibilità sui media ufficiali. Si stanno prepotentemente spostando a destra la Rai, il Corriere della Sera, le catene dei fogli gratuiti e dei giornali locali, e persino gli stessi istituti dei sondaggi (per la Rai ne verrà utilizzato direttamente uno di Berlusconi). Il centrosinistra continua però a illudersi di poter contrattare qualche briciola nel circuito ufficiale e non immagina minimamente di doverne invece mettere in piedi uno alternativo.

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Come sarà il Duemila/ 1. Washington. Il governo ha annunciato il ritorno alle classi miste nelle scuole americane. Sembra che la mescolanza di ragazze e ragazzi nella stessa aula turbi l’ordine pubblico e forse anche la religione.

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Come sarà il Duemila/ 2. È raddoppiato, dal 2000 al 2001, il numero delle persone giustiziate “legalmente” nel mondo. La maggior parte di esse sono state uccise in Cina; seguono nell’ordine Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti.

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Gattopardi e garibaldini. Peppino Impastato è stato ucciso dalla mafia più di vent’anni fa. Ma i compagni – lui era un compagno – non l’hanno mai dimenticato e soprattutto non hanno mai dimenticato le sue idee. Questa settimana, come ogni anno, si sono tenute le assemblee e le manifestazioni in suo onore in Sicilia, a Cinisi. Io non ci sono potuto andare perchè ero con i ragazzi delle scuole occupate nel profondo Veneto. Ma il programma l’ho letto e mi è sembrato, a modo suo, commovente.
C’è la mostra antimafia, la marcia “Mille passi per Peppino”, il recital, la festa rock, persino – siamo in Sicilia – lo spettacolo dei pupi siciliani in cui però gli eroi non sono Orlando e Rinaldo ma Peppino e Falcone. Ci sono le assemblee e i gruppi di studio nelle scuole sulla mafia, sulle multinazionali, sulle donne dell’antimafia, sulla guerra – insomma su tutto ciò di cui si occupava Peppino. E c’è soprattutto uno studio tecnico, approfondito, sul giornalismo di oggi, sulla verità e l’informazione; e su come fare l’informazione libera, popolare.
Peppino difatti era un giornalista, e i compagni non se ne sono dimenticati. Così, vicino a dove una volta c’era la sede, di Radio Aut, adesso hanno fatto l’assemblea con i giornalisti di Indymedia: per imparare, per insegnare; e soprattutto per continuare.
“Così lo onorarono/ essendo utili a sè/ ed avendolo dunque ben compreso”
(Bookmark: http://www.centroImpastato.it, www.PeppinoImpastato.it,
csdgi@tin.it,Radioaut@neomedia.it,ForumImpastato@inwind.it)
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Anche a Catania, pochi anni dopo Peppino, la mafia dei cavalieri ha ucciso un altro giornalista del popolo: Giuseppe Fava. Anche i ragazzi di Fava hanno continuato la lotta iniziata da lui. Adesso però sono dispersi ai quattro angoli del mondo: o rientrati nel sistema, o – se ancora combattono – soli. E uno di questi sono io.
Anche a Catania hanno commemorato adesso Giuseppe Fava. Ma non i suoi amici, che non ne hanno la possibilità materiale. Sono invece personaggi e istituzioni importanti come l’Università e roba del genere.
Perchè mai si prendono questa briga? Perchè Giuseppe Fava, con l’esempio del suo coraggio e della sua ragione, aveva suscitato addirittura un movimento. L’unico che abbia mai coinvolto a Catania non i politici, ma i ragazzi e la gente comune. Questo movimento, allora, fece molta paura: come l’aveva fatta, ai politici perbene, Giuseppe Fava. E adesso ne fa paura anche il ricordo. Così bisogna riscrivere la storia: il movimento non è mai esistito, e Giuseppe Fava era un innocuo e simpatico intellettuale come questi di ora.
Così, a parlare del giornalismo di Giuseppe Fava non sono stato chiamato – ad esempio – io, ma un ottimo collega che, all’epoca in cui Giuseppe Fava lottava, se ne andò via da Catania per costruirsi una brillante (e meritata) carriera altrove. Questo collega ha evitato peraltro di scrivere oggi sulla Catania di ora: sulla persecuzione dei giudice Scidà e Marino, sul potere di Ciancio, sui politici che vanno a cena coi mafiosi. Giuseppe Fava l’avrebbe fatto. Ma Giuseppe Fava è morto, con sollievo quasi unanime della Catania perbene.
Per parlare della “politica” di Giuseppe Fava – che fu un rivoluzionario: non a parole – è stato scelto invece un grandissimo intellettuale “di sinistra”, il compagno barone Pietro Barcellona.
Questi, come i principi siciliani del Settecento, sul piano della teoria non si lascia scavalcare a sinistra da nessuno: Marx e Lenin son dovuti più d’una volta intervenire di persona per cercar di frenarlo tirandolo per la giacca. Ma tornato in Sicilia, sul suo feudo, ritorna a comportarsi da barone. E ai tempi di Giuseppe Fava, ad esempio, non si schierò col movimento, ma col potere. Adesso parla anche lui di Giuseppe Fava; della “sicilitudine” – addirittura – di Fava: che è il termine con cui i baroni “di sinistra” cercano paternalisticamente di sminuire la vicenda politica di colui che invece comprese meglio di chiunque altro la storia dell’operaio *europeo* anni Sessanta.
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Questa faccenda, che tecnicamente si chiama gattopardismo, in Sicilia non è affatto isolata. Sempre a Catania, ad esempio, Paolo Flores d’Arcais (ma la vogliamo almeno maiuscolizzare quella “d”? C’è una sfumatura) presenta il numero di MicroMega sulla primavera dei movimenti. E la presenta, a un pubblico civile e colto e anche sicuramente di sinistra, col locale comitato dei professori. Che a Firenze è una bellissima cosa, ma a Palermo è presieduto da quel barone Centorrino di cui abbiamo avuto occasione di parlare (isolò uno studente che faceva una tesi su mafia e baroni) e a Catania comprende – fra molte e degnissime persone – almeno un paio di personaggi che con la sinistra, vecchia o rinnovata, non hanno proprio nulla a che spartire.
Al solito, faccio i nomi. Il primo è Paolo Berretta, che da amministratore andò a cena (innocentemente) con un imprenditore, Romagnoli, successivamente arrestato – e poi “pentito” – per associazione mafiosa; dalle indagini risultò che costui soleva offrire cene agli amministratori locali, ma solamente il caffè al rappresentante ufficiale della Famiglia locale, tale Ercolano. Un giornalista democratico (che già aveva perso il posto per antimafia) lo scrisse. Berretta lo querelò, e perse la querela. Il nome del giornalista è Pino Finocchiaro. Il secondo è Giuseppe Giarrizzo, barone d’antica data. Socialista craxiano, all’epoca in cui si lottava scrisse sprezzanti pagine contro Giuseppe Fava e contro i Siciliani. Non le ha mai rinnegate. Però è rimasto a galla. E adesso sta a “rinnovare” con gli altri gattopardi.
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Io consegno questi nomi a Flores, o a d’Arcais, come meglio preferisce chiamarsi. Confido nella sua correttezza perchè quantomeno si informi. Mi permetto però di aggiungere una glossa: per fare questi nomi, e le decine e decine di altri di vent’anni di giornalismo militante agli ordini di Giuseppe Fava, io pago un prezzo alto. Pago in termini di carriera, di solitudine, di sopravvivenza personale, di emarginazione. Ma pago orgogliosamente, perchè mio padre era un soldato e mi ha insegnato – quasi con le parole di Cervantes – che, costi quel che costi, si resta di sentinella.
Il mio non è dunque un cortese intervento nel dibattito fra liberali, ma un severo richiamo che viene da chi è stato in prima linea, e lo è ancora. Attendo una risposta.
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Una risposta attendo purtroppo anche – e mi è difficile dirlo: ma la verità viene prima – dai membri della Fondazione Fava che hanno in qualche modo dato consenso agli organizzatori di questa deplorevole cosa. Il mio Direttore non mi avrebbe mai messo da parte, e mai avrebbe chiamato personaggi come quelli di cui ho parlato. Io chiedo umilmente e fermamente di sapere che cosa mai abbia indotto a una simile distrazione.

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Lea, in risposta alla lettera di Giuseppe B. del 29, wrote:
< Signor Giuseppe,
lei, in genere, quando parla, sa di che cosa sta parlando? Lei ci informa infatti (e informa me che sono di famiglia materna chassidica) che i chassidim sono antisionisti. Sicuro: il chassid Martin Buber, pioniere del sionismo, fu antisionista, secondo le sue informazioni. Come lo sarebbe il chassid Elie Wisiel, sopravvissuto ad Auschwitz e in prima fila nel difendere le ragioni di Israele dall’ottusità dei cosiddetti “antisionisti”. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Ma lei ha idea di che cosa siano i chassidim? O forse è avvezzo a confonderli, nella generale deriva in cui su Israele e il sionismo si dice tutto e il contrario di tutto e quasi mai le cose come stanno, con quel gruppo di Haredim (diversi dai chassidim) che si oppongono al sionismo per ipertrofiche e distorte ragioni messianiche? E fra i quali, peraltro, i Kamikaze palestinesi hanno massacrato una intera famiglia, dimostrando di voler colpire gli ebrei a prescindere dalle loro idee su Israele?
Riconosco senza meno che lei non disprezza i miei cromosomi, signor Giuseppe. E per gratitudine la invito a studiare. Magari una di quelle frasi con le quali i compagni Bebel e Deuschter definirono l’antisionismo “l’antimperialismo degli imbecilli”, nella migliore delle ipotesi. Ovvero quella dell’ignoranza.
Perchè poi vi è l’altra certezza. Quella che rappresenta il passaggio semantico dell’odio antiebraico dalla fase clericale antigiudaica, a quella ariana antisemita, a quella dell’antisionismo, truce maschera delle precedenti. Rimanga pure un antisionista, signor Giuseppe; mischiando le responsabilità globali degli Stati Uniti nei misfatti del mondo con i fondatori del Polai Sion (partito dei lavoratori ebrei) che partecipo’ alle lotte antimperialiste dei primi anni del secolo scorso, alla rivoluzione d’Ottobre e al ritorno in Eretz Israel dei figli e delle figlie di Sion. Rimanga pure un antisionista, signor Giuseppe, attigendo, per questo, alla dichiarazione con la quale le nazioni arabe alleate del nazismo rifiutarono nel ’47 di far nascere lo stato palestinese accanto a quello israeliano: ” Non accetteremo di espiare la colpa della corrotta natura giudaica che obbligò le nazioni civili d’Europa a espellerla”.
Quanto a me, ha ragione signor Giuseppe. Non mi trovo in compagnia solo di ebrei. Ma persino del reverendo Martin Luther King, che scrisse a gente come lei: “Dite che non siete antisemiti e che siete solo antisionisti. E io vi rispondo: Dite la verità. Che cos’è l’antisionismo? È il rifiuto di riconoscere al popolo ebraico un diritto fondamentale, lo stesso che invece si riconosce a tutti gli altri popoli dell’Africa e dell’Asia”.
Il poeta Paul Celan, signor Giuseppe, spezzò la sua dolorosa resistenza al ricordo di Auschwitz uccidendosi. E scrisse prima di morire: “Sion, fuggiamo da te e tu ci rincorri, poichè siamo i tuoi figli”. Non riconoscere ai figli e e alle figlie di Sion il loro diritto di esistere come nazione, è la stessa cosa che non riconoscere all’ebreo il suo diritto di esistere come diverso, signor Giuseppe. >

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Pablo <venceremos@libero.ch>, insieme a Paola, wrote:

< Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo
ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia, chi
non rischia, chi non parla a chi non conosce,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. >