San Libero – 142

Pianeta. Johannesburg. Si è concluso con successo, dopo una settimana di lavori intensi e produttivi il convegno internazionale sulla fame nel mondo: i partecipanti sono già in viaggio per tornare nei rispettivi paesi dove cercheranno di mettere in pratica le decisioni emerse dal dibattito: “acqua per tutti, rispetto del pianeta, niente prepotenze per accaparrarsi le cose”. Il documento finale, scritto a mano su un foglio di quaderno, è stato purtroppo portato via da una sbuffata di vento. Ma questo non è un problema, perché tutti i partecipanti – circa centocinquanta bambini e adolescenti di ogni parte del mondo, riuniti da un gruppo di volontari della bidonville di Soweto – ce l’hanno già bene in mente anche senza carta.
Il convegno si è svolto in un clima complessivamente tranquillo, nonostante il contemporaneo raduno di alcune migliaia di manager, ambasciatori, politici e gente grande di varia provenienza, che hanno scelto proprio la stessa settimana per fare uno dei loro (noiosi) party nella stessa città. Questi hanno fatto un sacco di chiacchiere, hanno cenato nei migliori ristoranti e dormito nei migliori alberghi, e alla fine si sono separati senza concludere nulla: i ricchi un pò più ricchi di prima, nel frattempo, e i poveri (o gli ambasciatori dei poveri) un pò più scoraggiati.
C’è divisione, fra gli scienziati, su quanto – a furia di party del genere – potrà durare il mondo. I più ottimisti pensano che il pianeta sopravviverà fino a quando sarà vecchio il mio nipotino. I più pessimisti dicono che invece si troverà nei guai già fra i trentacinque e i quarant’anni. (Lui non l’hanno chiamato, chissà perché: hanno invitato gente inutile come presidenti e ministri e a lui, che era il più interessata di tutti, non hanno detto niente. Questa ce la leghiamo al dito, eh, Lò?).
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L’agenda del mondo, mentre noi eravamo a mare, s’è spostata insensibilmente dalle sue sedi abituali. L’elezione più importante, nei prossimi due mesi, non riguarda l’Europa o l’America, ma un paese “strano” come il Brasile. Laggiù, per la prima volta da quando Cristoforo Colombo è andato a rompere da quelle parti, si trovano per la prima volta di fronte a un’elezione vera. Se vogliono, possono fare presidente uno di loro, addirittura un metalmeccanico: e oggi come oggi – il trend dura ormai da sei mesi – la faccenda dovrebbe andare a finire proprio così.
L’operaio si chiama Ignacio, detto Lula; fa il rivoluzionario (ma senza ammazzare nessuno) ormai da una trentina d’anni, è appoggiato dai contadini del nord, dagli altri operai delle fabbriche (quelli rimasti in politica dopo anni e anni di manganellate e di colonnelli), da qualche communista dissidente e dai preti dei villaggi, almeno quelli sopravvissuti alle guardie armate dei fazenderos. Non sosterranno Lula i meninhos de rua, i ragazzi di strada, primo perché non hanno ancora l’età per votare e secondo perché sono troppo occupati a scappare agli squadroni della morte che ogni tanto ripuliscono a revolverate le strade di Sao Paulo e di Rio.
Ma anche senza i meninhos sembra proprio che Lula ce la farà. Tutti i commentatori più autorevoli son d’accordo su questo, e alcune delle città più importanti hanno già sindaci preto-communisti. Perciò i proprietari del paese hanno già cominciato a esportare miliardi di cruzeiros nelle banche europee, e il Fondo monetario ha già messo il Brasile – con conseguenze catastrofiche – nella lista dei “sospetti”. Il Brasile ha molte più risorse degli altri paesi collassati quest’estate, come il Venezuela e l’Argentina. Ma è molto più “pericoloso” per l’impero: l’Argentina era da tempo un’economia marginale, mentre il Brasile ha una capacità d’espansione che lo mette – secondo gli analisti – fra le dieci possibili grandi potenze del 2020. Perciò faranno il possibile per non lasciarselo scappare: sarebbe l’esempio più terribile, se il Brasile vincesse, per tutti gli altri poveri del mondo. Nè mitra né McDonald, ma lotta e unione: se questa ricetta prende piede, per l’imperatore sono cazzi amari. Altro che le atrocità (che alla fine l’aiutano) di Bin Laden.
Non sono mai stato in Brasile, e confesso che non ho mai capito bene come funziona quella faccenda degli antipodi, e quindi non so se in questo momento i frato-compagni del partito dos trabajadores stanno a dar volantini sulle spiagge affollate o stanno facendo comizi nel freddo del primo inverno. Però sono sicuro che si stanno dando da fare. “Padre, lo prende lei il secchio della colla?”, “Compagno, quanto manifesti hai portato?”.
In Argentina, in quest’estate, ci sono stati dei bambini che hanno mangiato terra. Cosa mangeranno, in Brasile, l’altra estate? Si decide su questo, nei prossimi due mesi. Per una volta, non decide il G8 o il G9. Decidono, coi loro voti in Brasile, quelli col piatto vuoto. Seguiamoli con la massima attenzione perché sono, in questo preciso momento, la locomotiva del mondo. Se vincono loro, prima o poi si vince dappertutto.

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Beh, mi piacerebbe continuare a scrivere la Catena anche l’anno nuovo. Mi piacerebbe anche andare alla manifestazione contro la nuova centrale superinquinante nel paesino dove ho passato questo mese (Milazzo, davanti alle Eolie) e dove stanno costruendo un pontile per carichi di carburante bituminoso proveniente dal Venezuela: C’era già una centrale a carbone e una raffineria, ma evidentemente oltre al carbone e al petrolio devono far prove di respirazione anche col bitume.
Non sono sicuro, però, di poter continuare a fare tranquillamente, nei mesi che verranno, l’una e l’altra cosa. Nel caso della Catena, perché ho paura che prima o poi qualcuno dia ordine a qualche giornalista di Panorama di scrivere un bell’articolo per dimostrare che in realtà sono un feroce brigatista: l’hanno già fatto con altri colleghi dell’informazione in internet (per esempio Indymedia e Infoguerrilla) e non credo che si leveranno il vizio così facilmente. D’altra parte, se ti sparano contro mezzo milione di copie più sei televisioni, hai voglia di precisare che sei solo un pacifico signore col vizio di dir la sua: ormai, le voci che parlano tendono ad essere una sola. Anzi per favore cancellate questo paragrafetto perché non vorrei che il governo pensi che io sono d’accordo con quei brigatisti di Indymedia e di Enzo Biagi.
Quanto alle manifestazioni, non ne parliamo. Già il presidente del senato dice che è sovversiva una manifestazione con professori universitari e vecchiette perbene; figuriamoci se ci trovano un tipaccio come me: mi manderebbero subito addosso i rottweiller antisommossa. Almeno, questo stanno cercando di far capire alla gente: nella speranza che se ne stia a casa.
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Al ministro Pisanu – a proposito – che è nuovo del mestiere e forse non disdegnerà un consiglio. Ecco: disponga una vigilanza particolare, signor ministro, nel giorno in cui ci sarà la prossima azione dei brigatisti. Che giorno? Ma che domande: il tredici settembre. E come faccio a saperlo? Ovvio: il quattordici c’è la manifestazione dell’opposizione; e quindi è naturale che il tredici debba succedere qualcosa. Chissà, potrebbe essere anche il dodici: ma non credo, perché i brigatisti sono appena tornati dalle vacanze e il dodici, se si può rimandare all’indomani, preferiranno riposarsi ancora un poco. Ah, e non dimentichi di mettere in giro l’elenco dei senzascorta.

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L’esame. Per diventare giornalisti professionisti, veri, bisogna sostenere due esami. Il primo lo fai all’Ordine dei giornalisti, in cravatta, e consiste in una prova scritta ed una orale. Il secondo lo fai molti anni dopo, davanti a te stesso, il giorno in cui ti cacciano perché hai scritto la verità. Santoro l’ha sostenuto adesso, e gli è andata bene. Adesso è un giornalista completo: di certo, saprà andarne orgoglioso. Lo riconosci dal bavaglio, il giornalista vero.
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Se io fossi un giornalista di governo, questo sarebbe esattamente il giorno in cui aprirei il mio giornale con un grande “Solidarietà per Santoro”. Se fossi il presidente della Rai, m’iscriverei subito a Rifondazione, pur di non farmi dire che ho licenziato Santoro per ordine di Berlusconi. Se fossi Donzelli o un altro amministratore “di sinistra” della Rai, mi sarei già dimesso da tre giorni, vergognandomi di stare in un posto in cui si è servili. Ma grazie a Dio non sono nessuno dei tre.

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Privatizzazioni. In Sicilia, nella lista dei beni da privatizzare c’è il vecchio carcere di Catania che si trova nel centro della città, a piazza Lanza. Chi se lo comprerà? Mistero. Io personalmente faccio il tifo per il padre-padrone dell’editoria siciliana, per farci magari il centro del suo piccolo (anche se ora un pò sderenato) impero multimediale. Così se qualcuno ce lo chiederà potremo rispondere tranquillamente: “Dov’è adesso? A piazza Lanza!”.
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A Capri, invece, stanno privatizzando la vecchia villa “di Timberio”, costruita all’inizio del secolo (pardon: del secolo scorso, volevo dire) sulle rovine di un antico pied-a-terre imperiale, quello dove passò gli ultimi anni – fra un via vai di giovani giornalisti e di veline – l’imperatore Tiberio. A costruirla fu un famoso medico svedese, Axel Munthe. Gli uccelli che passavano al tempo delle migrazioni venivano catturati dagli abitanti di Capri, con le reti; e poi accecati, per servir da richiamo agli altri migratori. Munthe riuscì a porre fine a tutto questo, e a fare invece dell’isola un vero paradiso degli uccelli (in senso proprio: completamente diverso da quello di altri illustri villeggianti dell’isola – di quei tempi). Alla sua morte, la villa – il “San Michele” – passò allo stato italiano. Adesso finirà a qualche camorrista, o ministro cocainomane, o chissà chi altro.
(Anche il momento della privatizzazione, del resto, è scelto bene: proprio in questi mesi il governo italiano ha abolito o sta abolendo buona parte delle leggi che tutelavano alcune specie di uccelli, e il San Michele tornerà ad essere un paradiso dei cacciatori).

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Rispetto. A Washington un intraprendente italo-americano, tale Michael Pellegrino, è riuscito a truffare mezzo milioni di dollari a una delle principali case editrici (la Simon & Schuster, quella che aveva pubblicato “Il Padrino”) spacciandosi per il nipote del boss Carlo Gambino e promettendo rivelazioniu inedite dall’interno di Cosa Nostra. A Roma, un giovane palermitano – un certo Ivan Lombardi – s’è spacciato per il figlio del boss Provenzano, e in tale veste ha estorto una bella somma a tre giovani della buona società romana, riuscendo anche a farsi portare in vacanza all’estero a spese loro. Insomma, non c’è più rispetto, per gli uomini di rispetto.

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Socrate. Si paragona al filosofo, l’allegro Marcello Dell’Utri. Ma lui non è Socrate, l’Italia non è Atene e soprattutto in giro non c’è nessuna cicuta. Al massimo (Pisciotta, Sindona…) stia attento al caffè.

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“Il Bracciante”. Polemiche estive sulla nuova barca di Massimo D’Alema. I suoi avversari politici, trovando abbastanza strano (a dire il vero, anch’io) che un feroce communista possieda yacht, l’hanno preso in giro in tutte le maniere, arrivando a lanciare un concorso a premi per dare un nome al vascello. Noblesse oblige, me ne astengo: troppi partecipanti (e poi il premio l’avrebbe già vinto Paolo Villaggio con “Il Bracciante” della contessa Serbelloni Mazzanti-Vien-dal-Mare). Alla fine il povero D’Alema (o d’Alema?), spazientito, ha dichiarato che la nuova barca sarà piccola e poverella, e che lui sarà solo uno dei quattro amici che la compreranno e che forse anzi (mica è miliardario, lui) non ne comprerà affatto.
Ahi, ahi. Finchè naviga, almeno in terraferma non lo si vede. D’Alema senza barca? Una iattura. Organizziamo una bella sottoscrizione per comprargli una barca nuova. Almeno diciotto metri, con timoniera bloccata.

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Ricordato a Palermo Libero Grassi, il piccolo industriale assassinato dieci anni fa dalla mafia – e isolato dall’associazione commercianti e dalla confindustria – perché non pagava il pizzo. Alla cerimonia non s’è presentato nessun esponente del governo. C’erano troppi carabinieri.

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A Farewell To War. Il concetto di guerra era uno dei più insiti nella cultura umana (maschile) e particolarmente occidentale. Lo scontro decisivo ecc. (Hanson, L’arte occidentale della guerra) contrapposto alla efficiente tecnica “da mandriano” dei nomadi. E, come derivazione ideologica, i concetti fondanti dell’identità militare: l’autodisciplina, il coraggio fisico, la disponibilità – soprattutto – a rischiare la propria vita in vista di un impegno collettivo. “Dulce et decorum” ecc.; il fante.
Ora la guerra è superata da un nuovo concetto, che a quanto pare dovrebbe avere a che fare col concetto di olocausto (scientifico, burocratico, ecc). Sul piano ideologico, l’identità militare è molto più tecnica e meno etica; il militare non è più colui che sa (eventualmente) morire ma colui che sa (efficacemente) uccidere massivamente. Professionalmente, il principale obiettivo ora è di evitare ad ogni costo perdite fra le proprie file, a costo di accrescerle esponenzialmente fra la popolazione “nemica”. Statisticamente, il soldato è diventato uno dei mestieri meno pericolosi al mondo; è molto più rischioso fare il giornalista o il ferroviere, o il bambino in zona d’operazioni.

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Promemoria per l’autunno. Più donne disoccupate in Calabria che in Marocco.

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Formula di giuramento presso gli indiani Shoshone: “La terra mi ascolta. Il sole mi ascolta. Posso mentire?”.

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Cronaca. Messina. Si chiamerà Messina University Press (“sull’esempio di Oxford e Cambridge”) la casa editrice dell’università. L’ha deciso il consiglio d’amministrazione del prestigioso ateneo, dimenticando peraltro che: a) forse sarebbe stato meno provinciale, per un istituto culturale italiano, servirsi della lingua italiana e non di quella inglese; b) a Oxford e Cambridge in genere i mafiosi non vengono armati agli esami, i professori non fanno affari coi boss e gli studi principali concernono la letteratura e le scienze e non, come all’università di Messina, l’organizzazione di intrallazzi e traffici che tanto lavoro hanno dato a carabinieri e procura.

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Gennaro wrote:
< Gentile Riccardo ti scrivo per sapere il tuo parere in merito alla vicenda del “Museo della camorra” da allestire all’interno del Palazzo Mediceo di Ottaviano, noto alle cronache per essere stata la “residenza privata” del boss per eccellenza, Raffaele Cutolo. Questa proposta del presidente della provincia di Napoli, Amato Lamberti ha suscitato molte polemiche, dividendo l’opinione pubblica in favorevoli e contrari. Personalmente io sono contrario. Penso che un museo della camorra, per di più allestito all’interno del castello di Ottaviano, per anni il simbolo della potenza della criminalità organizzata, servirà solamente a mitizzare il comportamento, il modo di vivere e di agire, dei “guappi”, delle “persone di rispetto. Tu cosa ne pensi? Grazie della tua attenzione. A presto! >
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Caro Gennaro, il professor Lamberti, che come professore è ottimo, come politico ha uno strano senso dell’umorismo. Qualche anno fa propose di tingere di blu i ragazzini napoletani, allo scopo di dar loro un’aria più puffa e meno inquietante: era in corso la solita campagna di “tolleranza zero”, e il professore non voleva mancare di esprimere un’opinione originale. Credo che anche in questo caso si tratti di una battuta (è impossibile, per le ragioni che dici tu, che faccia sul serio), ma sarebbe auspicabile che in questi casi il professore ne spieghi al popolo, con un apposito manifesto, il recondito e umoristico significato: noi poveracci, da soli, non ci arriviamo.

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Georgia wrote:
< Io sono una grande ammiratrice dei siciliani, e non solo per la bellezza della loro terra (che è indiscutibile), ma per la loro intelligenza severa, per la loro letteratura, per la loro cultura politica, cominciando dall’antichità per arrivare allo Stato di Federico secondo (dove è nata tra l’altro la prima lingua poetica italiana), per arrivare ai grandi politici moderni, non ultimo Pio La Torre (naturalmente ucciso dalla mafia). Per l’invenzione della Rete, ormai sparita, ma, per me, primo partito “moderno”.
Li ammiro per il loro coraggio, e penso ad Antonino Caponnetto, Falcone, Borsellino, Fava, Grasso, e molti altri. Li ammiro per la loro letteratura i cui protagonisti passati e presenti sono tantissimi e così conosciuti che è inutile ricordarli ora.
Insomma li ammiro così tanto che io ero fra quelli che alle ultime elezione era convinta che Berlusconi avrebbe stravinto nel nord, ma avrebbe avuto grossi problemi in Sicilia. Cristo, o non avevo capito nulla oppure c’è qualcosa che non torna. Perchè i siciliani hanno all’unanimità votato per Berlusconi? In base a quali speranze, a quali interessi? Il loro voto è stato veramente libero? E se non è stato libero, come gliel’hanno potuto controllare? >
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Non ho risposte.

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AntonellaConsoli <libera@libera.it> wrote:

Ritorna a farsi più verde il mare

< Ritorna a farsi più verde il mare
E’ settembre
e io ti amo di più >

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Del proteggere

< Se vuoi è tutto qui
cammino a pugni chiusi
stringendo le mascelle
eppure ridono di me
bambini cerbiatti
e timide corolle

Un sorriso tengo stretto
e perciò chiudo i pugni
le mascelle refrattarie
di schiaffi sanno l’eco
non posso cedere è l’unico
messaggio

Perciò prendilo questo sorriso
pallido
che per te ho rubato
fra tutte le tempeste
I pugni erano ben chiusi
ho resistito bene >

* * *
Settembre

< Settembre – le rondini – cerchiamo
una accanto all’altro
il nido che non abbiamo fatto >