“Siamo operaaai, compagni braccianti/ e gente dei quartieri/ Siamo studenti, pastori saaardi/ divisi fino a ieriii…”. L’inno di Lotta Continua non si sentiva da un pezzo in Sicilia, più o meno dai tempi di Peppino Impastato. Ed è proprio la lapide in memoria di Peppino (ucciso dai mafiosi di Cinisi nel 1978, perché denunciava i loro intrallazzi) che il sindaco di Isnello, un paesino mafioso vicino Palermo, ha ordinato di togliere dopo tanti anni. Immediata la risposta dei compagni: Paolo Liguori, Gad Lerner, Marco Boato, Carlo Rossella, Enrico Deaglio, Paolo Guzzanti e altri ancora, in tutto una sessantina di signori fra i cinquanta e i sessant’anni, un pò appesantiti ma ancora ben decisi, hanno subito organizzato una manifestazione a Isnello e hanno rimesso a posto con le loro mani la lapide che il sindaco aveva tolto. “Certo, la vita poi ci ha divisi – ha detto Straccio – ma noi di uno come Peppino non ci dimenticheremo mai”. “Saremmo degli stronzi se lasciassimo passare una cosa come questa – ha detto Gad – Peppino sapeva che noi compagni non l’avremmo lasciato mai solo”. “Lotta dura!” ha esclamato l’on.Guzzanti, prima di risalire sull’auto blu.
(Questa notizia è completamente inventata. L’unica cosa vera è che la lapide l’hanno tolta davvero. E, naturalmente, che Peppino è ancora morto).
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Piazza bella piazza. Salvatore fa l’operaio, ha più o meno la mia età e ogni settimana investe due euri e mezzo di quota nel sistema superenalotto del bar Mazzini, che però finora non è uscito. Perciò deve continuare a mantenere se stesso, la moglie, la casa e due figli a scuola con i novecento euri che gli entrano fra lui e sua moglie ogni mese. Ovviamente non ha tempo per la politica: l’ultima volta ha votato Berlusconi perché “tanto sono tutti uguali” e “lui almeno è furbo, vediamo che riesce a fare”. A ottobre, tuttavia, è andato con tutti gli altri alla manifestazione del sindacato (la tessera non se l’è mai levata), un pò per nostalgia e un pò perché dieci euri di ora sono diventate come le diecimila lire di una volta.
Sabrina fa la giornalista: in effetti lavora (contratto a termine) in un portale internet, dove deve essenzialmente tradurre e mettere in pagina notizie che trova sui siti americani. Sa tutto sui conflitto d’interesse e sui giudici, è stata in piazza (faceva ancora il liceo) quando ha vinto l’Ulivo e vive col suo compagno in un monolocale con cucina abitabile e soppalco.
Fabio è un fanatico dei no-global, e te ne accorgi dalla kefia e dai riccetti spettinati a raggiera, che gli danno un’aria davvero molto alternativa. L’anno scorso era ancora nei boy-scout, quest’estate è stato in un campeggio pacifista, a scuola va bene dappertutto tranne in computisteria (suo padre non ha voluto iscriverlo al liceo), per votare è indeciso fra rifondazione e margherita ma tanto per decidere c’è tempo.
Questi tre esseri umani (che esistono veramente: non son bravo a ragionare in astratto) sono più o meno i tre partiti che compongono oggi la sinistra italiana. No-global, girotondini e sindacato sono la novità dell’anno scorso, dopo che la sinistra precedente si era completamente consumata.
I girotondi (in realtà un casino di movimenti diversi, dai tre ai centomila aderenti, secondo i mesi) rappresentano quel che una volta si chiamava ceto medio intellettuale. Vogliono sostanzialmente la democrazia: in un sistema democratico (non “communista”, non berlusconiano) sono infatti la parte più moderna della società.
Gli operai, che ufficialmente non esistono più da anni (da quando la tv ha cominciato a decidere lei chi esiste e chi no), in realtà sono sempre la parte più numerosa della popolazione. A partire dall’anno scorso, gli operai giovani (che vengono chiamati con altri nomi) hanno cominciato a far comunella con gli operai cinquantini. Insieme sono veramente un casino, e senza di loro semplicemente non si produce. Però attenzione: gli operai non sono affatto automaticamente di sinistra, contrariamente a quel che si pensava ai miei tempi. Però non sono neppure di destra: sono disponibili a votare per Berlinguer oppure per Berlusconi, a seconda di come trattano i loro interessi. Ci mettono un bel pò di tempo per rendersi conto e decidersi, ogni volta, perché gli operai (che non possono permettersi di sbagliare, dovendo pagare l’affitto) sono lenti. Però, una volta decisi, sono decisi davvero. Gli operai, infatti, sono molto concreti.
I ragazzini, sono gli unici oggi a chiedere una politica vera. Non hanno il problema di rattoppare giorno per giorno, possono permettersi il lusso di pensare in grande. E di capire, per esempio, che non è che le automobili costino troppo care o che Agnelli sia stronzo: è proprio il concetto di automobile a benzina che sta distruggendo il pianeta. Non è che gli immigrati siano tutti santi o tutti banditi: è proprio il fatto che esistono che sta cambiando tutto.
Questa politica nuova, di cui hanno un disperato bisogno (tecnicamente, toccherà a loro, quando avranno la mia età, vivere in un pianeta inabitabile se le cose vanno male), i ragazzi non la trovano da nessuna parte, perché in realtà ancora non esiste. Non esistono le risposte; le domande, però, qualcuno comincia a porsele, sia pure in forma rozza, ingenua e spesso anche un pò ripetitiva.
Questo qualcuno, finora, sono solo i no-global. Dei quali, la cosa più significativa è proprio il nome, in inglese: i no-global infatti sono cominciati in America, non a San Pietroburgo. Dopo un secolo e mezzo (una parentesi non tanto breve, in effetti) il cuore della sinistra torna in occidente. Non c’è nulla di globalizzato come i no-global, nel pianeta.
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Questi tre movimenti, che finora sono andati avanti ignorandosi con benevolenza e simpatia, possono o continuare a ignorarsi o andare al governo insieme. Al governo non vuol dire Rutelli o Prodi o D’Alema (anche perché devono ancora arrivare i girotondini “di destra”, quelli che prima o poi si ribelleranno a Fini e al cavaliere). Non ho la più pallida idea di come sarà il governo “di sinistra” che ci sarà fra due anni. Se sarà un governo dei politici, sarà una specie di altro governo Dini, e per quanto mi riguarda se lo possono tenere. Ma se – per esempio – fosse un governo-rete? Che cos’è un governo-rete? Come si fa a fare un governo-rete nel duemila?
Già. Eppure, che cos’è un’automobile senza benzina? Come si fa a fare un’automobile senza benzina? Intanto, bisogna farla, sennò va a tutto a ramengo e le soluzioni “realistiche” fra vent’anni ce le potremo appendere al muro e magari contemplarcele attraverso la maschera antigas.
Nel duemila, a quanto pare, i problemi sono questi. Nuovi, impazienti. Avidi di soluzioni, nemicissimi di rimozioni e imbrogli. Che casino di secolo, ragazzi.
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E io pago. Cavolo. Adesso Gentilini, il sindaco razzista di Treviso, vuole la scorta. Pare che qualche imbecille, spacciandosi per brigatista, gli abbia fatto una telefonata minacciosa. Per la Boccassini o Orlando, la scorta era un “lusso superfluo”. Per i gerarchi è una necessità di stato. O non si faceva chiamare “il sindaco sceriffo”, Gentilini? Perchè non si scorta da sè, ammesso che qualcuno lo minacci davvero? Perchè non scortano invece quei poveri marocchini che, mentre dormivano disperati sul sagrato della chiesa, si sono visti circondare e prendere a bottigliate – uomini donne e bambini – da una squadraccia di leghisti reduci dai comizi di Gentilini?
Gentilini e compagni sono il quattro per cento della popolazione italiana. Un italiano su venticinque. Perchè quest’italiano su venticinque deve aver privilegi e comandare – perché di questo si tratta – sugli altri ventiquattro italiani che invece sono persone civili?
(Guardate le facce dei trevisani perbene all’uscita della chiesa, in quei giorni. Le labbra strette, gli occhi duri. Nazi).
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Autunno. “Lo faccio perché non ho un lavoro” ha detto il diciottenne immigrato che si è dato fuoco per protesta a Bologna. “E’ colpa vostra” aveva scritto il disoccupato napoletano che si era dato fuoco per protesta a Napoli.
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Effetto serra. “Piove, governo global”.
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Boh, si torna a scuola. Questa, anche se non sembra, è una notizia. Al ritorno a scuola – al posto in cui vanno tutti i ragazzi, ricchi e poveri, belli e brutti – noialtri ormai ci siamo abituati da sempre, ci facciamo su un bel pò di “signora mia” e ne parliamo col tono insopportabile di “ai miei tempi”. Bene, quei tempi sono finiti. La scuola non è affatto più una cosa normale. E’ stata normale per un periodo ben definito – diciamo dalla fine dell’ottocento all’altro ieri – ma questa era solo una parentesi della storia. La vera normalità, quella che è stata normale per la maggior parte della storia, è che in autunno *alcuni* ragazzi tornano a scuola e gli altri tornano a lavorare o a stare per la strada. La scuola, in realtà, è un lusso. E adesso, giustamente, lo vogliono far pagare.
La scuola di noi ragazzi era stare insieme, crescere in una banda di coetanei e diventare grandi in compagnia. Neanche questo va più bene. Diventare grandi, adesso, dev’essere una faccenda strettamente personale, con premi individuali ben chiari già a sedici, a quattordici, possibilmente a dieci anni. In Giappone i bambini alla fine delle elementari debbono già scegliere una carriera precisa, e se sbagliano sono cazzi loro
Infine: la scuola riguarda tutti, non è una faccenda di famiglia sapere se un ragazzino viene su dritto oppure uno schiavetto o un futuro stronzo. Questo “tutti”, ai nostri tempi, si chiamava lo stato. Mica scontato: una volta i signori avevano i loro precettori, pagati da loro, e i poveri (se andava bene) il prete del villaggio. Poi la repubblica ha portato il maestro di scuola. Adesso, il mercato caccia il maestro e riporta agli onori il prete e il precettore. Il maestro lo pagava la comunità, infatti, ricchi e poveri, e insegnava a tutti, non solo ai signori e non solo quello che volevano i signori. E questo, di questi tempi, non sta bene.
La cosa che mi fa sogghignare, in tutto questo, è che però alla fine bisogna fare i conti con i ragazzini. Siccome ancora non sono riusciti a produrre i ragazzi Ong, debbono cercare di “migliorare” quelli che ci sono. E questo non è affatto semplice. Un ragazzo vuol crescere, essere libero, divertirsi, scoprire le cose. Non vuole fare il manager, e neppure il leccaculo. Magari più tardi lo sarà: ma per intanto è un ragazzo. E della scuola, alla fine, gli resteranno due cose: la volta in cui ha bigiato e se n’è andato a spasso, libero, con la sua ragazzina; e la volta in cui un prof è riuscito a fargli capire una storia o un poeta e lui ha scoperto quanto può essere bello, e anche divertente, imparare una cosa.
Queste faccende, noi della vecchia scuola, ci siamo riusciti a darle, a quel ragazzino: altro che “crediti” e mercanzie. Siamo stati capaci di insegnare a occupare la scuola e ad amare Socrate e la poesia. Loro, quelli del “mercato”, non possono farlo perché Socrate e Scuola Okkupata sul mercato non si trovano, e non si troveranno mai, per una buona ragione: non hanno prezzo.
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“Vi unisco la presente per pregarLa a fare tutto quello che può affine di evitare un altro flagello, e cioè una legge proposta relativa all’istruzione obbligatoria. Questa legge mi pare ordinata ad abbattere totalmente la scuola cattolica”. Lettera del papa al re, 10 dicembre 1861.
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Vacanze. Almeno due milioni di palestinesi quest’estate sono stati spinti dalle vicende del loro Paese a un livello di sopravvivenza inferiore alla soglia di povertà. Circa duecentocinquantamila famiglie – secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati – hanno perso qualunque fonte di reddito regolare. Il tasso di disoccupazione ha già superato il 60 per cento a Gaza. Distruzione sistematica di uliveti e agrumeti.
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Spot. A Napoli, domenica 15, al Damm (centro sociale Diego Armando Maradona) in via Avellino a Tarsia, Montesanto, spettacolo e testimonianze su Cernobyl. Incontro con Svetlana Aleksievic, giornalista bielorussa in esilio e narrazioni teatrali “L’amore al tempo di Cernobyl” e “Monologo su come sia facile diventare terra”.
(Bookmark: http://www.narramondo.it)
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Pierpaolo <ppp@girotondi.it> wrote:
< Abbiamo un potente mezzo di lotta, la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. Con essa dobbiamo lottare senza perdere un colpo. I nostri avversari sono criticamente e razionalmente tanto deboli quanto sono poliziescamente forti, ma non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere prima o poi alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento >
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Diego wrote:
< Ma mi scusi, lei pensa davvero che ci lascino vincere in Brasile? Secondo lei perché stanno spostando tutti i capitali, per preparare uno stato di miseria da cui nemmeno con la bacchetta magica si può uscire. Così, dovesse vincere Lula, nel giro di pochi mesi la gente affamata si farebbe incantare dal primo fascista di ritorno che sia capace di dare la colpa ai comunisti se il paese muore di fame. Ormai non mi illudo più. Un saluto malinconico e disilluso. >
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Ok, stiamo a vedere. Ma rassegnarsi, no.
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Siciliani. No, non c’erano i siciliani ai vent’anni di Dalla Chiesa, a Palermo. Certo: tanti anni di celebrazioni di facciata pesano: le cerimonie di stato, con le autorità compunte in prima fila e la gente fuori. Però sono anche cambiati i siciliani. Se fossi piemontese, troverei delle giustificazioni. Alti e bassi, direi da piemontese; le promesse mancate, la spoliticizzazione, l’incultura… Sì. Ma sono siciliano, e mi brucia. I bambini dell’Albergheria, i postulanti di don Cuffaro, le ville fra i templi greci, il ritorno dei boss, i voti di Berlusconi… Tendo, con ingiustizia, a mettere tutto insieme. Certo, sbagliando: ma ciò che provo è questo. Dopo, faccio uno sforzo e mi richiamo alla mente i miei compagni dispersi, Antonio operaio a Bologna, Nuccio fotografo disoccupato, Ester, Passiglia, Giusi, Campanellina… Quelli che i giornali non conoscono, e che non hanno tradito. Prima o poi torneranno. Noi qua teniamo duro, aspettando loro.
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Non c’è Sicilia più triste di questa, amici miei. Sicilia degli anni arresi, fra povera furbizia e arroganza, fra i rassegnati e i collusi. Quante Sicilie così, nella storia siciliana. Prima di Garibaldi, prima di Pio La Torre e Dalla Chiesa; sovente, gli anni più freddi essendo (per alchimie della storia) l’immediata vigilia dei più luminosi. Ma quant’è incredibile credere, in questi anni grigissimi, che forse l’anno venturo sarà di primavera. Quante solitudini dignitose, senza incontro. E quanto la solitudine uccide.
Uccide in tanti modi diversi, per logoramento o per dolore. Uccide per primi i più gentili, i migliori. Sa ucciderli di loro mano, in un momento in cui l’anima troppo esausta si ripiega e l’unica via d’uscita, nel buio dell’ingiustizia, appare quella finale.
Così morì Rita Atria, che non volle vivere più dopo Borsellino. Così è morto Giuseppe Francese, che per vent’anni aveva lottato raccogliendo documenti, testimonianze, materiali per avere la giustizia per suo padre, Mario Francese, ucciso dai padroni della Sicilia perché faceva inchieste sui mafiosi. Ho visto questo Giuseppe una volta sola, a un incontro di giornalisti: una di quelle facce belle e colte di giovani siciliani, con la serietà degli occhiali che combatte con lo scompiglio dei capelli. Aveva qualcosa di amaro dentro, ma non di disperato. E non di disperazione è morto, bensì di solitudine e di stanchezza. Continueremo a esistere, anche per lui.
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Persone. Carlo Alberto dalla Chiesa, siciliano.
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Kosta<kavafis@koine.el> wrote:
< Sia lode a chi ha trovato nella vita
le sue Termopili, e le ha difese.
Senza volgersi indietro, senza fare
grandi discorsi, senza esaltazioni
ma sempre con misura, sobriamente.
Dando quel che si può, facendo fronte
alle disgrazie altrui, solidarmente,
da uomini, senz’odio né paura..
Ma con più grande lode loderesti
chi vivendo così pur prevedesse
che un Efialte è già pronto alle sue spalle
e che i nemici infine passeranno. >
* * *
< Veri uomini voi che combatteste,
che generosamente soccombeste,
che affrontaste sereni chi vinceva!
Sì, fallirono i capi: ma non voi.
“Genera questi eroi la nostra terra”
diremo un giorno per ridarci vanto.
Lode più luminosa non è data.
(Così uno di quel popolo sconfitto
scrisse nella Città, molti anni dopo). >