San Libero – 144

Colf e badanti. Il termine “colf” fu inventato dalle Acli venete negli anni 50, quando organizzarono dei corsi per “collaboratrici familiari” nel tentativo di dare una coscienza sindacale alle ragazze che andavano a “servire” a Milano dai paesini della provincia veneta e friulana. Fino a quel momento s’era detto “cameriera” o “domestica”: il primo termine veniva usato prevalentemente al sud, il secondo al nord e nelle famiglie più rifinite; in entrambi i casi, con un lieve tono di sprezzo. I giornalisti di destra, e purtroppo anche Guareschi, non mancarono di far dell’ironia sul nuovo termine “colf”, in cui avvertivano qualcosa di vagamente sovversivo; gli risultava difficile annettere la dignità di un lavoro a quella che vedevano come una condizione sociale intrinsecamente minorile. (“Le cameriere e i soldati” ai giardinetti; “vestirsi come una cameriera”; “ho mandato la mia domestica”; ” anche le cameriere pretendono, oggigiorno”).
Io personalmente sono gratissimo a mio padre dello schiaffone che mi dette – quasi una cinquantina d’anni fa – per aver dato ribaldamente della “cameriera” alla nostra Giovanna, che era rigorosamente “donna Giovanna” per mio padre e senz’altro un “Giovanna” affettuoso per mia madre. (Mia madre era molto giovane ed era, quando fuggì con mio padre, la più bella ragazza di Palermo. Mio padre, Regio Esercito, aveva qualche anno in più. Tutt’e due li ricordo in bicicletta, in mezzo al sole. Giovanna – un donnone autorevole, sulla cinquantina – mentre canta a voce spiegata una canzone di cui mi restano solo due versi “Che ciavuru che ciavuru/ di zagari e di violi”; ciavuru in siciliano è il profumo).
Quanto ai badanti, è una parola nuova, sulla quale i politici s’accapigliano – a labbra strette e pancia piena – per definirne l’esatta ancorchè elastica estensione. A me fa pensare a una villa un tempo decorosa, dalla facciata armonica, col giardinetto davanti e i comignoli in cima; ma adesso più kitsch che borghese, con un incongruo ammassarsi di padripii sottovetro e soprammobili di plastica nel salone, mezzo paesano e mezzo giapponese; coi vecchi libri del nonno impolverati in biblioteca e la tivvù a tutto volume a ogni ora. Le ortensie del giardinetto (la nonna le piantò subito dopo la guerra, quando ancora le macerie ingombravano la via) sarebbero già deperite da un pezzo, se non le curasse amorosamente Nihal, il giovane cingalese che bada al giardino, alla casa e ai padroni. Il “badante”, appunto. I padroni di casa, in realtà, non son talmente vecchi d’età da dovere essere accuditi materialmente; ma lo sono abbastanza, di spirito, da aver sempre bisogno di qualcuno che, per mille piccole cose, badi a loro.
Un paese che, a un certo punto, diventò improvvisamente vecchio e ricco, da aver bisogno di “badanti” e da poter permettersi di pagarli. Ma dopo mille capricci, astiosamente, spicciando le banconote ad una ad una con aria di sopportazione; e non perdendo occasione di dare del “cameriere”, di umiliare. Mio padre non è più qua per prendere a ceffoni il bambino viziato Bossi quando fa il maleducato con Giovanna. Ecco, m’è arrivato improvvisamente un altro paio di versi: “E di luntanu vengono/ li forasteri a massa/ dicendu: ‘nta Sicilia/ che ciavuru che fa”.

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Politica. Quasi tutte le grandi famiglie del vecchio capitalismo italiano (tranne, quindi, Berlusconi) si sono di nuovo unite nel nuovo pacchetto di controllo del Corriere della Sera. Nel giro di una settimana, è stata dunque battuta l’ipotesi (che a un certo punto sembrava molto concreta) di una scalata da parte del finanziere siciliano Ligresti, rappresentato nella destra dal leader milanese di An, La Russa (in passato suo dipendente diretto). Tutte queste faccende, naturalmente, hanno sempre una durata abbastanza relativa: gli alleati di oggi possono rapidamente diventare i nemici di domani, e viceversa. Però, in questo caso, siamo di fronte a un assetto che durerà per un pò di tempo.
Fino a Mani Pulite, il potere finanziario in Italia era sostanzialmente lo stesso degli anni Novanta. Poche famiglie, pochi padroni ereditari, un movimento di capitali relativamente modesto e sostenuto essenzialmente dall’industria: la quale a sua volta sopravviveva grazie al sostegno dello stato, sotto varie forme: dalle infrastrutture costruite coi soldi pubblici alla corruzione diffusa. Il sistema economico, in sostanza, era un intreccio politico-industriale garantito da una serie di (efficienti) manager di stato.
Con Mani Pulite, che tutto sommato fu un episodio tecnicamente abbastanza limitato, il sistema collassò improvvisamente. In realtà, avrebbe potuto collassare già diversi anni prima. Nel 93-94, comunque, il vuoto dei poteri era totale. In questo vuoto s’infilò il fenomeno Berlusconi, rovesciando il rapporto finanza-politica: Berlusconi fu il primo a capire che la politica non occorre comprarla perché si può benissimo produrla, a costi molto inferiori, in proprio.
Seguirono alcuni anni d’interregno, quelli che nelle cronache degli antichi storici cinesi venivano definite “dei signori della guerra”, in questo caso della Borsa. Avventurieri d’ogni genere si facevano avanti per arraffare un piccolo villaggio o un granducato, una speculazione occasionale o un grande ente privatizzato. In tutto questo casino, Berlusconi sopravvisse e riuscì a tenere a bada le vecchie famiglie grazie alla sua capacità di buttare in campo, di volta in volta, pezzi di politica e di società dentro all’economia (produrre Beautiful o il Grande Fratello, in prospettiva, porta consenso e voti, dunque potere; costa molto meno che corrompere uno per uno gli opinion leaders del vecchio sistema.
Nel ’94 Berlusconi dovette, per non essere travolto, “scendere in campo” personalmente, come si disse allora; in realtà non era riuscito a trovare nessuno che lo facesse, secondo gli usi, al posto suo. Al governo, resistè poco e male: ma in quel breve periodo scoprì tutto un mondo; scoprì in particolare che era inutile avere masse di SA dietro di sè, se i generali della Werhmacht restavano ostili. Il secondo tentativo fu basato dunque su una lenta e paziente opera di ricomposizione coi poteri vecchi; il capolavoro fu l’accordo con Agnelli, subito prima delle elezioni, in cui il vecchio re concedette il suo appoggio all’uomo nuovo in cambio di garanzie di continuità e di denaro contante (il monopolio dell’energia).
All’indomani delle elezioni, Berlusconi si trovava dunque in una situazione solidissima, simile a quella di Hitler subito dopo Weimar: le SA che sfilano su tutte le piazze, i communisti e socialdemocratici allo sbando, i cattolici del “Zentrum” in fila per entrare nel nuovo governo, i Krupp e i Thyssen coi distintivi di Forza Deutschland all’occhiello; e i generali della Werhmacht che scattano sull’attenti di fronte all’omino con baffi e ciuffo, al sorridente Comunicatore.
Tutto questo, naturalmente, ha un prezzo. Non puoi goderti assieme le SA e i generali, non puoi pretendere di tenere assieme quelli a cui promettevi di rovesciare tutto e quelli che stai rassicurando che non cambierà niente. Devi scegliere. Hitler, che era un professionista, scelse: e fece fuori in una notte tutti i suoi capibanda delle SA; la mattina dopo si presentò dai generali e dai vecchi poteri forti e disse: “Beh, adesso possiamo cominciare a trattare”.
Berlusconi è un tenero, non sarebbe mai capace – probabilmente – di fare una Notte dei Lunghi Coltelli. Perciò cacciò l’uomo di Agnelli per far contento Bossi, nominò Taormina per far contenti gli avvocati siciliani, sfasciò platealmente la Rai perché in fondo la ditta di famiglia va tutelata… Si rese inaffidabile, insomma. Non davanti all’audience, ma davanti agli azionisti veri dell’azienda (quella che convenzionalmente chiamiamo Italia), che sono pochi e scelti e non hanno tempo da perdere né interessi da rischiare.
Negli ultimi sei mesi, molto al di là della politica, Berlusconi è stato quindi sotto esame. Ritengo che non l’abbia superato, e che la conclusione del Corriere sia il verbale d’esame. Ciò in sè non mi rallegra affatto: Berlusconi e la sua destra, per quanto incivili, non sono affatto l’unico male del paese. Al peggio non c’è fine, e un leader come Dini – ad esempio – riuscì a dar dei punti anche a Berlusconi. Ora come ora, il rischio è che dopo Berlusconi arrivi qualche cosa del genere: un berlusconismo senza Berlusconi, insomma. Prematuro pensarci? Mah. La faccenda del Corriere fa pensare che i tempi potrebebro anche essere stretti.
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Nel frattempo, la destra bruta – quella delle SA o dei leghisti, per intenderci – perde terreno in Europa. Heider, per esempio. Solo in Italia resiste ancora. Non perché qui sia più forte (la Lega, elettoralmente, s’è squagliata già da diversi anni) ma perché qui viene ancora considerata, chissà perché, necessaria a qualche cosa. Tecnicamente, Berlusconi non è affatto un Hitler (di cui possiede l’istinto demagogico, ma non la determinazione) ma un Mussolini: decisionista nelle piccole cose, ma nelle grandi un asino di Buridano. Non sceglierà mai fra gli squadristi e i generali. E dunque affogherà fra i Farinacci e i Ciano e i Buffarini-Guidi.

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Problemi. Quello coi baffi non paga il pizzo. Ha una pompa di benzina che fa un sacco d’affari ma lui dice che ai picciotti non li riconosce. E’ questo è un male. Tutti gli altri benzinai della zona (U’ Principe, U’ Quatar, L’Emiro e altri ancora) ora come ora pagano regolarmente, ma non si può mai dire: il malo esempio è contagioso. Perciò, problema: che dobbiamo fare? Io sarei dell’idea di mandargli un paio di picciotti a metterlo a posto definitivamente, visto che le bombe sotto il negozio non sono bastate a fargli cambiare idea. U’ tedescu invece dice che bisogna starci attenti, che quello è uno tosto (è stato anche in galera) e che prima conviene fargli un “ragionamento” di quelli che non si possono rifiutare. Mah. Qua il tempo passa, e quello continua a fare quello che gli pare. Già qualche negoziante, nel quartiere, comincia a fare il muso storto quando gli passano in bottega i ragazzi per il libero contributo. U’ tedescu e gli autri possono dire quello che vogliono, io già ci dissi ai picciotti di prepararsi a partire.

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Background. Nel 1820 il divario di reddito fra i paesi più ricchi e quelli più poveri del mondo era di circa tre a uno; nel 1913 – dopo le espansioni coloniali della seconda metà dell’Ottocento – era diventato di undici a uno. Due guerre mondiali dopo, nel 1950, il divario fra ricchi e poveri era già triplicato: trentacinque a uno. Negli anni Cinquanta e Sessanta numerosi paesi del Terzo mondo ottennero l’indipendenza politica, ma non quella economica: così nel 1973 (un momento peraltro alto del ciclo economico internazionale) il divario era aumentato ancora: quarantaquattro ad uno. Nel 1992, ai primordi della globalizzazione, il rapporto fra i redditi dei paesi più ricchi e quelli dei paesi più poveri aveva raggiunto la seguente proporzione: settantadue ad uno.
E’ l’ultimo dato ufficiale disponibile: l’Agenzia Onu per lo Sviluppo (a cui si debbono queste cifre) non ha ancora estrapolato gli indici di divario per il decennio in corso. L’Islam e l’anti-Islam, in tutto questo, non c’entrano per niente: è la nuda aritmetica che infiamma le popolazioni.

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Cronaca. Catania. Riapre l’università, e riapre anche la “società civile”: “Domani tutti in piazza contro la Bossi-Fini!”. Stavolta però i ragazzi che distribuivano i volantini nei corridoi di Lettere e Lingue si sono visti avvicinare da una guardia privata (oltre ai vecchi bidelli ora ci sono i vigilantes) che ha ordinato di smetterla. “In facoltà non si possono dare volantini”. “Ma si sono sempre dati!”. “Quest’anno no. Ordine dei presidi”. Ora, bisogna sapere che il preside della facoltà di Lettere, professor Mineo, e quello di Lingue, professor Pioletti, sono entrambi fra gli esponenti più autorevoli della “società civile” catanese: girotondi, dibattiti, appelli per questo e quello. Questo nel tempo libero. Ma a scuola “qui non si fa politica, si lavora”.

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Persone. Arnaldo La Barbera, che è morto adesso e che era sotto indagine per le violenze poliziesche a Genova dell’anno scorso (“indegne di un paese civile”, ha detto Amnesty) molti anni fa tuttavia aveva combattuto la mafia, giù in Sicilia, impegnando tutto se stesso e rischiando la vita. Perciò mi sembra giusto ricordare anche lui qui, fra i nostri. (La vita è complicata).

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Enrico wrote:
< Quanto ai siciliani, il loro più grande difetto, dopo l’ovazione elettorale per Berlusconi, è la pronuncia della congiunzione “e” aperta come il verbo “è”. Così finiscono per dire: “Il bianco è il nero”. Che nascano lì alcune confusioni? >
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O Enrio, se noi si fosse toscani, a chi gli toccherebbe di fare il siciliano ‘onfuso?

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Sbavaglio. Vent’anni fa di questi tempi eravamo attorno al tavolo della signora Roccuzzo e stavamo parlando del primo numero dei “Siciliani”, che poi uscì a dicembre dell’82; non mi ricordo se si parlava già dei pezzi (a me toccò l’intervista a Falcone, a Palermo) o se ancora si discuteva del progetto. Adesso, attorno al tavolo ci sono i ragazzi dei siti siciliani (Girodivite, Erroneo, Terre Libere ed altri) e l’idea sarebbe di mettere insieme tutti questi siti ed altri ancora, in Sicilia e altrove, per vedere se si riesce a sbavagliare un altro pò di rete. Vi farò sapere. Intanto, se v’interessa, fatevi sentire.

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Al tempo che tu e io

Al tempo che tu e io
eravamo tu e io,
al tempo della guerra, noi due insieme
e noi due soli.
Al tempo che m’insegnavi Mahler
e io a te i poeti greci.
Al tempo che ci tagliavano la luce
e noi a baciarci ridendo al lume di candela.
Al tempo di quel bar, degli sgabelli
davanti a quel bancone per la cena,
del pianoforte scordato, dei gatti,
dei fior-di-miseria violetti
spontanei fra le crepe del balcone.
Al tempo delle tue poesie
e della mia vecchia ventidue.
Tu sei sempre bellissima, tu, ed io
ho sempre da qualche parte
i miei occhi allegri di allora.
Al tempo che tu e io
eravamo tu e io.