17 febbraio 2003 n.166
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Non sono finora arrivate (per quanto ne so io: ma potrei sbagliarmi) le scuse del Presidente americano Bush e di quello italiano Ciampi, ai ventotto poveri pachistani arrestati a Napoli sotto l’accusa infamante di terrorismo. Sia Bush che Ciampi non avevano aspettato un attimo a congratularsi coi servizi per la “brillante operazione”, che a un osservatore minimamente attento sarebbe apparsa subito come una delle tante operazioni di routine di “fabbrica di mostri” dei servizi segreti: non senza, in questo caso, qualche possibile collaborazione della camorra (vedi la Catena dell’altra settimana).
Ma in Italia, purtoppo, oltre ai servizi segreti e alla camorra esiste anche una Magistratura. E i giudici napoletani, avute in mano le carte delle indagini, nel giro d’un paio di giorni hanno scarcerato tutti. Nessuna prova a carico degli emigranti; diversi interrogativi invece sulla serietà con cui sono state condotte le indagini. Che dovevano fruttare encomi, avanzamenti di grado, benefici e onorificenze, e invece hanno fruttato soltanto una terrificante brutta figura. Chiamiamola così, per non girare il sale nella ferita: ma fatto sta che ventotto innocenti hanno rischiato di fare la fine di Sacco e Vanzetti (“anarchici terroristi” perché italiani) e non l’hanno fatta solo grazie all’integrità dei giudici napoletani e alla petulanza e al coraggio di una piccola associazione di emigranti, la Score.
La seconda cosa da dire, in questa brutta storia, è infatti questa: di fronte a una retata di massa non di tre o quattro ma di un intero plotone di “terroristi”, e non di terroristi qualunque ma proprio di binladeniani sfegatati, pronti a fare saltare in aria mezza Napoli, non c’è stato un giornale o un politico che abbia sollevato il minimo dubbio su nessuno dei tanti lati oscuri della faccenda. Perizie sull’esplosivo? Testimonianze? Impronte digitali? Prove? Niente di niente. Eppure i giornali erano pieni di “rete terroristica sgominata”, i politici “garantisti” (compreso, purtroppo, Ciampi) facevano finta di crederci e nessuno, finché la bolla di sapone non è esplosa, ha osato azzardarsi a dire una parola. Mi piacerebbe fare l’elenco dei politici “progressisti”, richiesti di una dichiarazione di solidarietà, che invece l’hanno negata: ma per carità di patria lasciamo andare. Citerò solo Amato Lamberti, che non mi è simpatico, ma è stato l’unico dei politici ad avere avuto il coraggio di sollevare subito e pubblicamente dei dubbi sulla serietà dell’operazione. Tutti gli altri se ne sono stati poco dignitosamente zitti. La politica italiana non ci ha fatto una gran bella figura.
Nemmeno il giornalismo italiano, coi suoi “al mostro al mostro” senza verifica delle fonti ci ha fatto una figura particolarmente felice. A tutt’e due – giornalisti e politici – consiglieremmo adesso, per un fatto più che altro di buon gusto, di astenersi per qualche tempo dall’adoperare paroloni come “garantismo”, “giustizia”, “antiterrorismo”, civiltà occidentale” di cui spesso e volentieri si adornano ma a cui in realtà non attribuiscono alcun reale significato. A parte la Magistratura che ancora riesce a resistere, in queste belle parole, nell’Italia ufficiale, ormai non ci crede più pessuno.
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Fra tutti i giornali e le televisioni italiani, la Catena e Clarence sono stati gli unici a dar copertura giornalistica corretta a questa vicenda. Non ne siamo orgogliosi: ne siamo spaventati.
Fra tutti i gruppi e partiti politici italiani, l’unico a difendere in questa occasione i principi di garanzia e di diritto che fondano (teoricamente) il nostro stato è stata una piccola associazione di emigranti, la Score: che ha denunciato il caso, ha trovato gli avvocati e ha allertato l’opinione. Senza di essa, probabilmente, neanche gli elementi difensivi sarebbero riusciti ad arrivare fino al Magistrato.
Povero quel paese in cui, davanti all’ingiustizia che avanza, i generali scappano e di sentinella restano qualche giornalista ‘mbriagone, qualche volontario straccione e qualche ragazzino.
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“Parla piano ma…”. Numerose lettere su quanto dicevamo la settimana scorsa a proposito di “guerra contro l’Europa” e necessità di un esercito europeo. Critiche da destra (“sei antiamericano”) e da sinistra (“bel pacifista!”).
Alla seconda critica, rispondo subito che, con tutto il rispetto per chi è pacifista, io – mi dispiace – non lo sono. Nessun paese deve mai aggredirne un altro, ma nessun paese può sperare di essere difeso dal pacifismo degli altri se non si mette in grado di difendersi da sé. Noi europei, in particolare, non possiamo affidarci al buon cuore degli arabi, dei cinesi, dei russi o anche degli americani. Dobbiamo essere in buoni rapporti con tutti, ma essere se necessario in grado di difenderci da ciascuno di loro, americani compresi. Diversamente, la nostra prosperità economica sarà solo un incentivo per scippatori e mafiosi internazionali, gli uni brutti cattivi e col coltello, gli altri benvestiti e simpatici e con “offerte che non si possono rifiutare”, ma tutt’e due intenzionati a mettere in qualche modo le mani sopra ai nostri soldi.
Come mai la benzina in Europa costa duemila lire e in America mille? Quanto dovrà arrivare a costare in Europa, perché in America possa arrivare a costarne cinquecento? Lo so che è maleducato e antipatico porsi queste domande. Ma qualcuno, in Europa, se le deve pur cominciare a fare.
Quanto all’antiamericanismo, io non sono né americano né antiarabo né antiniente. Sono semplicemente europeo. E come europeo vedo che da qualche anno a questa parte in America sono sempre più convinti di essere diventati una specie di nuovo impero romano o qualcosa del genere. E noi non siamo affatto disposti a diventare i nuovi schiavi greci. Può darsi che sia una pazzia momentanea, comunque è meglio che passi in fretta: anche perché gli Stati Uniti, da un punto di vista economico, ora come ora sono più una ditta a cambiali che un impero. Nell’attesa, per seguire il consiglio di un americano molto pratico (Theo Roosevelt, il primo), “parla piano e tieni un grosso bastone”.
Questo non è antiamericanismo, è solo buon senso. Il bastone, se tutti fanno le persone civili, poi magari serve semplicemente per ballarci il tip-tap.
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Cina. Condannato all’ergastolo il dissidente Wang Bingzhang, accusato di terrorismo e spionaggio ma in realtà colpevole solo di aver criticato il regime politico del suo Paese.
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Cronaca. Chieti. Denunciati per atti osceni in luogo pubblico due giovani che si erano lasciati andare a giochi erotici all’interno della loro automobile. Sono stati comunque lasciati a piede libero, anche in considerazione della loro età (lei settantaquattro, lui ottantacinque anni).
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Cronaca. Roma. Adolescente polacco fermato dagli agenti appena finito di scrivere un “Ti amo Giovanna” sui muri di via Raimondi. Il messaggio, lungo otto metri, aveva rischiesto ben cinque bombolette di spray. Il compagno Chopin ed io ci auguriamo che la signorina Giovanna non resti insensibile a tanta vernice e tanto amore.
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Cronaca. Milano. Assolti i dirigenti della Breda Fucine di San Giovanni, accusati della morte di sei operai morti per amianto. Al momento dell’assoluzione gli operai sopravvissuti hanno gridato “vergogna”.
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Feuilletton. Patrice Sarn, ventiquattro anni, di Tolosa, famiglia di marinai e sottufficiale di marina egli stesso, viene accusato dai superiori – alla fine del ’98 – di malversazione. Tutte le prove sono contro di lui. Getta l’uniforme, e fugge. Di fuga in fuga, di paese in paese, coll’incubo dei gendarmi, infine si riduce in Roma; e vive facendo il barbone, bevendo parecchio e farfugliando ogni tanto qualcosa di comandanti ingiusti e di Francia. Un giorno, in un’ondata terrificane di gelo, un uomo esanime viene raccolto per strada, morente di freddo, da una pattuglia di volontari. All’ospedale lo curano, lo assistono e gli promettono di non dire niente di lui. Ma qualcosa trapela fino all’Ambasciata. Qualche giorno dopo, un funzionario viene a trovarlo all’ospedale. Può tornare in Francia quando vuole, Monsieur Sarn: e persino in Marina. Il processo s’è fatto, due anni fa, a sua insaputa; assolto completamente, vittima di un intrallazzo di superiori. Il barbone sorride mitemente, senza troppa emozione: che la giustizia trionfia sempre, alla fine, lui già lo sapeva.
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mtms wrote:
< E’ curioso notare come uno dei principali argomenti della propaganda di guerra sia stracciarsi le vesti per i curdi iracheni gasati da Saddam. Agli stessi difensori della libertà e dei diritti umani, quando invece gli nomini Ocalan, scatta però il riflesso condizionato e gridano al terrorista. Malgrado il governo turco non riservi ai curdi un trattamento migliore di quanto faccia il regime iracheno, nessuno ha ancora (per fortuna) proposto di bombardare Istanbul. Si vede che è una questione di frontiere: se sei curdo ma hai la sfiga di vivere in Iraq ti arruoliamo fra i “buoni” mentre se, sempre per sfiga (pochi popoli al mondo sono sfigati quanto quello curdo), vivi in Turchia allora sei nella lista dei “cattivi” e con te faremo i conti dopo perchè la lotta al terrorismo bla bla bla… >
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Libro di lettura (ad uso dei piccoli siciliani, e anche neri, marrocchini, africani, brasiliani e rumeni e di tutti gli altri Paesi). La Sicilia è un’isola. Essa confina con l’Argentina, l’Australia, la Svizzera, il Belgio, la Germania e gli Stati Uniti d’America. Esiste una città nelle Americhe dove tutti gli sbitanti sono siciliani. Essa si chiama Brooklin e ci fanno la festa di Santa Rosalia.
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Riepilogo
E’ strano come a volte possano capitarti
i casi della vita.
Io ero postino a Middletown, Ohio,
e un giorno m’è arrivata la chiamata
e sono partito.
In Asia, ci sono stato un anno e mezzo
e mi sono preso il grado di sergente
e una scheggia nel braccio.
Poi, quando sono tornato nell’Ohio,
alcuni hanno detto che ero un assassino,
altri invece che avevo servito
la patria.
Ma non credo che valga la pena di grandi parole
quando tutto quello che hai fatto
è stato camminare nella foresta
sparando qualche colpo a un nemico invisibile.
Però un ricordo m’è restato impresso.
E stato quando ho visto in mezzo all’erba
il cadavere dello Charlie che avevamo ammazzato
e mi sono meravigliato
che il nemico fosse così piccolo.
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)