Giornalismo. Torino. Luciano Beltrame, 58 anni, omosessuale, ucciso a bastonate nel garage dove viveva. “Un uomo mite e che non dava fastidio a nessuno”, porta aperta, persona probabilmente conosciuta. Questa notizia, su Repubblica, vale mezza colonna.
Giornalismo. Gallarate. Imprenditore trentaseienne dà fuoco a un suo operaio (rumeno) nel corso di un diverbio su paghe arretrate. Bottiglia di benzina, ustioni sul 90% del corpo. Questa notizia, secondo il Corriere, va data nelle pagine interne, titolando sulle giustificazioni dell’imprenditore e confinando a trenta righe di box la storia della vittima (immigrato, moglie ospite di parenti, come faremo a tirare avanti adesso.
Giornalismo. Barletta. Emigranti feriti a revolverate dalle forze dell’ordine mentre si nascondevano in un campo di carciofi. “Credevamo fossero armati”. Questa notizia, secondo il Corriere, va data in un sesto di colonna, titolo a una colonna, a pagina 17.
Italia. Il tema della P2 è rapidamente apparso e scomparso nella campagna elettorale. È apparso gloriosamente con la rivendicazione di Berlusconi, ed è scomparso senza particolari conseguenze dopo un paio di giorni di (generiche) polemiche. Il common sense dei giornali, alla fine, era che vabbé, qualcuno ha ragione e qualcuno ha torto ma alla fine la piddue è roba di vent’anni fa: faccendieri, spie russe, gladiatori – tutta roba passata, da dimenticare tutt’insieme. E qualcosa del genere s’era già sentito in occasione dell’affare Mitrokhin (io mi chiedo se non fosse proprio questo il suo obbiettivo). Tu che hai diciott’anni, in ogni caso, della P2 non ne sai niente (“gente losca di tanti anni fa”, se proprio sei di sinistra) e non hai granché voglia di saperne di più: meglio così, perché altrimenti potresti combinare guai.
Mah. Intanto: perché Berlusconi, così all’improvviso, ha rivendicato? E perché proprio adesso, a un passo dallo scontro decisivo? E a chi doveva rendere conto – a chi parlava? In massoneria, non esistono le improvvisazioni, e nemmeno il “tanto per dire”. Purtroppo, non sono in grado di rispondere a queste domande. Ma sono uno dei pochi italiani che se le fanno ancora.
La P2, contrariamente all’attuale linea-del-partito, è stata una cosa seria. In genere ha conseguito i suoi obbiettivi (quasi tutti i punti del Piano di Rinascita di Gelli sono stati concretamente realizzati ), quelli almeno di carattere istituzionale – hardware, per così dire. Meno successo ha avuto sul piano del software, del riassetto sociale profondo: qui ha avuto la disgrazia di imbattersi in alcuni anni di forte coscienza civile, che hanno prodotto quella minoranza di magistrati, giornalisti e persino politici sufficiente a inceppare il meccanismo (Oh, ma insomma me lo dici quali erano gli obbiettivi di ‘sta gente? Semplice: dai un’occhiata a come funziona la Russia e hai capito tutto).
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Per P2 s’intende ufficialmente una lista di 953 nomi sequestrati nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi. La mia opinione è che la vera lista – quella operativa – sia invece il tabulato di 994 nomi sequestrato nella stessa occasione e messo agli atti della Commissione Anselmi come “reperto 2/B” (esistono ancora, fisicamente, gli atti della Commissione Anselmi e sono ancora fisicamente consultabili? Non lo so. Il reperto 2/B, se ben ricordo, si trova nel libro primo tomo secondo.
464 nomi sono in comune sia alla lista “uffiale” che al tabulato. Sono i nomi più “operativi”. Che vuol dire?
L’elenco della P2 è cronologico. La prima parte dei nomi, qualche centinaio, sono elencati in ordine alfabetico: si tratta evidentemente del nucleo iniziale della P2. La seconda parte consta di circa cinquecento nomi, e qui l’ordine alfabetico non è più rispettato: evidentemente venivano aggiunti man mano che s’aggregavano al nucleo iniziale. La terza parte (120-150 nomi al massimo) è concentrata in un periodo di tempo minore, e neanch’essa rispetta l’ordine cronologico.
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La prima parte dell’elenco comprende esclusivamente massoni, con una forte percentuale di “30” e “33” (i gradi massonici vanno da 1 a 33); geograficamente, prevalgono le regioni di tradizionale presenza massonica (Toscana, ecc. ). Qui troviamo il barone universitario, il generale in pensione – i notabili, insomma. Vengono “garantiti”, in genere da altri esponenti della massoneria.
È il quadro insomma di una normale logia massonica d’elite (il termine P, cioè Propaganda , è “regolamentare”: venne già usato a fine Ottocento per un certo numero d’iscritti autorevoli, fra cui ad esempio Carducci, che volevano mantenere riservata la loro adesione). La finalità sociale, per quel che credo, era tranquillamente italiana: raccomandazioni, carriera, piccoli intrallazzi e così via.
La seconda parte dell’elenco (i nuovi iscritti: a un certo punto, evidentemente, qualcuno ha deciso improvvisamente di allargare – perché? – la vecchia loggia dei notabili) è costituita ancora, in linea di massima, da massoni, ma i “33” adesso sono rari; il grado medio di questo pezzo di P2 è il “3”, vale a dire il massone ordinario. Geograficamente, è rappresentata tutta l’Italia alla pari, con forse una lieve prevalenza per Roma. Sociologicamente, non abbiamo più – per esempio – il generale in pensione, bensì il capitano in servizio effettivo (curiosità: diversi ufficiali di grado intermedio dei Servizi di sicurezza della Marina: questa categoria è soprarappresentata anche nell’equivalente argentino. I “garanti”, nei casi in cui sono noti, sono sempre esponenti della massoneria “regolare”.
La terza parte dell’elenco, che è la più piccola e la più concentrata nel tempo, presenta le seguenti caratteristiche: 1) non c’è nessun alto grado della massoneria; 2) molti degli iscritti non sono mai stati massoni (anche fra i “garanti”: fra i quali figurano politici come l’allora esponente andreottiano di Palermo D’Acquisto); 3) sociologicamente, abbiamo ufficiali, funzionari e politici più “operativi” rispetto ai precedenti; 4) geograficamente, la regione più presente fra gli iscritti di questo segmento è – per nascita o per attività – la Sicilia.
La divisione in tre fasce si riscontra sia nell’elenco ufficiale che nel tabulato, e può essere dunque considerata una caratteristica generale del fenomeno. Ci sono stati dunque, nella storia della P2, tre diversi momenti, in ciascuno dei quali essa serviva a qualcosa di diverso – e, a giudicare dai dati, di progressivamente più importante.
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Tutto questo per dire che la sortita di Berlusconi – ma non vorrei personalizzare: è meglio percepirla come l’azione di una componente significativa dello schieramento di destra – non riguardava storie passate. Riguardava quello che è stato il cuore della lotta politica in Italia negli anni determinanti per l’evoluzione – o l’involuzione – del sistema. In quegli anni e in quelle strutture Berlusconi non ebbe (*che si sappia*) un ruolo determinante; non tanto, almeno, da giustificare un’uscita rischiosa come quella di cui s’è parlato. È tuttavia possibile che abbia agito da portavoce.
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Molti anni fa, su queste cose, lavoravo insieme con uno dei massimi specialisti italiani di massoneria, quello che inventò il termine “massomafie” e acclarò tutta una serie di rapporti fra strumenti massonici e poteri mafiosi. “Lavorare”, a quell’epoca, significava passare le settimane e i mesi nell’analisi comparata dei documenti (e di altri dati) e non, come adesso, cercare disperatamente di richiamare alla memoria brandelli di ricordi perché possano essere forse (così ci s’illude) ancora utili a qualcuno.
Questo numero della “Catena”, in ogni caso, è dedicato al professor Giuseppe D’Urso di Catania, ricercatore e militante del movimento antimafioso, morto in solitudine diversi anni fa, e – italianamente – dimenticato. Non si può pretendere naturalmente un particolare sforzo di memoria, né d’impegno civile, su questa faccende, dai giornalisti e dalla “sinistra” d’oggigiorno. Comunque, caro professore, Lei ed io il nostro dovere l’abbiamo fatto e io che sono ancora vivo cerco di continuare a farlo anche stasera, come vede.
Italia. Secondo la Lipu, quest’anno sono arrivate circa ventimila rondini in meno, con la primavera.
Schifano Attilia detta Lia vive, dentro una roulotte, dalle parti di ponte Testaccio a Roma e da una settimana in qua s’è data (come Feltri e altri illustri colleghi) all’allevamento dei cavalli. L’investimento della Lia si chiama Evelina, ha un’età indefinita (ma non inferiore ai diciotto) ed è costato duecentomila lire, a rate. “Al mattatoio la stavano portando, povera animala. Ma adesso voglio vedere chi la tocca”.
(Tanti anni fa, nel corpo degli alpini, fu presa la decisione di mandare finalmente in pensione i muli. Solenne cerimonia a Bassano del Grappa: il fedele compagno dell’alpino, l’eroe di tante guerre, la patria riconoscente. Alla fine, squilli di tromba, ultima sfilata dei fedeli quadrupedi e rompete le righe. Qualche mese dopo, nelle cronache del Trentino, saltò fuori la storia di un tedesco, certo Hauser se ricordo bene, che aveva comprato dall’esercito alcune centinaia di muli a prezzo di liquidazione ed intendeva valersene per farne salumi. La storia venne fuori per via della lettera, pubblicata su un giornale locale, di un paio di alpini che, avendo saputo delle intenzioni del tedesco, faceva appello ai commilitoni affinché con una pubblica sottoscrizione riscattassero i muli dalle grinfie del crucco. Non so come sia andata a finire la storia: però non compro più insaccati altoatesini, e non mi fido più dei generali).
Antartide. Mare di Ross. S’è staccato, e sta adesso dirigendosi verso il largo, un pezzo di banchisa lungo 293 chilometri e largo 37. Una volta (incendi in Amazzonia) “ci siamo bruciati l’Austria”. Adesso “ci siamo squagliati l’Abruzzo”.
Paolo Guerra propone un indovinello elettorale:
È tempo di eleggere un leader mondiale e voi siete chiamati a votare. Queste sono le informazioni relative ai tre candidati:
Candidato A: il suo nome viene associato con quelli di politici corrotti ed inoltre egli è solito consultare degli astrologi. Ha avuto due amanti. Fuma una sigaretta dopo l’altra e beve da 8 a 10 Martini al giorno.
Candidato B: è stato licenziato dal lavoro due volte, dorme fino a tardi, faceva uso di droga all’università e consumava un quarto di bottiglia di whisky ogni notte.
Candidato C: È un eroe decorato di guerra. È vegetariano, non fuma, di tanto in tanto si fa una birra e non ha mai avuto relazioni extraconiugali.
Quale dei tre candidati eleggereste?
Prima decidete e poi guardate la risposta…
(Risposta: Siamo negli Anni Trenta. Il candidato A è Franklin Delano Roosevelt. Il candidato B è Winston Churchill. Il candidato C è Adolf Hitler).
All’ambasciatore di Danimarca, personale e urgente. La redazione, la direzione, l’amministrazione e i collaboratori di questo giornale (me medesimo, insomma) si pregiano di formulare rispettosamente le pi vive felicitazioni per il novantesimo genetliaco di Sua Maestà la Regina madre Ingrid di Danimarca, che dio le dia gloria e la conservi.
Molti anni fa, quand’era una ragazza con le gambe lunghe e andava svelta in bicicletta, Ingrid è uscita in piazza un bel mattino con una macchia gialla sul petto, una macchia a forma di stella. I tedeschi, che occupavano il regno, avevano ordinato che tutti gli ebrei portassero una stella sul cappotto, per distinguersi dalla gente “ariana”. Il re, la regina, il principa ereditario e tutta la famiglia reale non dissero niente: si misero la stella ebraica addosso, e uscirono dalla reggia. Dopo un’ora Copenhagen era piena di stelle gialle, ma tante ma così tante che i tedeschi non sapevano da che parte voltarsi.
Dio salvi la regina (di Danimarca), compagni. E calci in culo ai Savoia.
El Manco
“Non è stata una rissa d’osteria” disse il monco
quando la parola “storpio” gli fu soffiata alla schiena
dal poeta rivale, uomo di mondo e spia.
“Non è stato un coltello a storpiarmi la mano
ma una spada in battaglia, combattendo
nel giorno più glorioso che ricordino i re”.
Scrisse queste parole con l’altra mano,
a lume di candela. Sul povero muro
tremò per un istante l’ombra di Quixada
e scintillò – o gli parve – un riflesso di mare.
Ultimora – La morte di Buscetta
Non ho il tempo, e tuttavia non riesco a farne a meno, di scrivere qualcosa su Tommaso Buscettaa a cui toccò in sorte, dopo una vita fuori dalla legge, di dare un contributo forte e coraggioso alla (possibile) sconfitta del potere mafioso. Non fu colpa sua se le persone perbene decisero, alla fine, che questo potere poteva continuare. Fu uno dei pochissimi, fra i tanti “pentiti”, a pentirsi davvero, da uomo; e a pagare un prezzo altissimo per questo. Come cittadino italiano, e in particolare come siciliano, ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Il pezzo che segue è dell’aprile 86 (esattamente quindici anni fa), e fu scritto mentre era in corso il maxiprocesso di Palermo, reso possibile innanzitutto dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta.
Primula, la mafia e il bunker
“Levati di là” disse il vecchio ridendo.
“No” disse ridendo il bambino.
“Levati di là o ti sparo” disse il vecchio.
“Io, ti sparo!” disse ancora il bambino.
“Non che non puoi spararmi! La pistola non ce l’hai!”.
“Neanche tu! Neanche tu, ce l’hai!”.
“No, che il nonno ce l’ha, la pistola!”. La donna grassa disse questo e il vecchio annuì soddisfatto. Il vecchio era piccolo e forte come possono esserlo i contadini di certi paesi della Sicilia fra Enna e Caltanissetta e sorrideva felice. Il bambino avrà avuto un sette o otto anni, e anche lui sorrideva. Stranamente, sia il bambino che il vecchio avevano gli occhi d’un azzurro lucente. La corriera sarebbe passata da lì a poco ed essi, il vecchio con la pistola, il bambino e la donna grassa e vestita di nero, attendevano la loro corriera in una città del mondo che solo per caso era Palermo. Nella città di Palermo, in quel periodo, c’era un Processo.
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Dall’alto, là dentro, le figure appaiono molto più nitide del normale. Nitide e lontane, quasi teatrali. Tutto in effetti, in quel posto, appare come accuratamente preparato – la luce bianca, le pareti verdi, il nero – – per la rappresentazione di qualcosa. C’è un monitor in tribuna-stampa, un comune televisore, puntato sull’aula del processo, che riprende magistrati e avvocati nel momento in cui parlano e fanno casino o semplicemente stanno lì ad aspettare. I cronisti ci affollavamo attorno a questi monitor, fissando avidamente gli occhi su ciò che si muoveva dentro il piccolo schermo e che contemporaneamente, nell’indifferenza generale, accadeva in realtà a dieci metri da noi: se un commando fosse sbarcato nell’aula e avesse portato via baracca e burattini stando attento a tenersi fuori portata dalle telecamere non ce ne saremmo probabilmente accorti, presi ipnoticamente dallo schermo; a meno che proprio in quel momento il primo piano del presidente Giordano non fosse sfumato nello spot pubblicitario dei pannolini Lines o di canale Cinque. È che ormai il filtro del televisivo – della vita-spettacolo, dell'”altrove” – è nella fisiologia umana; ed è rassicurante. Fuori dal serial, intanto, Palermo si trascinava.
La faccia del presidente Giordano era quella di un qualunque galantuomo a cui, nel corso d’un civile ricevimento, avessero rovesciato coscientemente del caffè sui calzoni e che, di tutti gli accidenti della vita, questo proprio – la maleducazione – non riesce a spiegarsi. In realtà gli avvocati delal mafia c’erano andati giù pesanti: il presidente, avevano detto, non può continuare a processare perché “ha interessi personali nel processo”. Il giudice s’era imbrogliato “anticipando un nome di Contorno: insurrezione dei difensori, sghignazzate feroci – in sincronia – dei mafiosi e, un’ora dopo, il rappresentante degli avvocati di cosa Nostra che, consultati i colleghi e messo giù un documento, si alza ad accusare ufficialmente di malafede il presidente (nello stesso momento, a Messina, gli uomini delle Famiglie mafiose recitano la sommossa per bloccare anche l’altro processo). La faccenda sta a galla un ventiquattrore, poi la macchina riparte: Giordano resta, i testimoni continuano a parlare, i mafiosi a doverli ascoltare, il cancelliere a fermare tutto quanto diligentemente sul librone. E il processo va avanti. Questo è stato il primo tentativo serio di bloccarlo – contemporaneamente, a Palermo e a Messina – e, alla prima ripresa, non è riuscito.
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Nel frattempo, fuori dal bunker; si moltiplicano gli “avvertimenti” e i segnali. Prima c’era stata la consegna ai carabinieri del boss latitante Greco: una prova di forza, un’ammissione di debolezza e un messaggio, in qualche contorta maniera, di disponibilità a “traatre” (di isolare cioè la parte più esposta della struttura mafiosa). Poi i millecinquecento nomi della Loggia, nomi della Palermo-complice, ma degli anni passati (e nello stesso momento il principe Alliata di Montereale, eminenza grigia di cento corridoi fra Roma Palermo e Malta, viene nominato Gran Maestro del più pericoloso e intrigante Ordine massonico d’Italia, quello di Piazza del Gesù).
Infine, la deposizione di Buscetta: della quale, ciò che è rimasto in mente a chi doveva giudicare – fuori dall’aula, s’intende – è l’assoluta indisponibilità a ricordare nomi di politici. Infine, le mezzeparole di Liggio: due, tremila uomini mobilitati per un colpo di stato in Sicilia già negli anni Settanta; la mafia mobilitata come struttura d’appoggio dei politici – vivi e morti: dei morti non si parla per rispetto, dei vivi perché vossia m’intende… – che lui, Liggio, non vuole nominare ma se volesse potrebbe…
Liggio, parlando da critico teatrale, non ha dato la sua migliore interpretazione. Tutti gl’inviati della grande stampa s’aspettavano il Padrino con sigaro e sorriso sfottente, la faccia impassibile sotto le accuse dell'”infame” Buscetta, uno stringer d’occhi – al massimo – nel momento del faccia a faccia. Hanno avuto invece il volgare assassino smascherato, che perde le staffe e si rivela, nel momento della verità, non più saldo di nervi del rapinatore di banc. Buscetta è riuscito a disprezzare Liggio, Liggio noné riuscito – per quanto disperatamente lo volesse – a disprezzare Buscetta.
La mafia del “rispetto” – ha detto in sostanza Liggio: senza volerlo né saperlo, ma con assuluta chiarezza – non esiste ormai più: eccomi qua, io, Liggio di Corleone, ad aspettare nervosamente quel che diranno di me i testimoni, insalivando un mezzo sigaro in bocca, senza riuscire a tacere né a sembrarvi lonatno: sono un povero storpio, dentro e fuori. Ed in realtà, anche in quel momento, l’unico “mafioso” era Buscetta, l’unico a possedere quella solitudine feroce, quel distacco da tutti gli altri, quel non attendersi nulla d’umano dalla vita che stanno al fondo dell’antica parola. Gli altri, soltanto gregge informe impaurito dal castigo.
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Né sappiamo quali pensieri passassero dietro gli altri visi in quei momenti. I giudici e i giurati, e gli stessi avvocati in toga, erano visibilmente tesi a non sfigurare nella Storia; il gesto tribunizio del legale, il sorriso sommesso del presidente volevano essere, prima di tutto, una degna immagine di se stessi (non per la televisione, supponiamo; per qualcosa di più lontano); lo stesso avvocaticchio di provincia, che rotea le braccia e s’impappina sulle figure retoriche, sente confusamente che è un momento importante, e che proprio lui – chissà come – c’è dentro. Facilmente decifrabili, crediamo, anche i sentimenti d’un Contorno: libero ancora una volta di battersi e di colpire, ferocemente sincero, trionfante alla faccia di tutti; di Liggio e della sua decadenza non è stato difficile accennare.
Più complicato l'”infame”. Ultimo della razza, senza speranze né obbiettivi, è un robot improvvisamente sprogramamto; e procede in avanti, ciecamente, senza pensare assolutamente nulla. È stato, moltissimi anni fa, un ragazzo d’una borgata palermitana. Ha vissuto il “pani-cc’a-meusa”, la ferocia, lo scendere della sera nel quartiere; il “rispetto” dei vecchi, la serietà del farsi uomo. Tutte cose che con la mafia di oggi, trafficante ed elettronica, non c’entrano proprio più. Non ha nessuno nell’aula: non coloro che accusa (non tanto perché nemici, quanto perché irrimediabilmente “nuovi”); non coloro che aiuta, degni di rispetto ma “sbirri”. Non sa cosa farà, finito l’ultimo “lavoro”. Sa solo adesso: colpire e, per un riflesso animale, restare vivo. Il resto non importa. Forse, di tanto in tanto, un qualche ricordo di quartiere. Forse, nemmeno quello.
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La ragazza, improvvisamente, comparve dinnanzi alla Corte. Ha detto qualcosa ma nel clamore nessuno, che si sappia, l’ha sentita; e i giurati, del resto, fissi sul testimone, l’attraversavano con lo sguardo senza riuscirla a vedere. Eppure ella era là in piedi davanti a loro, fra gli avvocati e il presidente, e li guardava col viso serio, serenamente (C’era un giovane accanto, tormentato, che la teneva per mano, e taceva).
“Io mi chiamavo Primula – dice ora la ragazza – Non ce l’ho fatta. Ma perlomeno ci ho provato. Non l’ho lasciato solo”.
Due imputati continuano, sguaiatamente, a sussurrarsi qualcosa, ed il loro avvocato a perorare; il presidente, con gli occhi bassi, leggiucchiava una carta. Improvvicamente, sparì d’un colpo l’aula del processo e ci ritrovammo su una strada. I camion passavano veloci, senza fermarsi, e i due ragazzi – il viso del ragazzo risplendeva, stavolta; avevano in spalla zaini e sacchi a pelo – li inseguivano ridendo, correvano tenendosi per mano e si fermavano, ridendo e ansimando, al paracarro successivo. Avevamo appuntamento a Digione, ottanta chilometri più avanti, ed era una di quelle estati da autostop, e lei già l’aspettava un’overdose, a Bologna, in quell’inverno, e lui tre anni ancora in una piazzetta di Messina.
Vorrei lasciarli là, nella loro estate, sulla loro strada: mentre, molto lontano da loro, il presidente ricomincia a interrogare e il processo di Palermo, contro i signori della droga, faticosamente va avanti.