26 gennaio 2004 n. 215
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Sono rimasto, accidenti, senza computer e questa settimana posso scrivere solo per pochissimo tempo. Me la cavo recuperando alcuni vecchi appunti (di quattro anni fa, per la precisione: uscirono sulla Catena numero 20) e ve li piazzo qui perché – nella loro rozzezza – può darsi che funzionino ancora. Ma prima bisogna fare un passo indietro e tornare all’attualità, per esempio al caso Parmalat. Non so, da fuori rete, fin dove siano arrivate le indagini (si parla già di Standard & Poor) ma la mia sensazione – basata qui per necessità sull’intuito e non sull’approfondimento – è che siamo arrivati al punto in cui la cosa migliore sarebbe di lasciar perdere tutto, chiudere le indagini con un pretesto qualunque (ad esempio, addossando la colpa al ragioniere) e far finta di niente; e se i giudici insistono a volere indagare, tappargli la bocca con una bella leggina ad hoc, come ormai è d’uso. Perché? Per lo stesso motivo per cui a un certo punto è meglio il metadone. Quando un poveraccio è ormai talmente fatto da non riuscire a distinguere fra il mondo reale e quello costruitogli dentro dall’eroina, quando quest’ultima è penetrata così profondamente da non distinguersi più dai liquidi fisiologici e dai processi normali, allora – se non più giusto – è più umano tenerlo nel suo paradiso artificiale, da cui non evaderebbe comunque, e dargli le dosi di oblio di cui non può più fare a meno. Fa molto più share Bonolis (con la spalla Ricci) che non Parmalat e dintorni: metadone.
Il mio sospetto è che ormai l’economia artificiale (il mio cane vale un milione di euri: lo vendo per due gatti da cinquecentomila; quoto i gatti e col ricavato compro cento canarini da diecimila euri l’uno; e così via ad libitum, finché non passa qualcuno da fuori manicomio) sia la vera economia del Paese, rinunciando alla quale tutto crollerebbe.
Viviamo in un’Italia che non c’è, percorsa da fighetti e veline che non esistono, in mezzo ad un benessere molto virtuale prodotto da imprenditori senza impresa. L’unica cosa reale, in tutto ciò, è la propaganda. Lucignolo e Pinocchio sono sempre bambini, ma l’omino di burro è cresciuto assai: non più il burattino e il monello ma Geppetto e la fata e la volpe e i gendarmi e Mangiafoco e i cittadini tutti sono ormai convinti di essere in un felicissimo paese dei balocchi: e ne mimano i gesti, seduti – in realtà – per terra, con un sorriso felice e gli occhi chiusi. Un sogno.
E perché uscirne mai, se ancora non c’è crollato in testa? Se non possiamo – o non vogliamo – reagirvi, perché dovremmo esserne informati? Fra tutti i giornalisti che conosco, quelli economici – cifre e cravatta – sono di gran lunga i più autorevoli e seri, quelli a cui mi piacerebbe assomigliare il giorno che diventassi un giornalista perbene. E i più simpatici? Sono quelli sportivi: scorrevoli, alla mano, talmente popolari da essere letti dal barbiere.
Gli uni e gli altri sono in realtà le più grandi categorie di truffatori esistenti nel Paese: i primi hanno spinto Fiat e Parmalat fino a un momento prima del crollo; i secondi hanno fatto finta di niente su quel che succedeva nel calcio, sempre più trasformato in gioco delle tre carte per i gonzi-tifosi, con sempre meno gol e sempre più pay-tv, Spa, banche e superpresidenti che la domenica sfilavano come tanti Cesari e il lunedì scappavano in diligenza. E quando il pensionato che ha perso i risparmi o il tifoso rimasto senza squadra domandano “ma che è successo”, il grande giornalista economico – o sportivo – allarga le braccia desolato e “Imponderabili” risponde, con un sospiro partecipe e un sorriso scettico da uomo di mondo.
Senza l’informazione-propaganda, che ormai è molto più importante dei politici e di tutto il resto, nè Lazio nè Parmalat sarebbero potute accadere. Ma ormai l’informazione-propaganda è talmente normale da non essere più percepita come tale. Della vecchia informazione, del vecchio giornalismo, dei giornalisti ormai s’è perso pure il ricordo; quei pochi che ancora vengono avvistati o sono esemplari vecchissimi – Biagi – oppure talmente fuoribranco da essere confusi con altre razze.
A quanto starebbe la lira oggigiorno, se non ci fosse l’euro? Quale sarà la prossima società indagata? Perché tutte le grandi squadre di calcio sono legate ad altrettante banche? Come mai, da allora, tutti i (contrapposti) calciatori sono gestiti da un’unica società? Quando, dopo i tranvieri e i pompieri, cominceranno a scioperare (classicamente) anche gli operai? Perché non danno diritti agli extracomunitari: perché sono stranieri, o perché sono operai?
Quante belle domande giornalistiche, se ci fosse ancora un giornalismo. E adesso smetto, perché il computer qui serve.
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Nove appunti sull’informazione al tempo dell’internet
1. Le due rivoluzioni:
– i soldi fanno un sacco di soldi (Aol-Time ecc)
– i ragazzini ricominciano a scrivere lettere d’amore (e-mail, sms)
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2. Le “nuove” tecnologie non sono più nuove da un pezzo e ormai hanno individuato un universo abbastanza preciso. Gli internet in realtà sono due:
– il web modello tv;
– il web interattivo.
L’interattività è il fatto nuovo e il tasso di interattività è l’elemento decisivo.
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3. Il mondo come comunicazione/rete (l’informazione come caso particolare). Il mondo di cui si parla e il mondo di cui non si parla. Il mondo che parla e il mondo che non parla.
Quanco costa realmente l’accesso alla comunicazione? Chi lo decide? Atomi e bytes: chi è il “padrone” dei bytes? Ma fisiologicamente, i bytes *possono* avere un padrone? Che cosa in realtà “padroneggiano” allora, in questo campo, i “padroni”?
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4. Da tempo le imprese fanno cultura in proprio (pubblicità = culture). Ma adesso le imprese fanno *informazione* in proprio. Prima l’industriale faceva *anche* l’editore. Ora l’industriale dev’essere *innanzitutto* un editore.
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5. In questa situazione, che cosa c’entra più il giornalista? Anzi, direttamente: chi è il giornalista? C’è ancora una specifica tecnologia che lo caratterizza? Che cosa lo caratterizza, allora?
(Il medico un tempo faceva i salassi, oggi deve sapere che cos’è il Dna. Tecnologie completamente cambiate: che cos’è rimasto immutato? L’approccio umanistico al malato. Il medico è quel professionista che, nel variare delle tecnologie, fornisce all’utente le garanzie culturali contenute nel giuramento di Esculapio).
Il giornalista è semplicemente, nel variare illimitato delle tecnologie, il detentore del giuramento di Ippocrate sull’informazione.
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6. Ieri il giornalista garantiva che l’informazione fosse “veritiera e corretta”. Oggi garantisce che l’informazione sia anche, nel nuovo quadro tecnologico:
– distinta dalla pubblicità;
– sufficientemente interattiva.
Entrambe queste caratteristiche possono essere oggettivamente quantizzate.
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7. L’interattività è il nuovo *diritto* del lettore nel mondo dell’informazione attuale. La correttezza pubblicitaria (informazione distinta dalla promozione, e fonti d’informazione distinte dalle fonti di promozione) è il secondo diritto. La privacy il terzo.
Di questi tre diritti le organizzazioni dei giornalisti debbono rendersi garanti. Ma la funzione di garanzia tocca soprattutto al *singolo* giornalista e ne è anzi l’elemento costitutivo. È la funzione di garanzia nei confronti del lettore, e non questa o quella (necessaria) competenza tecnica che distingue chi è giornalista da chi non lo è. Essa distingue, in particolare, il giornalista dall’operatore dell’informazione per conto delle imprese.
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8. Le figure professionali specifiche a cui dare dei nomi. Chi deve farlo? In questo momento, di fatto, lo stanno facendo le imprese. Se lo facessimo noi giornalisti sarebbe meglio (ieri: il reporter, il writer, l’inviato, il deskista… ). Non tanto per un fatto sindacale, quanto per difendere una cultura.
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9. L’accesso alla professione – ma *quale* professione? Anche qui: di fatto, chi decide? Al tempo delle “radio libere”, dei meccanismi precisi alla fine hanno prodotto i berlusconi. È il caso di aspettare che si formino (se non si sono già formati) i webbusconi?
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Lia wrote:
< tanto, anche penelopi come siamo, a furia di tessere reti prima o poi pescheremo qualcosa, o riusciremo a fare volare le nostre mongolfiere… >
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fedone <sokr@eleutheros.el> wrote:
“Mi carezzò la testa (a volte mi prendeva in giro per i capelli lunghi)”.
“Tu, che sei pratico di queste cose, che bisogna fare ora?”.
“E poi, tutto d’un fiato, vuotò tranquillamente il bicchiere”.
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Mercanti di Liquore (by giovannirealdi@libero.it) wrote:
< el pueblo intende la poesia
se ce n’è, se ce n’è
el pueblo intende la poesia
sempre che ce ne sia >
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)