San Libero – 216

2 febbraio 2004 n. 216

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Ancora senza computer. Dovrei comprare un Apple nuovo, ma mi trovo momentaneamente a corto di fondi. E va bene: vuol dire che comprerò direttamente *la* Apple, che è più facile. Dice che con una quindicina di miliardi di euri me la danno. Io cento euri ce li ho già, per cui mi resta solo da trovare i rimanenti quattordici miliardi novecentonovantanove milioni novecentonovantamila e novecento. Qui sotto al bar Sport ci sono tre pensionati che sicuramente vorranno partecipare all’affare. Poi c’è la maestra Bisazzi, che aspetta la liquidazione da un anno e che da qualche parte se la dovrà pure investire. Poi c’è Padalino dell’emporio giù in piazza, il ragionier Merenda, Tannini che è capofficina alla Metallurgica, il Fantozzi, Cipputi… Insomma, i soldi ci sono. Convincerli a tirarli fuori? Una cosa da niente. Per prima cosa, mi faccio una bella carta intestata: Financing Agency O. & O., Investing Management And Gaboling, Capitale Sociale Cdt 150 milioni interamente versati (Cdt vuol dire “Conchiglie di Tonga”, ma questo lo scriviamo in piccolo). Poi ritaglio una bella foto del sultano di Brunei (l’uomo più ricco del mondo, lo sapevate?) da Gente Viaggi, la incollo su un foglio di carta e sul foglio scrivo a macchina: “Sultanato di Brunei – Certificato di credito – Dollari 15 Miliardi – Pagabili a vista al portatore”. Poi ci vuole la firma del sultano naturalmente – ecco la firma e infine, per ogni buon conto, mettiamo anche un bel “Visto il Governatore della Banca di Brunei, firmato Carli”. Bello, eh? Questo glielo sbattiamo in faccia al primo che chiede se siamo adeguatamente coperti. C’è altro? Non mi sembra. Ora dobbiamo semplicemente comprarci una bella cravatta da manager, studiarci un’espressione finanziariamente aurtorevole allo specchio e andare in giro a raccogliere i denari. Giovedì ci quotiamo in borsa, venerdì acquisiamo la Apple, sabato apriamo un bel conticino alle Cayman (non si sa mai) e lunedì siamo già cavalieri del lavoro.
Per quanto possa sembrare buffo, le cose sono andate esattamente così. Io mi auguro vivamente che in questo momento in Italia siano all’opera organizzazioni segrete e abilissime che, corrompendo banche e politici, perseguano un cinico piano di destabilizzazione dell’economia nazionale. Si sono comprati il ministro dell’economia, il governatore della Banca d’Italia, i direttori dei gionali, tutte le principali banche e anche gran parte dei commercialisti. Sono geni del male, machiavelli della finanza al cui confronto Sindona o Marcinkus, o persino Geronzi, sono dei dilettanti. Invece, disgraziatamente, non è così. Le persone perbene, nel sistema italiano, sono moltissime e i lestofanti organizzati relativamente pochi. Quei pochi tuttavia sono gli unici ad avere un quoziente intellettivo superiore a ottanta. Tutti gli altri sono fra il Q.I. 25 e il Q.I. 80, e quando non sono occupati a fare grande politica, gran giornalismo e grande finanza sono di solito a Forcella a comprare videoregistratori.
Un signore ha preso lo scanner, ha scannerato un titolo di credito Bank Of America, ci ha aggiunto mezza dozzina di zeri, ha acceso la stampante ed è immediatamente diventato Mr Tanzi. Il ministro dell’economia era impegnato a giocare col pongo. La Banca d’Italia, quando ha saputo la storia, ha ammonito severamente le vecchiette: “Eh, dovete stare attente a quel che comprate, c’è tanti imbroglioni in giro”. Poi ha aperto la scatola del videoregistratore che s’era appena comprato per uso personale e dentro c’erano trenta milioni di carta Tanzi. “Colpa vostra – dice il governo – che vi fermate alla prima bancarella che trovate”. “Poffarbacco – fa l’opposizione – Vuoi vedere che forse non tutti gli imprenditori sono onesti?”. Scoop dei giornalisti: gli italiani sono più poveri di prima e qua e là se ne segnala addirittura qualcuno con le pezze al culo. Chi l’avrebbe mai detto.

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L’economia va male. L’econosua invece va benissimo.
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Bossi difende i giudici di Banche Pulite. Fossi in loro toccherei ferro. Anche quelli di Mani Pulite una volta erano i beniamini di Bossi: sono bastate un paio di poltrone alla Lega per farli diventare tutti communisti da imbavagliare.
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Al solito, vogliono portare l’inchiesta via da Milano. La prima volta (Piazza Fontana, il cui processo finì… a Catanzaro) fu più di trent’anni fa.
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Neologismi. Quello che *non* hanno inventato stavolta: Bancopoli.
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Le quotazioni di oggi. Milano, Parmalat a meno 14,3.
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Bond. “My name is Bond, Fazio Bond”.
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Solo dopo Fiat, Cirio e Parmalat, solo con un’inflazione al chissà-quanto-per-cento, e solo nell’imminenza di una campagna elettorale, un esponente della sinistra ufficiale (Fassino) si azzarda finalmente a proporre di tassare delle transazioni finanziarie (e solo quelle nei paradisi fiscali). E’ cinque anni che questa idea – di un economista liberale: Tobin tax – è al centro delle proposte dei no-global, che però non sono degli economisti credibili ma degli estremisti da manganellare.
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Considerazione finale. Se questo è riuscita a fare Parmalat, che cosa avrà fatto mai Cosa Nostra?

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Giornalismo. “Chi minaccia il giornalismo?” si chiede drammaticamente il Corriere. Risposta: i giornalisti, naturalmente. Avidi di scoop, “protagonisti”, astiosi verso i governi, è ora – suggerisce Gianni Riotta – che si diano una regolata. Siccome Riotta è un giornalista molto democratico la regolata suggerita consiste, se non abbiamo capito male, in una qualche forma d’autocensura.
Se al posto di Riotta ci fosse stato Bondi – o se i giornalisti fossero una categoria altrettanto indipendente quanto i magistrati – è probabile che la “regolata” sarebbe arrivata sotto forma di vero e proprio bavaglio giuridico sulla categoria. Ma ancora siamo al dibattito, grazie a Dio, e ancora la separazione delle carriere (ad esempio fra reporters e writers) non è stata proposta. Noi giornalisti siamo “vanitosi, superficiali e interessati” (cito Riotta) ma non, come i giudici, irrecuperabili comunisti. Suppongo che dunque al dibattito abbiamo diritto. D’Avanzo, su Repubblica, risponde che signori miei il giornalismo è giornalismo. Non è granché originale come tesi, ma insomma, visto che si sta discutendo se due più due faccia sei, quindici o centoventisei persino sostenere che due più due fa quattro può essere una risposta coraggiosa.
Il dibattito è nato da faccende britanniche (il Giornalismo in Italia è sempre inglese) e più precisamente dalla smentita inflitta alla Bbc da un Grande Saggio. In Italia, quando parliamo di Saggi (o di authority o di esperti neutrali o roba del genere) ci mettiamo a ridere fragorosamente: sappiamo infatti, per esperienza che risale agli etruschi, che nelle male parate si prende un aruspice, lo si proclama d’autorità al di sopra delle parti e si comunica che l’aumento alla plebe non si può dare perché l’aruspice – che è al disopra delle parti – ritiene gli dei contrari al provvedimento. Da noi non c’è mai stato un “esperto” al di sopra delle parti, e dopo duemila anni di reucci, di granduchi, di papi, di classi dirigenti che arrancano per fare in tempo a imbarcarsi sul provvisorio carro del prossimo (provvisorio) regime, ormai questo lo sanno anche i bambini. In Inghilterra invece fino a un paio di generazioni fa c’è stata una classe dirigente e un’aristocrazia: che poteva essere whig o tory, e lo era con faziosità e con durezza, ma che traeva l’autogiustificazione (e l’orgoglio) essenzialmente dall’essere se stessa. Un lord non poteva mentire per salvare un governo, perché considerava Mylord Se Stesso infinitamente più importante di qualsiasi governo.
Le cose, in Inghilterra, naturalmente sono assai cambiate. L’ex regina ormai è semplicemente il più grande proprietario immobiliare del paese, Blair è napoletano e lord Hutton – l’arbiter del caso Kelly-Gilligan – è un rispettabile membro del Circolo Canottieri de Roma (magari avrà il monocolo, per fare il lord inglese: ma imprecherà in romanesco, come Previti). Di inglesi, in tutta la storia, ci sono semplicemente i dirigenti Bbc che, di fronte alla buffa sentenza, si sono dimessi (come quel generale romano che preferì perdere la battaglia piuttosto che non obbedire agli aruspici) e il giornalista Gilligan che oltre alle vendette di Blair adesso si deve ingoiare anche le ramanzine di Riotta. Noi italiani, ancora sotto la suggestione dell’antico fair play Britannico morto da un pezzo, crediamo (o facciamo finta di credere) che il caso Bbc-Blair sia stato una cosa onesta e seria. Gl’inglesi, che hanno a che fare con l’Inghilterra vera e non con quella di Nicolò Carosio, invece hanno sgamato subito la truffa e, nei sondaggi, si sono dichiarati in massa favorevoli all’onesta e professionale Bbc e contrari all’evidente pastetta fra lord Hutton e Blair.
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Per le ragioni che esponevamo l’altra volta (non ho computer mio, dopo venticinque anni di mestiere) non posso partecipare molto al dibattito, perché i miei tempi tecnici sono molto limitati. Inoltre io sono un dibattitore piuttosto rozzo, e quando – per esempio – sento parlare di Giornalismo non mi viene in mente Fleet Street ma via Etnea. In via Etnea, a Catania, i quotidiani esposti sono praticamente uno, il “La Sicilia” locale, dell’unico editore siciliano, Ciancio; gli altri bisogna chiederli e, se chiedete “Repubblica”, vi accorgete che manca la cronaca siciliana in quanto l’accordo con Ciancio prevede la non-concorrenza.
Va bene, me l’avete sentito già dire. Difatti, è da quattro anni che lo vado scrivendo. Un paio d’anni fa lettore settentrionale, colpito dalla notizia, decise di scrivere a un famoso giornalista siciliano – Riotta – per sapere come stava la faccenda e cosa ci si potesse fare. Ho ritrovato la lettera di quel lettore: <Hai scritto che “nel centro di Catania tutt’e cinque le edicole espongono un solo quotidiano, La Sicilia dell’editore Ciancio”. Ho girato il tuo pezzo a Gianni Riotta: “Caro Riotta – gli ho scritto – ma questo è il suo amico Ciancio, di cui lei ha parlato su Specchio a proposito di sicilitudine?” Ed ecco cosa mi ha risposto Riotta: “Caro amico, non conosco la situazione che descrive ma certo sono per la vendita di tutti i giornali sempre e comunque, anche a Catania. Lo dirò ai Ciancio. Un caro saluto, Riotta” >. Poche settimane fa, una famosa giornalista di Repubblica è andata a Catania per partecipare un dibattito; il pubblico presente le ha chiesto a gran voce come mai Repubblica, a Catania, fosse così d’accordo con Ciancio. Ma il fatto non è mai uscito su Repubblica e non credo che uscirà in futuro.
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Ecco: scusate se ho parlato de “La Sicilia” invece che dello “Spectator”; ammetto di avere abbassato il tono del dibattito. A Catania, il preside della Facoltà di Scienze Politiche (un certo Vecchio, eletto quasi all’unanimità) ha proposto senz’altro la laurea ad honorem al suddetto Ciancio; i cui redattori, oltre agli stipendi aziendali, possono contare su laute consulenze del Comune, della Facoltà di Scienze della Comunicazione e di quant’altro. La mia sensazione è che, sotto il profilo dell’evoluzione del giornalismo, bisognerebbe studiare Catania molto più che Londra; e che i prossimi Stati Generali dell’informazione (a cui non sono stato invitato) la prossima volta si potrebbero più utilmente tenere non a Roma o a Versailles ma a Catania o a Palermo.
Se avessi tempo e computer, mi piacerebbe parlare un poco dell’altro giornalismo, quello realmente “inglese”, che pure in questo paese s’affacciò un mattino: la Voce della Campania, a Napoli, e Società Civile a Milano, e I Siciliani. “Giornalismo d’inchiesta”, per dirla col collega D’Avanzo, il vecchio caro e banale “è la stampa, bellezza”. Ma tempo e computer non ne ho, per cui mi limito solo a farne i nomi. Che è già qualcosa, visto che tranne la Catena di quei giornali d’inchiesta e liberi ormai non ha voglia di parlare più nessuno.

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L’Infedele. Tema: l’Europa. Dibbattono Francesco Cossiga e Toni Negri. Dirige Gad Lerner. Non manca il filosofo Marramao.

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Prudenza. Una lapide accoglie il visitatore all’ingresso di Palazzo dei Chierici in piazza Duomo a Catania. Contiene i nomi del sindaco Bianco (che l’ha fatta mettere), del musicista Bellini (orgoglio dei catanesi) e del “siciliano semplice e coraggioso” a cui la lapide stessa è dedicata. Ma chi è questo siciliano? Non si sa. Entrando nel palazzo, salendo al primo piano e guardando attentamente le pareti, si scopre una targhetta d’ottone col nome del celebrato: Libero Grassi. Ma non facevano prima a scolpirlo, col musicista e il politico, sulla lapide? E se la targhetta prima o poi si perde? Come faremo a sapere che Libero Grassi fu ucciso perché lottava contro la maf… (beh, la parola completa, sull’esempio del comune di Catania, forse è meglio non scriverla. Magari ve la spedisco dopo, in una mail a parte).

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Old economy. L’agorà è una cosa diversa dal bazar. L’agorà ha un versante politico e “ricreativo”. Questo versante si riversa sull’economia in varie forme, come circolazione di beni ma più ancora di stili di vita e idee. Nel bazar non si può “sprecare” nulla, cioè non si possono fare investimenti collettivi a lungo termine. Società pre-civile (re e mercanti protetti), basata sui pochi. Nell’agorà si può “perdere tempo”, cioè costruire nuove idee. Società cittadina, basata sull’uno e sui molti. Nel bazar si tratta hardware. Nell’agorà si tratta software.

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Governi. Secondo la dottrina classica a un governo, per essere riconosciuto come tale, occorrono tre requisiti: il territorio, la popolazione e l’effettività. Questa dottrina fu elaborata dalla diplomazia britannica nel Settecento, prescindeva da ogni valutazione morale (per riconoscimento s’intendeva semplicemente la presa d’atto che un dato governo esisteva) e serviva semplicemente a catalogare in maniera realistica le varie fonti di potere. È diventata senso comune, e noi oggi associamo il concetto di territorio geografico a quello di soggetto politico internazionale. Nel mondo antico non era esattamente così. L’impero romano, ad esempio, per la buona parte della sua durata non fu affatto un impero, ma un insieme di soggetti teoricamente molto differenti. L’Egitto, ad esempio, era proprietà privata dell’imperatore, che lo amministrava tramite una specie di suo consigliere delegato (come se la Sardegna venisse gestita direttamente da Felice Confalonieri e appartenesse a Mediaset). Nell’ambito della città di Roma, i principali poteri dell’imperatore derivavano essenzialmente dal suo status di tribuno della plebe (come se Berlusconi fosse “anche” segretario generale della Cgil).
E anche in politica internazionale, c’erano soggetti diversissimi, non tutti rispondenti a tutt’e tre i requisiti. Alcuni stati mancavano quasi completamente di popolazione e territorio, eppure nessuno metteva in discussione il loro essere soggetti di relazioni. L’isola di Rodi, ad esempio, su alcune questioni trattava alla pari con Roma e il diritto della navigazione era molto più rodiota che romano. Alcune città-stato indipendenti avevano poche centinaia di abitanti eppure erano alleate a pieno titolo di Roma. Quest’ultima inviava regolari ambasciatori presso i regni-pirati dell’Adriatico o dell’Egeo, la cui unica attività consisteva nel depredare il traffico marittimo al largo delle loro coste. Molti secoli più tardi, i principati magrebini come Tunisi, Algeri o Salò (che vivevano di attività analoghe) avranno i consolati delle grandi potenze europee, pronti a trattare secondo i casi rappresaglie militari e riscatto di schiavi.
Nel nostro mondo, il concetto di governo è stato sempre associato – dal congresso di Vienna in poi – ai tre requisiti di cui dicevamo. Un governo è una cosa che governa una popolazione, che risiede su un territorio, visibile a occhio nudo sulla carta geografica. Tutti i poteri del pianeta coincidono, con trascurabili eccezioni, con dei governi e la politica internazionale è fatta esclusivamente dai governi stessi.
Questa concezione è entrata in crisi di fatto verso la fine degli anni Settanta. In quel periodo alcuni soggetti internazionali non-governativi hanno raggiunto un livello d’accumulazione di risorse tale, da conseguire una sorta d’autocoscienza, e da cominciare a vivere di vita propria. Nelle aree di confine dell’Occidente, la politica di alcune multinazionali (il termine è entrato in uso più o meno allora) ha cominciato ad essere abbastanza indipendente da quella dei rispettivi governi. In Giappone, il governo legale ha cominciato ad essere percepito come una struttura di servizio del governo di fatto, consistente nelle grandi corporation verticali. Ma il fenomeno più interessante si è verificato in Italia: una grande struttura transnazionale come Cosa Nostra, dotata di leggi interne e di strutture, con obiettivi non solo non coincidenti ma addirittura opposti a quelli dello stato ospitante, a un certo punto ha deciso di fare un salto di qualità e di “agire da stato”, in tutto e per tutto.

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Iraq. Gli sciiti, che sono antidemocratici e selvaggi, chiedono libere elezioni. Gli americani, che sono democratici e civili, dicono di no.

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Brasile. In rivolta circa tredicimila indios Guarajani nello stato di Roraima. Rifiutano l’istituzione di una riserva.

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Cronaca. Ragusa. Assolto Carlo Ruta che in due libri (Cono d’ombra e Politica e mafia negli Iblei) aveva accusato “il ceto dirigente vittoriese di essere responsabile del dilagare dell’abusivismo edilizio, eretto a metodo di governo” nonché di “inadeguatezza nel contrastare la mafia”.
Bookmark: www.accadeinsicilia.net

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Fronte Internazionalista per la Liberazione del Tapiro wrote:
< “Anarkici. Di anarchici insurrezionalisti ne ho visti…”. Mmm… Prima o poi ti vergognerai di ciò che hai scritto. Merlino era un cazzaro, non un anarchico. Bertoli era un uomo confuso, ma che fosse un uomo dei servizi è una mezza bufala, visto che si fece anni di galera. Sui cosiddetti black block forse dovresti documentarti meglio. E’ facile vestirsi di nero e dire “sono un blaccblocche”. Troppo facile, talmente facile che lo hanno fatto anche appuntati e guardie scelte, ma non è una cosa nuova. Tra i cosiddetti “anarchici insurrezionalisti” ci sarebbe anche quel Massimo Leonardi, cantante punk hardcore, che ha cacciato da un corteo un caramba travestito e per tale motivo è detenuto. Che poi ci siano e ci siano sempre state “eterodirezioni”, concordiamo e sottoscriviamo. Ma attenti sempre a chi si butta addosso la croce >

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ing.foti wrote:
< Da quando Berlusconi si messo a fare politica attiva 543 sono state le ispezioni della finanza nelle sue aziende, zero ispezioni nel gruppo Parmalat. Forse la magistratura (che manda la finanza in giro) è un po’ strabica? Non era meglio che distribuivano i controlli in modo meno partigiano?

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Bruno wrote:
< Volevo complimentarmi per lo stile al contempo serio, iconoclasta e sbellicante di questa e-zine. Lo faccio però cogliendo l’occasione per una rettifica: “Mangino delle brioches” non lo disse “un” tale, ma “una” tale. La regina Maria-Antonietta, incurante e sprezzante del popolo francese affamato ed imbufalito >

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Sandro wrote:
< per favore sciogli il mio anello della catena. i tuoi scritti sono lunghi ed a mio avviso disarticolati. la ricevo ma poi non ho tempo nè voglia per leggerla tutta con un’ attenzione che che non riesco a riconoscergli >

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Federico wrote:
< E’ vero, come diceva qualcuno in questa email, che parlare non basta. Che bisogna “fare”. Dostoevskji diceva una cosa del tipo: ” l’eccesso di consapevolezza fa rimanere a braccia conserte”. Ma. Ma parlando con molti amici, conoscenti, nemici e parenti, ho il timore che questa massima vada riaggiornata, con buona pace del massimo romanziere. Parlando con loro insomma ho l’impressione netta e poco rassicurante che parlare – si badi bene: dopo essersi formati almeno un’idea – non sia per nulla da poco, oggi. Perchè costoro neanche più questo sanno, o vogliono, “fare”. Tanto le cose vanno come vanno e noi siamo troppo piccoli per cambiarle. E se insisti a voler discutere e scambiare opinioni, ti dicono che vuoi mostrarti a tutti i costi “diverso”. Ebbene, caro Sanlibero, è vero. Mi ci sento, diverso. Mio fottutissimo malgrado. Perché pago le tasse fino all’ultimo baiocco e non riesco a farmi una vacanza se non ospite da amici. Perché non accetto lavori in nero. Perché non scendo a compromessi professionali. Manco per niente. Perché mi tocca sentirmi dire: “ti stai facendo terra bruciata ad incazzarti ogni volta che ti si vogliono inculare”. Perché ho scelto, con l’enorme fatica di portarlo avanti, un lavoro indipendente e per nulla sicuro – ma in cui credo profondamente – senza avere le spalle coperte. E dunque un tenore di vita ridotto all’osso. Perché credo che l’individualismo collettivo sia la migliore arma contro la collettivizzazione ideologica. Colgo l’occasione per dirti che da quando ti leggo le palle mi girano di più, ma in una direzione sempre più precisa. E la cosa mi preoccupa: che mi veda costretto, un giorno, a “fare” qualcosa oltre che semplicemente parlare? Con “sereno impeto” e un luminoso grazie >

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AntonellaConsoli <libera@libera.it> wrote:

Vorrei che tutto questo ti parlasse

< Vorrei che tutto questo
ti parlasse
con la sommessa consuetudine
del tuo cuore
Vorrei starti accanto
come ciò che hai visto e sentito
t’ha seguito meravigliato
ascoltandoti e ridendo
a ogni tua magagna >

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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)