San Libero – 217

9 febbraio 2004 n. 217

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rudycolongo@libero.it wrote:
< Nel 1988 l’addetto commerciale dell’ambasciata d’Ethiopia a Roma, tale Menghistu, nella speranza di creare nuovi posti di lavoro, e portare investitori esteri nel suo paese, contattò i vertici della Parmalat di Collecchio, ai quali propose d’investire in Ethiopia. Dopo brevi incontri, accreditati dall’addetto commerciale, 4 funzionari della Parmalat si recarono ad Addis Abeba presso il Ministero per gli Investimenti Stanieri per verificare la fattibilità e i termini di un possibile insediamento di Parmalat nel paese.
Dopo 3 mesi il Ministero comunicò che non riteneva interessante l’investimento prospettato dalla società. I funzionari della Parmalat protestarono, per quello che ritenevano un affronto, con l’addetto commerciale dell’ambasciata. A questo punto il sig. Menghistu convocò la comunità etiope in Italia per comunicare quanto era accaduto. Il commento più buono che uscì dalla nostra assemblea fu che “quegli ignoranti del Ministero non si erano resi conto di quanto era importante un accordo con quel grande gruppo industriale che avrebbe portato capitali internazionali e occupazione”. A distanza di anni ci siamo sentiti in dovere di scrivere una lettera a quegli stessi funzionari ministeriali che ci erano sembrati inefficienti per ringraziarli per la loro lungimiranza nel capire, già allora, che la Parmalat era un bluff >
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Dunque fra tanti grandi banchieri, economisti, giornalisti specializzati, politici e chi più ne ha chi ne metta, l’unico a capire come stavano le cose è stato un modesto funzionario etiopico, un “extracomunitario”. L’unico a dire a Tanzi “Spiacente, non mi fido”. E questo all’inizio dell’avventura, quindici anni fa, quando i politici facevano a gara a fargli la corte e non c’era banchiere o ministro che non scattasse sull’attenti quando arrivava. Chissà che fine ha fatto, quel funzionario. Se riuscite a trovarlo, ditegli di tornare urgentemente in Italia perché vogliamo candidarlo come prossimo ministro dell’economia o, in alternativa, come governatore della Banca d’Italia. Ci sentiamo più al sicuro con lui.

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Aumentano le vendite Parmalat, o almeno sono aumentate nella fase più drammatica della crisi. Qualcuno sostiene che questo sia dovuto tout-court a un effetto visibilità: i media, sia pure per i motivi che sappiamo, hanno veicolano più del solito il logo e il pubblico ne è stato attratto più del normale, beotamente. Non funziona: l’anno scorso e due anni fa l’effetto parliamone-male c’è stato anche per loghi anche più grossi (Nestlè, MacDonald, Nike) ma ciò non ha comportato affatto un aumento di vendite; tutt’altro. I marchi “accusati” dai media hanno subito flessioni di mercato, certo non catastrofiche ma significative. Il consumatore, in altre parole, non è poi così bestia e sa distinguere abbastanza fra superpresenze nei media positive e negative. In più, il latte è un prodotto di consumo prevedibile e quotidiano, poco soggetto alle mode e dunque dal mercato “regolare” a meno di circostanze patologiche (epidemie e simili: le carni o le acque minerali) che colpiscano il prodotto in sè e non genericamente il logo. No: in questo caso s’è verificato semplicemente un divorzio fra marchio e merce, ormai completamente slegati fra loro e come tali percepiti dai consumatori. Il prodotto-latte dipende dalla linea di produzione, dalle filiere ecc; il pubblico si fida – o non si fida di essa, e cioè del lavoro più o meno credibile dei produttori. Il marchio-Parmalat dipende invece dalle speculazioni, dalla politica, dalla maggiore o minor serietà di un gruppo di persone che, pur essendo nominalmente al vertice del prodotto, non hanno tuttavia con esso alcun rapporto reale. Il pubblico, istintivamente, percepisce tutto questo: e, nel medesimo istante, fa crollare le azioni e aumentare il venduto. Analogamente e specularmente, cinque anni fa, avevamo segnalato il caso Boeing in cui una decisione negativa per il prodotto (licenziare molti lavoratori e dunque rinunciare a commesse di aerei già in corso) aveva avuto un effetto “sorprendentemente” positivo sulla quotazione di Borsa, dove gli investitori avevan premiato un management che garantiva immediati risparmi gestionali.
Borsa e mercato, cioè, sono già ora (e probabilmente lo sono già da qualche anno) due cose completamente diverse; prodotto e finanza vivono su due pianeti diversi, senza più nulla di strutturale in comune. In questa situazione, che fine fa – a che cosa serve – il vecchio “padrone”? Aveva per caso ragione Marx, ci tocca diventare tutti communisti? Non è detto; anche perché il “padrone” di oggi, che può benissimo esistere solo per i nanosecondi necessari a una transazione elettronica in Borsa, ha ben poco in comune coi padroni del passato. Provvisoriamente, potremmo sostituirlo con qualcosa che, in attesa di migliori accertamenti, almeno sicuramente non porti danno. Così per esempio la Parmalat, visto che non è il caso di attribuirla a un Commissario del Popolo, e che lasciarla a dei finanzieri fa danno, potrebbe subito essere intestata a un imprenditore marziano (se esiste: ma il particolare non è influente) o eschimese oppure delle isole Samoa; oppure a un homeless scelto random a New York o a Milano. Il ruolo di questo nuovo proprietario sarebbe semplicemente (finché non disporremo di una teoria economica postcapitalista e postcommunista) di non far nulla, di essere assolutamente inattivo, di lasciare la produzione in santa pace e di lasciar sviluppare senza interferenze il lavoro di chi fa il prodotto e può benissimo farlo – come abbiamo visto – senza intrallazzi. Il marziano o l’eschimese o l’homeless avrebbe comunque il diritto di incontrare (ma a titolo del tutto personale) tutti i politici che vuole e di dare tutte le interviste megalomani che non mancheranno di chiedergli, servilmente, i soliti giornalisti.
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A parte questo, qua si comincia a sentire aria di tango.

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Sdollaro. Nel 2000 l’euro era usato nel 21,7 per cento dei prestiti internazionali: la metà del dollaro, usato allora nel 46,8 per cento dei casi. Nel 2001 la percentuale dell’euro è salita al 27,4 per cento e quella del dollaro è scesa al 44,1 per cento. L’anno scorso, l’euro era al 30,4 e il dollaro al 43,7 per cento. Nel giro di quattro anni la distanza fra euro e dollaro, nel cuore dell’interscambio internazionale, è passata dunque dal venticinque al tredici per cento: una differenza del genere si è verificata pochissime volte nel corso della storia, e sempre in occasione di “passaggio d’impero” con forte ricaduta sull’economia (da dracma a denario, da sterlina a dollaro, ecc.). Il rapporto euro-dollaro è invece abbastanza invariato nel campo delle transazioni petrolifere, dove il dollaro detiene ancora l’ottanta per cento delle presenze. E’ il settore in cui il mercato è maggiormente interferito da decisioni politiche e (come in casi recenti) militari.
Anche in questo settore, tuttavia, il rapporto euro-dollaro tende a schiodarsi. Gli analisti del’Opec cominciano infatti a ipotizzare pubblicamente l’eventualità di una sostituzione dell’euro al dollaro nelle esportazioni di greggio verso i paesi europei. La maggior parte di queste esportazioni provengono dall’area mediorientale, in cui la libertà di scelta dei singoli governi non è esattamente illimitata. Di maggior libertà potrebbero tuttavia godere gli esportatori petroliferi sudamericani ed africani: in Venezuela l’intervento americano ha potuto estrinsecarsi finora – per la prima volta nel continente – a livello solo politico e non militare, mentre in Nigeria la presenza politica europea non è inferiore a quella americana.
La novità sostanziale, nel breve periodo, potrebbe però venire dalla Russia, dove il governo ha bruscamente riportato sotto controllo – con una serie di incriminazioni di comodo dei principali operatori – l’intero settore petrolifero, che da Eltsin in poi era stato sottoposto a privatizzazioni selvagge, affidate a esponenti locali ma spesso nell’interesse di compagnie americane. Nel momento in cui il governo russo riprende – o si accinge a riprendere – il controllo delle proprie risorse petrolifere, la prima delle scelte strategiche che gli si pongono è quella della valuta – euro o dollaro – da utilizzare per le transazioni estere. Decidere per l’euro, date le dimensioni dell’interscambio petrolifero russo, avrebbe un effetto significativo sulla tenuta internazionale del dollaro e potrebbe scatenare un effetto-domino fra i produttori minori dell’Opec e forse addirittura nell’Opec in quanto tale. L’unico elemento ostativo è la pressione militare sul nucleo mediorientale dell’Opec (che però è estremamente costosa) e la pressione politica sul governo russo (che però è sempre meno scontata).
Il dibattito nella classe dirigente americana – che è ripreso in queste settimane, in coincidenza ma non necessariamente a causa della campagna elettorale – verte esattamente su questi temi. Conviene mantenere indefinitamente questa pressione militare (ne caso della Russia, politica) da soli, oppure condividerla con gli alleati-rivali europei? Questa pressione è in sè, nel tempo lungo, realistica oppure conviene cominciare fin d’ora a programmarne l’alleggerimento e il riflusso? L’euro è contrastabile solo sul piano politico-militare, oppure è possibile rafforzare il dollaro fino a renderlo nuovamente concorrenziale anche sul piano economico? Quanto costerebbe all’elite, in termini di ritorno al keysianesimo, un simile obiettivo?
Su tutte queste questioni si voterà a novembre nei seggi, ma si discute e si vota, già nei prossimi mesi, in circoli più ristretti. Teoricamente, i democratici dovrebbero candidare Keynes e i repubblicani Friedman; ma non è detto che le candidature, alla fine, non siano trasversali. L’unica cosa certa, è che fra l’uno e l’altro debbono scegliere ora, sennò rischia semplicemente di non esserci più America fra vent’anni.

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Fabbriche. Treviso. Smantellata alla Electrolux la catena di montaggio robottizata istituita quindici anni fa per ridurre il numero degli operai. I robot, a quanto pare, si sono dimostrati inadeguati a sostituire – per attenzione, versatilità e delicatezza – gli operai umani, che però ormai sono in pensione o esuberati e comunque costano – secondo i manager – troppo cari. Alla fine, s’è deciso di spostare la produzione all’est, e la cosa è possibile perché i poveri robot, per quanto esuberati anche loro, non occuperanno la fabbrica nè si rivolgeranno al sindacato.

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Racket. Ancora minacce a Tano Grasso, l’ex commissario antiusura cacciato da Berlusconi e ora responsabile dei centri antiracket e antiusura di Roma sud. Ad uno di essi è stata recapitata una busta contenente un proiettile. Chi vuole esprimere solidarietà a Grasso può farlo su http://www.cuntrastamu.org

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Memoria. Dove sono finiti i duecento zingari che avevo lasciato accampati davanti alla stazione, la settimana scorsa, all’Ostiense? Li avevano rastrellati dalla Magliana Nuova, per motivi d’igiene, a fine mese, ma – come a volte succede – s’erano dimenticati di dirgli dove andare. Così i poveretti – una trentina di famiglie, con un’infinità di bambini – s’erano andati a piazzare davanti alla stazione, un po’ per necessità e un po’ per protesta. Lo sgombero era avvenuto esattamente nel giorno più freddo dell’anno, sotto la neve: il 27 gennaio. Il Giorno della Memoria, quello che dovrebbe commemorare l’Olocausto, nel quale gli zingari furono sterminati esattamente come gli ebrei.

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Mosca. E’ scampata miracolosamente a un attentato esplosivo la giornalista Elena Trebugova, autrice di un libro (“Storie dal sottosuolo del Cremino”) sugli affari meno noti del presidente Putin. In corso le indagini: “anarchici insurrezionalisti” o Kgb?

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Mac e dopo-Mac, 1984-2004. Il Computer è una bestia grossa e libidinosa, un po’ come un transatlantico o una locomotiva. Ha un centinaio di lucine accendi-e-spegni in successione, un ronzìo da dinosauro abbioccato e un sacerdote apposito, il Tecnico Edp, interamente votato a Lui. Tu, comune mortale, puoi addirittura parlargli. Pondera bene prima la domanda, però. Poi scrivila sulla foglia di papiro, mettiti in fila davanti al sacerdote, e quando sarà il momento prenderà il tuo papiro e lo darà da ingoiare, cerimoniosamernte, al computer. Sarà il sacerdote a dirti quando dovrai tornare per la risposta, e anche a interpretare per te i versi – i computer non parlano come gli esseri umani.
È stato con un computer così, una parasanga d’anni fa, che siamo riusciti – la Bestia occupava quasi completamente il pianterreno – a estrapolare clandestinamente un valzer, di circa venticinque secondi, all’instituto di fisica di una certa città. Gli uomini del Duemila riusciranno – era il nostro audace pensiero – ad ottenere musichette di almeno un querto d’ora, e forse ancora di più. (non era affatto il Duemila, a quel tempo. O forse invece sì, visto che era il Sessantotto. Ma questa è una storia diversa).
Tutto questo per dire che ci volle un bel po’ di sessantotto (che c’entra? Non lo so: però c’entra) per fulminare nel cervello d’un paio dozzine di ragazzi l’idea che forse il computer poteva essere anche una cosa più alla mano, del genere giradischi e/o televisione. La storia la conoscete: i due tizi che trafficano circuiti in un garage, il più matto dei due che si vende il volkswagen per finanziare la ricerca (nel Vw c’era naturalmente l’adesivo make-love-not-war: nondimenticate questo particolare, perchè è importante), altri mille dollari trovati in prestito e… e nasce l’Apple II dei primordi, il computer cugino del televisore.
È una bellissima storia americana, fino a questo punto. Naturalmente nessuno prendeva sul serio Jobs e Wozniak (i nostri due del garage), anzi non si sapeva nemmeno che esistessero. I computer “veri” (cioè i bestioni da mezza tonnellata, quelli col sacedote e tutto il resto) venivano prodotti dalla Ibm – tutti quelli che esistevano sul pianeta, meno una cinquantina d’eccezioni. Com’è come non è, l’Apple II (e i Commodore, i Sinclair, gli Star, i ZX) sfondano sul mercato per una stagione. Questo non vuol dire niente, di per sè: siamo in America, e ci vuole un momento per capire, quando sfondi al mercato, se sei i fratelli Wrright o solo l’inventore del Tamagotchi. Comunque l’affare c’era, e per questi motivi la Ibm (il cui presidente fino a poco prima sghignazzava selvaggiamente quando gli parlavano di mettersi a vendere computer piccini) decise di dedicare una sua divisione alla produzione di questa specie di computer-giocattolo. Siccome avevano un efficiente ufficio marketing, trovarono anche un nome serio per questa roba – li chiamarono “personal computer”, abbreviato in pc. Dopo di che, il problema era di trovare un programma per farlo funzionare, il sistema operativo, come si dice.
Scusa: e non se lo potevano fare loro? Certo che sì: ma per tanti buoni motivi (il principale dei quali, secondo me, era che avevano troppa puzza al naso) decisero di appaltarlo fuori. Si presentarono Bill Gates e alcuni altri.
Ora, il problema della Ibm, quanto al computer-giocattolo, era il seguente: computer-giocattolo sì, ma stando attenti a non far concorrenza ai computer veri. Sui computer veri ci campavano, loro (immaginate la Fiat che si mette a produrre automobili a energia solare, impulsi orgonici e pedali: tutto bellissimo, ma a condizione che non vadano più veloci e non consumino di meno della Punto, della Bravo, della Panda e persino della Duna). Il primo sistema operativo presentato aveva prestazioni espandibili ed era bestialmente veloce. Scartato. Il secondo era una scheggia, aveva l’ufometro incorporato e faceva il caffè. Scartato. Il terzo era Bill Gates. “Beh, funzionare funziona. Certo, sopra i 640Kb di memoria non potrà andare mai”. Approvato! E nasce l’Ms-Dos. (break: forse a questo punto vi sarà venuto il sospetto che sto scrivendo su un Macintosh. Avete indovinato. Però… ).
Allora: L’Ms-Dos 2 deve restare compatibile con l’MsDos 1. L’Ms-Dos 3 deve restare compatibile con l’Ms-Dos 2. E così via: 4, 5, 6, 7, sempre con gli stessi 640k di limite obbligato. Poi arriva il Windows, ma deve restare compatibile pure lui: per cui il Windows 3. 1, in realtà, è un Ms-Dos col parrucchino. Scusa, ma i ragazzi del garage che diavolo stanno facendo, nel frattempo? Niente. Siccome non hanno mai visto un dollaro in vita loro, mettono in vendita le loro preziose macchinette (che nel frattempo sono diventate anche “amichevoli”: mouse, menù a tendine, interfaccia “fool proof”, cioè a prova di cretino: ho imparato a usarle pure io) le mettono in vendita, dicevo, a un prezzo spropositato: ciascuna viene a costare un chiliardo di dollari, più venti conchiglie e sei francobolli. Le macchine della Ibm, invece, si vendono come il pane: i boss della Ibm, o perchè machiavellici o perchè coglioni, le lasciano copiare a chi vuole. Così si mettono a fabbricarle a Cincillao, a Shangrillà, a Singapore: le vendono a prezzi stracciati (tre tornesi l’una, e un asciugacapelli in omaggio) e riempiono l’intero pianeta di computer non proprio straordinari, però reali.
Ok? Riepilogo della storia americana: scena prima, l’America inventa una cosa bella prima di tutti gli altri, grazie alla fantasia e al Sessantotto; scena seconda, l’America riprende in mano la stessa cosa, la rende un bel po’ meno bella e la semina a macchia d’olio su tutto il pianeta.
Scena terza, ahimè. Bill Gates, e tutti gli altri Bill Gates che gli spuntano attorno, come produttore di tecnologia risulta (l’abbiamo visto) un po’ più scarso rispetto ad altri. Ma è un produttore di tecnologia, non un “padrone”. L’idea va un po’ meno veloce ma insomma, seddiovuole cammina. Una volta entrato nel mercato, però, l’incrocio fra tecnologia opportunamente “castrata” e autoconservazione del “padrone” (ti offendi se uso questa parola? in caso, chiamalo “soggetto economico permanente”) comincia a fare danno davvero. Windows 95, per esempio, è molto meglio – come fuzionamento – rispetto a Windows 3. 1. Però il gap tecnologico e soprattutto culturale fra l’uno e l’altro è, concettualmente, molto minore, di quello che che c’è fra il Dio Computer di cui parlavamo all’inizio e il computer-televisore. In altre parole, fra l’ottantatrè e l’ottantaquattro il cervello umano ha lavorato un casino, sull’argomento computer, ed ha scoperto l’America. Fra il novantatrè e il novantaquattro, invece, ha lavorato di meno, e ha scoperto l’isola di Linosa. Ci arriva, naturalmente, in traghetto superattrezzato e con l’aria condizionata a bordo, mentre in America c’era arrivata in piroga. Ma in termini di percorso proporzionale, ha coperto una distanza molto inferiore. Alla fine degli anni Ottanta, un programma per computer veramente nuovo (che affrontava cioè problemi nuovi e li risolveva con nuovi approcci) usciva ogni tre mesi, e lo faceva tipicamente un ragazzino che poi o diventava ricco sfondato o si vendeva la scoperta per un po’ di fumo. Adesso, quasi tutti i programmi che sto usando negli ultimi tre anni sono semplicemente approfondimenti e abbellimenti di roba che già c’era.
Ma, e Netscape, e Internet? Vi sembrerà strano, ma io penso che l’80 per cento della strada – sicuramente sul piano concettuale, e parzialmente anche sul piano tecnologico – risale a una decina di anni fa. Quello che è arrivato adesso, è che hanno imparato a venderlo meglio. Avete presente l’automobile? Ha fatto quasi tutti i suoi progressi nei primi vent’anni. La macchina su cui vai adesso, nei suoi principi essenziali, funziona esattamente come cento anni fa. Motore a scoppio. In più, da una dozzina d’anni, ha l’elettronica. “In più”, in questo caso, significa proprio “in più”. Puoi mettere tutta l’elettronica che vuoi su un’automobile, ti porterà a casa automaticamente e ti canterà nel frattempo Yellow Submarine. Quello che non potrai impedirle sarà di avere un rendimento termico ridicolmente basso e d’inquinarti il pianeta. Questo significa che devi porti seriamente il problema di bombardare i cinesi (o gli aborigeni delle Figi, o gl’iraccheni) prima che si mettano in testa d’avere l’automobile pure loro: perchè se ci riescono, e la tecnologia è sempre quella (redditizia ma centenaria) della macchina-a-puzza, tocca cambià pianeta.
Bene, alla fine il governo americano ha fatto giustizia, ha bloccato Gates e tutto il resto… Certamente. I governi servono per l’appunto per fare giustizia e per impedire agli avidi speculatori di arricchirsi alle spalle della poveraggente – come ben sappiamo in Italia.
Se avessi tempo e tu non fossi così ormai così scocciato ti racconterei che un ragazzino finlandese, certo Linus Qualcosensenn, qualche anno fa ha inventato un sistema operativo molto migliore di Windows (e di Mac) e che questo sistema, chiamato Linux, viene sviluppato *gratis* da alcune decine di migliaia di volontari in Rete, e che il server attraverso cui ricevi questo articolo probabilmente sta usando proprio Linux, in questo preciso momento. Come se un gruppo di ingegneri della Fiat anni sessanta si fosse messo in proprio e fosse riuscito a fare una Seicento che fa centosettantacinque all’ora, va ad acqua e non costa niente. Ma sono davvero stanco, e tu lo sei più di me, a questo punto. Magari se ne parla una prossima volta, la volta che si parla di mafia e di politica. Oh, ma ce la devi proprio infilare dappertutto, la politica? E che c’entra la mafia con tutto questo?
Più di quanto non pensi. Un computer può essere usato per calcolare traiettorie balistiche, per fregarti i soldi (ogni tanto in America qualcuno prende il fucile e va a discutere coi gestori delle “borse informatiche”), per rincretinirti in varie maniere e persino per scrivere a duecento persone che “Andreotti parlava coi mafiosi”. Oppure per conoscere te, proprio te là là in fondo con quegli occhioni azzurri.
Se invece di sviluppare i Gates fossimo riusciti a sviluppare *fisiologicamente* la tecnologia, a quest’ora io avrei fra le dita un compiùter in grado di farti un bellissimo sorriso, di invitarti a cena stasera (a spese del computer) e di sussurrarti bellissime parole d’amore mentre sullo sfondo Sam (sempre il computer) strimpella “As time goes away”. E invece no, cazzo: allo stato attuale della tecnologia gatesiana il computer può fare solo una piccolissima cosa di tutto questo, e soprattutto non può determinare se tu sei proprio una bellissima ragazza dagli occhi azzurri e non invece un vecchio coglione di cinquant’anni (è vero che non può determinarti se lo sono io, un bel ragazzo: ma questo è tutto un altro discorso). Così, che posso fare? Salutarti, ringraziarti per avermi fatto compagnia e arrivederci alla prossima volta, indipendentemente dal fatto che tu sia una ragazza di vent’anni o un vecchio di cinquanta. Che ingiustizia, maledetto Gates.

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riccardo.guido@libero.it wrote:
<Quei ferrovieri non sono stati licenziati solo per aver parlato coi giornalisti, ma per averlo fatto all’interno della cabina di guida di un treno con sopra viaggatori, fermandosi dentro una galleria per far vedere i punti più pericolosi e fermandosi due volte lontani dalle stazioni per far salire e scendere la troupe di Report. A me dispiace che per denunciare una carenza nella sicurezza qualcuno possa rischiare di perdere il posto. Ma mi dispiacerebbe anche se ogni ferroviere si potesse permettere di fermare i treni dove e quando gli pare perchè pensa che sia più giusto così. Per cui se il prossimo ministro sarà di sinistra, fosse pure Bertinotti, credo che confermerebbe quei licenziamenti. Per lo stesso motivo per cui non si possono approvare i black block >

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Prospero Biotti wrote:
< Arrabbiati di meno e concludi di più >

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Simonmattia wrote:
< Un’inchiesta di Forbes ha svelato che l’azienda più longeva del mondo è una cooperativa svedese che esiste fin dal Seicento e che non si è mai posta come fine la crescita dei profitti ma semplicemente la propria sopravvivenza, tramite la creazione di occasioni di lavoro per i soci. La cooperativa ha cambiato più volte area di businness, come si direbbe oggi, passando dall’estrazione del ferro, allo sfruttamento del legname, fino alla pesca e alla conservazione del pesce, ma è sempre rimasta in salute e attiva. Per quattro secoli. Le aziende che si pongono come fine la crescita del profitto, sempre secondo l’autorevole rivista americana, hanno invece un ciclo vitale simile a quello degli organismi viventi: dopo un po’ avvizziscono e muoiono >

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Catullo<nugae@liber.rm> wrote:

< Odio ed amo. Chiedi perché. Non so.
Mi succede, e ne muoio. Questo so. >

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< Quanti baci ci vogliono mi chiedi,
Lesbia mia, per averne abbastanza.
Quanti i punti di sabbia sulla riva
di Libia, in tutto il regno di Cirene
giù dal deserto oracolo di Giove
fino alle tombe antiche dei faraoni –
Quante le stelle che in silenzio, in cielo,
spiano di notte i sogni degli amanti –
Con tanti baci tu dovrai baciare
Catullo tuo se vuoi che sia abbastanza:
tanti da non poterli contare tutti i curiosi
tanti da non poterli invidiare tutti gl’invidiosi. >

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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)