16 marzo 2004 n. 222
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Washington. Fra tante cose il Congresso ha trovato il tempo per approvare una leggina – il “cheesburger bill” – per bloccare le cause che i consumatori potrebbero fare a CocaCola, McDonald e compagnia per “induzione all’obesità”. Potrebbero? In realtà, queste cause sono già abbastanza numerose (l’Associazione medica ha lanciato l’allarme: fra poco l’obesità ammazzerà più del fumo), non sempre vanno bene per le aziende e sono di quelle che, nel vecchio gergo legale, si definivano “cause eleganti”: il diritto a non mangiar toppi grassi è costituzionale? la scelta è libera o è coartata da un’offerta troppo insistente? Boh. L’America è americana, e da circa duecento anni i cittadini vi si dividono su cose del genere, con regolare sorpresa di noi europei: Toqueville l’ammirava), Dickens era perplesso, ma tutti erano d’accordo sul fatto che la colpa – o il merito – era del fatto che l’America era, forse esageratamente, una democrazia. Scegliere un presidente o un pacchetto di patatine è diritto imprescindibile di ogni cittadino, e idem processare – se delusi – il presidente o le patatine stesse.
Stavolta, però, c’è una novità. Il Congresso è intervenuto tempestivamente e ha detto: “Un momento, cittadini. Piantatela di litigare. Se fanno male o bene (le patatine: e dunque McDonald e dunque il monopolismo alimentare) ve lo dico io”.
In Europa sarebbe stato regolare. Ma in America? A me sembra la prima volta che vi succede una cosa del genere. Ma Sacco e Vanzetti, ma il maccartismo, ma il Vietnam? Quella era roba politica, non s’intrudeva direttamente nella “way of life” quotidiana. Naturalmente sì (altrimenti a che serve la politica?): ma lo faceva con accortezza e mediatamente, senza osar dirlo apertamente: diversamente i cittadini – nel loro democratico orgoglio – si sarebbero offesi. Adesso, a quanto pare, non si offendono più.
Lo so: ora dovrei parlare dello strapotere di McDonald, del kapitalismo col kappa, delle lobby di Washington e della globalizzazione che avanza. Il fatto è che tutte queste cose, per quanto importanti, lo sono molto meno di questo semplice fatto: nel paese più democratico del mondo, fra te e il tuo pacchetto di patatine, ci deve ficcare il naso il governo. Questo sarebbe stato inconcepibile ancora tre anni fa. Che diavolo può essere successo in questo frattempo?
Lo sappiamo tutti, cos’è successo. L’undici settembre. Le stragi, il terrore, la morte, la solidarietà, la commozione, la vendetta. Ma anche un nuovo modo di vivere, un più rapido e rozzo modo di pensare. Non del tutto per colpa del governo. Sì, ci sono state cose tipicamente da governo (il Patriot Act per imbavagliare l’internet, le guerre di propaganda, il maccartismo) ma ci sono state anche cose tipicamente da “gente”: quelle che salgono dalla pancia anche dei più miti, quando la comunità – la tribù – si sente minacciata e varca insensibilmente la linea che passa fra la Contea degli Hobbit e il Mondo Di Fuori in cui, mors tua vita mea, diritti e antiche usanze diventano un andar troppo per il sottile. Questo produce vittime (marines portoricani e inquilini iracheni morti perché “bisognava fare qualcosa”) e produce anche un’impalpabile semplificazione in senso “militare” e gerarchico della vita quotidiana: fino alle patatine.
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Io non so assolutamente che scrivere dopo una cosa come quella di Madrid. Non potete pretendere che uno “faccia satira” mentre gli infermieri ancora raccolgono i brandelli. So solo che ieri, sul treno, stavo quasi litigando con uno che aveva lasciato due minuti la valigia incustodita per andare alla toilette. E gli altri viaggiatori mi guardavano, mentre facevo il maleducato, con aria di solidarietà e approvazione. Paura-buona educazione uno a zero. E ho segnato io. Speriamo che finisca qui.
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Leningrado. Elezioni in Unione Sovietica. Confermato a larghissima maggioranza il partito unico (“Russia Unita”) dell’ex presidente del Kgb Andropov. Il leader dell’unico partito d’opposizione era sparito dalla circolazione un mese prima delle elezioni. Ricomparso un paio di giorni dopo, ha dichiarato che non era affatto stato rapito né minacciato come avevano insinuato i media occidentali, che era andato semplicemente a fare una gita fuori porta e che comunque aveva perso ogni interesse nella politica. Vladimir Andropov si è detto soddisfatto del risultato, ha elogiato la prova di democrazia testé data dal popolo russo ed ha assicurato un radioso avvenire all’intera nazione.
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Stato dell’arte. La Francia, una ventina di anni fa, era il paese europeo più avanzato in termini di interconnessione da casa: il Minitel (una rudimentale interfaccia alfanumerica di allora) era distribuito insieme al telefono a tutte le famiglie. La popolarità del Minitel ha contribuito moltissimo a rendere più difficile la diffusione dell’internet, che là è arrivato a maturazione dopo gli altri paesi.
Per una serie di strane associazioni di idee, viene da pensare alla situazione degli anni Venti, quando sempre la Francia era il paese più avanzato d’Europa in termini di applicazioni meccaniche: automobili, aerei, macchine agricole, carri armati. Anche allora (grazie, in questo caso, agli enormi investimenti fatti durante la guerra) i francesi coprirono capillarmente il mercato con i migliori prodotti possibili rispetto allo stato dell’arte del momento. Solo che lo stato dell’arte cambiò rapidamente, improvvisamente e lungo binari fin allora impreveduti (l’automobile, da prodotto sportivo, diventò familiare; il carro armato, da fortezza semovente, diventò un mezzo agile e veloce; e così via). Troppo impegnata a saturare il mercato dei prodotti “vecchi”, l’industria francese rimase semplicemente tagliata fuori da quello dei prodotti nuovi.
Due domande a questo punto, una tecnica e una del tutto svagata. Prima domanda: ma conviene davvero, per un’economia o per un’azienda, concentrarsi sullo stato dell’arte? Lo sfruttamento di un target esistente è davvero più sicuro dell’invenzione di target nuovi? “Avere successo” oggi comporta fisiologicamente dei punti di penalizzazione? (La parola “oggi” negli anni Venti significava “in questi anni”, ma adesso significa proprio “stamattina”).
Seconda domanda: perché in questi cicli industriali a parabola, sicuri e lenti in salita ma soggetti a discese traumatiche e improvvise, ritroviamo sempre la Francia? La Francia, s’intende, come archetipo di una cultura industriale culturalmente autosufficiente, diffidentissima di ogni globalizzazione.
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Avvertimenti. Crackato il sito di Libera www.libera.it. Al posto della home-page tre simpatici mafiosi sorridenti con mitra e lupara.
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Rai. E’ stato finalmente trovato il sostituto di Enzo Biagi, il massimo giornalista italiano cacciato dalla Rai l’anno scorso perché stava antipatico a Berlusconi. Il nuovo maestro di giornalismo, che gestirà l’orario di massimo ascolto, si chiama Pierluigi Battista ma alla Rai e a Forza Italia, quando hanno bisogno di lui, lo chiamano semplicemente “Battista!”.
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Viviamo esattamente nel mondo di Andrea Pazienza.
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Lotta al terrorismo. Milano. Sentenza – la sessantaquattresima – per la strage di piazza Fontana (seconda metà ventesimo secolo, poco dopo la guerra di Corea). Assolto uno, insufficienza di prove per altri due, non si presenta in aula Pietro Valpreda. Le indagini proseguono. La lotta al terrorismo anche.
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Lotta al capitalismo. Testo: “Fai un gesto rivoluzionario! Parla tu perché vogliamo sentire la tua voce! Puoi darci del tu”. Slogan: “DIAMOCI DEL TU! Telefona all’800-9399029 oppure scrivi a “diamocideltu@net”. Logo: un pugno che impugna rivoluzionariamente un telefono. E io pago.
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Lotta ai poveracci. Milano. Sospesi dall’impiego duemila tranvieri perché avevano scioperato. Della serie “Bava (Beccaris) come lava”.
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21 marzo. Giornata mondiale della poesia, promossa dall’Unesco. Manifestazioni e cortei (magari!).
A parte questo, auguri a tutte le mie amiche. E grazie per aver fatto tornare la primavera anche quest’anno.
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Cronaca. Ancona. Due banditi arrivati in bicicletta hanno fatto irruzione nella banca di Marzocca, mascherati ma senza armi: si sono fatti dare ventimila euri e sono fuggiti lasciando le biciclette per una Mercedes.
Mantova. Rapina alla Banca Agricola: il rapinatore, armato di coltello, subito dopo il colpo è fuggito in bici.
Bologna. Conferenza stampa del prof. Cesare Lombroso (1902): “La bicicletta è il veicolo più rapido nella via della delinquenza; perchè la passione del pedale trascina al furto, alla truffa, alla grassazione. Nessuno dei nuovi congegni moderni ha assunto la straordinaria importanza del biciclo, sia come causa che come stromento del crimine…”.
(by graziano.predielis@libero.it)
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Roma. Istituito un numero per segnalare i casi di sfruttamento dei bambini, e particolarmente dei piccoli costretti a mendicare per le vie di Roma. Il numero è 06.61532567 ed è auspicabile che l’iniziativa venga ripresa da tutti gli altri comuni.
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Promemoria. Anche quest’anno l’associazione Libera organizza la Giornata della Memoria, il 22 marzo. Stavolta si terrà a Gela e sarà il giorno culminante di una serie di iniziative antimafia nella zona.
Bookmark: www.libera.it/index.asp?idpagine=464
Info: info@cuntrastamu.org
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Parmitalia. La camorra, naturalmente, non ha mancato di ritagliarsi la sua parte: nel casertano e altrove, i boss locali si facevano pagare il pizzo per imporre i prodotti Cirio e Parmalat ai rivenditori locali. Da parte delle aziende, non sembra che ci fosse una complicità attiva: più che altro una tranquilla assuefazione che in Italia, come sappiamo, ormai è normale. Nè Cirio nè Parmalat, da questo punto di vista, hanno commesso reati. Si sono semplicemente tutelate. La percentuale della camorra, ovviamente, veniva scaricata sui prezzi e pagata dai cittadini.
La camorra, come si sa, non èun’organizzazione legale. Lo sono invece i partiti politici, i ministeri, i giornali – le istituzioni. Anche a queste ultime Parmalat “regalava” del denaro. Anche qui, probabilmente, senza commettere nulla d’illegale: per tutelarsi, semplicemente. Partiti, giornali e uomini di governo (dei due governi: e delle due opposizioni) a loro volta accettavano questi denari senza concedere in cambio – per quel che finora si sa – comportamenti illegali. Li accettavano perché era l’uso: i soldi fan sempre comodo, e certo un’azienda come Parmalat di soldi ne ha da sprecare. Anche questi denari – come quelli del pizzo ai camorristi – ovviamente venivano scaricati sui prezzi. Domanda: quanti erano questi soldi? Su una bottiglia di latte, quant’era latte e quanto “pubbliche relazioni”? Un conto è pagare cento lire per avere novantanove lire di latte, un conto pagare cento per averene quaranta o cinquanta.
Tutto questo discorso, visto che che tutto sommato si è svolto (a quanto pare finora) nella legalità formale, non interessa i giudici e non si risolve con la galera. Come si risolve, allora, e a chi interessa? Si risolve con una sanzione non penale ma “civica” (comprerò un altro latte, toglierò il saluto a Tanzi, non voterò per il partito che ha preso i soldi, ecc.) che appartiene squisitamente ai cittadini. E come fanno i cittadini a poter decidere se applicare o meno tale sanzione, a esercitare cioé i loro poteri di membri di una democrazia? Beh, hanno i politici che li allertano, i giornali che li informano, ecc. Ma proprio questi politici e questi giornali erano quelli che prendevano i soldi da Tanzi. E allora?
Allora il cittadino è obbligato, in una maniera o nell’altra, a diventare meno civile. O a scrollare le spalle, qualunquisticamente: “Soldi suoi” (ma sono i soldi che poi paghi col latte, sono i *tuoi* soldi). O a inferocirsi la faccia, giustizialisticamente: “Tutti in galera!”. O suddito pecorone o rivoltoso incazzato: ma uno vorrebbe essere solo un cittadino.
In un caso o nell’altro, ovviamente, la colpa non è sua. E’ di chi gli nega gli strumenti per giudicare e dunque andrebbe “punito” non votandolo più, se politico, o non leggendolo più, se giornalista. Quale politico, quale giornalista? E chi lo sa. Sui giornali, e nel dibattito parlamentare, non sono usciti i nomi e i dati emersi dalle confessioni di Tanzi. Sono stati sottratti alla pubblica opinione. L’unico a pubblicarli è stato un giornale “incivile” e di destra, il “Libero” di Feltri. Che li ha pubblicati a suo modo correttamente, attaccando selvaggiamente (e, more solito, forcaiolamente) i nomi “di sinistra” ma non risparmiando affatto ai lettori quelli di destra. E’ una cosa bruttissima dover solidarizzare, parlando di etica giornalistica, con uno come Feltri. Ma far finta di niente sarebbe peggio e il far finta di niente nel giornalismo italiano – anche “di sinistra”: in questi casi scattano subito le virgolette – diventa sempre una regola, una complicità di classe, una partecipazione implicita a un sistema (già bipartisan?) di potere.
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A la guerre comme a la guerre. Per far fronte all’aumentata pericolosità del terrorismo il governo ha deciso di intensificare a sua volta gli sforzi prendendo tutte le misure del caso. Perciò stavolta sarà l’intero governo, e non più il solo presidente, ad assentarsi per un mese dall’Italia per andare a farsi il lifting.
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Catania Città d’Europa. E di convegni: Il 12 marzo “La politica come professione e l’etica della politica”. Enzo Bianco (ottanta pacifisti all’ospedale a Napoli), Giuseppe Giarrizzo (storico della massoneria), Cesare Salvi (collezionista di automobili anni Trenta), Enzo Trantino (avvocato di Santapaola e presentatore di Igor Marini). Più commercialisti, avvocati d’affari e baroni vari.
Il 13 invece convegno su “L’informazione di regime”. Messina di Repubblica (quella che là esce senza cronaca perché Ciancio non vuole), Ronsisvalle della Fnsi (quello che se n’è stato zitto quando gli edicolanti mi hanno bloccato un giornale antimafia “perché se no Ciancio ci leva il pane”), Magnano capo-marketing del sito di Bianco”Il Dito” (quello che ha licenziato un redattore perché s’era permesso di criticare un politico. Ma poi, che c’entra il marketing con le quarantore?), la Lombardo (di Ciancio, in quota Bianco e dunque “di sinistra”), e altri che non si capisce bene che c’azzeccano con tutta ‘sta bella gente. Assenti i giornalisti maleducati tipo Benanti.
Il 14 era domenica, perciò niente convegni. Meno male.
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Confindustria. Montezemolo alla presidenza, dopo una serrata campagna elettorale contro i padroni. Messaggi di congratulazioni da Ho-chi-min e Pierre Carniti. Il simbolo della Confindustria, che attualmente è un’aquila accovacciata assolutamente identica allo stemma di Saddam (nonché della Rsi, dell’impero napoleonico, di Cesare Ottaviano, di Attila, del Reich tedesco e di molte altre istituzioni democratiche) verrà quanto prima sostituita da una colomba svolazzante su sfondo iridato.
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giovanni.caristi wrote:
< Ciao R. ti scrivo questa mail per salutarti, ma soprattutto, da bravo scassacazzo quale sono, per correggere un tuo lapsus: saranno stati i “meteorologi” ad avvertire le autorità di Tuvalu, non i “metereologi”. Dopo questa pedanteria, ti saluto un’altra volta e ti auguro buon lavoro :) >
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Nico.Tanzi@rtsi.ch wrote:
< Mi scrive Fabio, che lavora a contatto con il carcere: “forse vi sfugge che in italia l’outsearcing delle aziende in carcere è già una realtà, in più con delle belle agevolazioni e senza alcun tipo di vincolo; è vero, ci manca la privatizzazione delle carceri ma di questo passo…” >
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s.stronati@tiscali.it wrote:
< A Roma c’è un ristorante carino, con persone gentili e orgogliose del loro nuovo ristorante. E anche qualcosa in più: è nato dalla volontà di alcuni genitori di ragazzi con la sindrome di Down di dare una prospettiva lavorativa ai loro figli e già oggi ci lavorano come camerieri Claudio, Valerio, Emanuela e Viviana. Vogliamo fargli un po’ di pubblicità? La pizza è buona, il locale è carino e costa poco. Locanda dei Girasoli, via dei Sulpici 117h, 06.7610194 >
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giovanni wrote:
< L’unico programma televisivo che riesco a vedere (questione di stomaco, non di tempo) oltre al televideo (innocua alternativa ai tg) è Blob. L’altra sera c’era uno che strillava e si agitava. Dopo un po’ ho capito che era Oreste Scalzone, che litigava con un tizio, che credo fosse il direttore della Padania. Non ho capito cosa diceva, ho avuto, però, la netta impressione del delirio e di uno che sta invecchiando male. Non mi riferisco all’aspetto fisico ma al mancato effetto su di lui della benefica saggezza che arriva, evidentemente non per tutti, dopo i cinquanta. Già il fatto di litigare con un leghista! Come fai? puoi solo ridicolizzarlo! Per il resto l’impressione che dava era la stessa di quando esaltava la geometrica potenza di via Fani. Litigavano, ovviamente, per Cesare Battisti (non quello delle piazze e delle vie). Io non mi sono perso una battaglia contro le persecuzioni, da Valpreda a Tortora, passando per Angela Davis ma, francamente, con tutta la buona volontà, non riesco ad appassionarmi a questa. Di Battisti so che è stato condannato per quattro omicidi, due dei quali eseguiti direttamente. Non mi interessa sapere se è pentito, perchè ho sempre pensato che è molto facile dire di essersi pentiti. Ricordo uno di Prima Linea che, dopo avere ammazzato otto o nove persone, quando fu arrestato, si pentì immediatamente facendo i nomi dei compagni ed uscì di galera molto presto. Mi interessano di più le analisi serie sui propri errori, che qualcuno ha fatto (Curcio e Franceschini per fare dei nomi).
Nulla obbietto al suo sacrosanto diritto di difendersi ed opporsi all’estradizione ma quello che non mi va giù è leggere che, all’udienza, i suoi amici cantavano “Addio Lugano bella”! Se anche Battisti è un perseguitato che termine dovremmo usare per qualcuno che, a Pisa, sta in carcere da sette anni, non ha mai chiesto grazie o permessi, pur potendoli chiedere e che adesso deve pure subire l’accostamento (o lo scambio) con Priebke? >
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s.m. wrote:
< Negli infiniti servizi sul Festival di Sanremo, il “servizio pubblico” non ha mancato di ritrasmettere gli sketch tra Renis e Celentano a proposito delle amicizie mafiose del primo, e le battute di Gnocchi e Ventura su Nando Dalla Chiesa. Insomma, non solo bisogna “convivere con la mafia”, ma si può sorridere con i mafiosi simpatici e si pigliano bonariamente per il culo quelle poche persone civili che ancora pensano che alla mafia si debba resistere. Sarebbe lecito aspettarsi, non dico un proposito di boicottaggio o anche un minimo segno di indignazione, ma almeno l’aria imbarazzata di fronte al pessimo gusto, come quando, in un party “per bene”, qualcuno racconta una barzelletta sui malati di Aids o sugli ebrei. Invece: risate, sorrisi, commenti su parole insignificanti pronunciate da questo o da quello. Arrivano gli squadristi, ed il campione di italiani si preoccupa che sulla camicia nera i bottoni starebbero meglio di un altro colore. Si rallegrano sinceramente per la cattura di un boss vecchio stampo, brutto e feroce, si indignano per gli stipendi d’oro della cricca del festival; ma son pronti a ridere assieme all’amico dei mafiosi in giacca e cravatta che sorride in favore di telecamera e fa il brillante. E’ un’immagine che dà la misura della situazione: la mafia sta vincendo, la mafia ha vinto. Perché, ripulita ed in abito da gala, s’è infiltrata in un luogo che vale molto di più dei luoghi chiave delle istituzioni: le nostre teste. Basta che si presenti nel modo giusto, e Peppino, Rosario, Giuseppe, Giovanni, Paolo e tanti altri saranno morti per nulla; e chi si ostina a ricordarli non sarà altro che un don chisciotte contro i mulini a vento >
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Francesco Merlo (su Repubblica del 1 ottobre 2003, “Se la sinistra scopre che il ponte è di sinistra”), purtroppo wrote:
< Fosse pure vero che non c’è convenienza economica, il Ponte sullo Stretto di Messina andrebbe comunque costruito, visto che nessuno ha fatto i conteggi alla Torre Eiffel o alla Statua della Libertà ma tutti capiscono che senza Torre e Statua a Parigi o New York ci sentiremmo persi. Il Ponte insomma è bello, ed è sempre e comunque sviluppo, è progresso. Il Ponte sullo Stretto possa rappresentare, finalmente meglio e più del terrorismo, il simbolo della generazione del Sessantotto. Sono infatti loro che lo vogliono; siamo noi che, giunti alla maturità, vogliamo i ponti mentre prima volevamo dittature e bardature. Il Ponte al posto dei baffi di ferro e dei girotondi, il Ponte per non smarrirsi nello spazio astratto dell’ideologia, nell’Italia-manicomio che, pur di fare un’altra pernacchia a Berlusconi, vorrebbe volare da Scilla a Cariddi con la liana e l’urlo di Tarzan >
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Della serie “Se Pariggi avesse lu ponte sarebbe una piccola Messina”.
(Ma se proprio serve un simbolo del Sessantotto, perché non prendere San Libero? Sempre meglio del terrorismo, che col 68 non c’entra, e dei sessantottini lecchini, che sono una – petulante ma trascurabile – minoranza e comunque nel sessantotto facevano ancora tenerezza).
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cettina1 wrote:
< io l’ho vista stamattina, la nonpoesia sull’otto marzo. e poi mi sono vestita come se avessi ancora 20 anni e sono uscita nella prima giornata di sole. adesso sono qui che mi mozzico un dito e cerco un filo di parole in mezzo al fumo. le dita di Cettina che corrono sulla tastiera mi hanno strozzato il fiato finchè mi sono detta che non posso essere io quella Cettina, ma essermi sentita lei mi fa essere lei. non so se sono anch’io a nulla rassegnata e di nulla pentita, ma so che è quello che vorrei e che cerco di essere, e di ricordare sempre di essere stata >
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Cara Cettina,
Cettina è una ragazza della mia età, vale a dire giovane e bella – per quelli come noi gli anni non passano mai – ed era la capo-tastierista del Giornale del Sud. Quando il direttore fu licenziato, e noi occupammo il giornale e poi mettemmo su la cooperativa, lei venne con noi. Fra noi era l’unica esperta di computer, se di computer si può parlare a quei tempi. Ai Siciliani avevamo una grossa fotocompositrice, comprata a montagne di cambiali, e lei era l’addetta. Io le consegnavo i floppy (da 5 e un quarto: ciascuno conteneva ben 36 k di articoli, codificati con stringhe tipo “SL09SS090SN012 ecc.” – un incubo: me le ricordo ancora). Lei prendeva i floppy, li metteva in macchina, e dopo un po’ portava la “strisciata” coi pezzi. Allora io li davo al signor Garilli (un vecchio tipografo-impaginatore: aveva lavorato per trent’anni nei quotidiani a Milano, e ora era con noi a fare i Siciliani), Garilli prendeva la strisciata, la sforbiciava accuratamente e l’incollava con l’inceratrice sul lucido millimetrato, da cui poi Turi Fotografo, in camera oscura, avrebbe ricavato le pellicole per le lastre. Quanto giornalismo ho imparato da Garilli! Lui aveva lavorato nei giornali veri, quelli con la linotype a piombo, in cui per contratto i tipografi avevano diritto a un bicchiere di latte per combattere l’avvelenamento di piombo.
Il giorno dopo che morì il direttore Cettina, Garilli e gli altri (il tipografo che chiamavamo “Merola”, l’altro piccolo e incazzoso, Turi Fotografo, il Proto Ajello, Nanni Maione della pubblicità, Giusi la ragazzina-fotoreporter, Consoli il disegnatore: tutti) erano tutti in sede insieme a noi. C’era da fare l’edizione straordinaria, quattro pagine tirate giù in poche ore, e io – mi ricordo – ero al tavolo d’impaginazione, come centinaia di altre volte, col vecchio Garilli accanto. Ogni tanto Cettina veniva e portava le strisciate. Garilli, attento e serio, suggeriva: “Il titolo, perché non lo mettiamo centrato? Guardi, poi, questa riga cresce”. “Va bene, dicevo io, centriamo il titolo. E interliniamo il capoverso, così allineamo tutto”.
Io non ricordo altro di quella sera. Diverso tempo dopo, ho visto la cassetta di una tv che aveva fatto riprese in redazione. C’erano i ragazzi ai computer, seri, che scrivevano concentrati. C’era Lillo e Graziella che parlavano (lui le spiegava qualcosa). C’eravamo Garilli e io, di spalle, al tavolo luminoso. E c’era Cettina che usciva dalla camera oscura, col volto in lacrime e un fascio di strisciate fra le braccia.
Tre giorni dopo ci fu una manifestazione sindacale in via Etnea. Cettina ci andò con un mazzo di volantini. Li distribuì fra gli operai, poi si fermò in mezzo alla strada e prese la parola. Il primo comizio antimafioso a Catania. Gli operai là fermi, i fogli che passavano di mano in mano e Cettina che faceva ad alta voce i nomi “Santapaola” e “Cavalieri”.
Cettina Centamore, negli anni successivi, fu l’Amministratrice dei Siciliani. Fu poi subentrata da Lillo Venezia e Graziella Proto. Ciascuno dei tre pagò con sacrifici durissimi, e con soldi propri, questo onore. A Lillo la Lega delle Cooperative, nostra creditrice, un giorno sequestrò i mobili di casa. Graziella ci rimise la casa. Cettina fu più fortunata ed essendo più povera ci rimise relativamente poco. Il giornale, in ogni caso, continuò a uscire. Uscì coi sacrifici di questi esseri umani, che non esitarono a buttar nel crogiuolo tutto ciò che avevano pur di poter venire in redazione a dire “Quest’altro numero, lo possiamo stampare!”. Noi ci ributtavamo ai computer, a scrivere ciò che dovevamo, ed essi tornavano in ufficio – la Stanza dell’Amministrazione – ad affrontare i creditori. Non un imprenditore siciliano – tolto un amico del Direttore, il signor Timpanaro – mise mai una lira di pubblicità sui Siciliani. La Lega delle Cooperative, mentre prometteva di aiutarci, faceva invece appalti coi Cavalieri. Quanto agl’intellettuali catanesi… beh, parlavano d’altro, tanto per cambiare.
Nessuno ricorda più i nomi di Cettina, Graziella e delle altre compagne – loro sì – dei Siciliani. Ed è giusto così. Se i vip catanesi – politici, giornalisti e pezzi grossi – improvvisamente dovessero ricordare i loro nomi, dovrebbero anche chiedersi perché finora li hanno dimenticati. Ma se ne guardano bene: se c’è da parlar di quegli anni, oggigiorno, si chiamano delle giornaliste importanti oppure degli altri pezzi grossi. Non Cettina, Graziella, Nanni, Giusi, Ester, Antonella o la signora Roccuzzo, quelle che nel momento del pericolo si schierarono, combatterono, e gli avanzò anche il tempo per un sorriso.
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marco ciriello wrote:
< una volta scavalcato, un muro è di nuovo un muro
anche dall’altro lato, e bisogna ripartire.
questa è la storia.
corre chi ha paura. corre chi vuole cambiare.
corre chi è clandestino, ladro, fuggiasco.
corre chi ha fretta, voglia, cuore.
questa è la cronaca di corse dell’anima,
di partenze senza arrivi e viceversa.
senza soluzioni, senza fini.
diverse città, strani uomini, cani neri, formiche,
cadaveri, pugili, calciatori, donne lontante dalla cronaca rosa.
un mondo variegato, crudo e poetico,
raccolto con affetto spietato e raccontanto
con rispetto da una voce attenta e coinvolgente >
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)