San Libero – 269

1 febbraio 2005 n. 269

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spizzichino@yahoo.com wrote:
< Oggetto: giornata della memoria.
Era il febbraio del 1944, Umberto aveva 26 anni era bellissimo e paraculo come solo i giovani romani sanno esserlo. Umberto è il primo di cinque figli di una famiglia ebrea, proprietaria di un negozio di abbigliamento in via alessandria; le leggi razziali del 1938 promulgate dal fascismo, l’occupazione di Roma dei tedeschi, i raid al ghetto di Roma costringono la famiglia a dividersi per evitare le persecuzioni. Umberto decide di fuggire in Svizzera. Il fratello Leonardo di un anno più piccolo viveva nascosto con la moglie Gemma in casa della suocera Anita in via reggio emilia, da poco avevano avuto un figlio Settimio detto “il baroncino” che allora aveva un anno e mezzo.

Intorno agli anni ’30 Umberto frequenta le elementari allistituto Pestalozzi, in Via Montebello, tra i suoi compagni di classe vi è Luciano, i due giovani diventano ben presto amici e finiti gli studi in comune, continuano a frequentarsi anche perché si trovano ad abitare nello stesso quartiere.

A lui Umberto si rivolge per essere aiutato ad espatriare, Luciano gli fissa un appuntamento all’incrocio tra viale Manzoni e via Emanuele Filiberto. Pieno di Speranza Umberto si reca puntualmente all’incontro, ma al posto dell’amico trova gli agenti delle SS che lo arrestano e lo portano in via Tasso.

Da quel giorno inizia l’odissea di Umberto, da via Tasso finisce al carcere di Regina Coeli dove riesce a scrivere una lettera alla suocera (che non essendo ebrea non correva rischi), Gemma, la cognata, corre al carcere ma era già troppo tardi.

Umberto era stato trasferito, così, senza soldi e con i vestiti che aveva indosso al momento dell’arresto, a Fossoli vicino carpi in provincia di Modena dove la Repubblica di Salò aveva allestito un campo di concentramento.

Da Fossoli Umberto scrive a Roma ad amici e parenti per far sapere dove si trova e per chiedere, con molta vergogna, soldi, vestiti e cibo; nelle lettere oltre a scusarsi per le richieste, cerca di rassicurare tutti sulla sua condizione di salute e di morale, conclude sempre con un abbraccio al “baroncino”.

Solo il 19 marzo riesce a ricevere la prima lettera dalla famiglia che da allora cerca di mandargli anche i soldi attraverso dei vaglia postali (500 lire per volta) e pacchi di vestiti e cibo ma che non gli arriveranno mai.

Da Fossoli Umberto scrive che “la vita scorre tranquillamente, forse anche troppo, ma meglio così che altrimenti”, il 3 aprile scrive che gli hanno appena comunicato che deve partire “per ignota destinazione” e in quella lettera cerca di nuovo di tranquillizzare la famiglia “non preoccupatevi per me, che non è il caso, cercate di stare bene voi tutti, che questo pensiero è quello che mi fa stare più tranquillo”.

L’ultime notizie sono 5 righe scritte a matita di fretta su un fogliettino con data 5 aprile 1944: “Cara Gemma, ti scrivo nell’ora della partenza, sperando che questa mia ti pervenga. Tanti baci a tutti voi e niente paura. Umberto”.

Da quel giorno non si è più avuta notizia di Umberto.

Luciano, invece, che di cognome fa Luberti ha fatto “carriera”, durante l’occupazione si è meritato il soprannome di Boia di Albenga, con la liberazione è stato condannato a morte, ma la condanna è stata tramutata in ergastolo e poi con l”amnistia a 7 anni di carcere militare. Uscito dal carcere è stato accusato di aver ospitato gli esecutori della strage di piazza Fontana (il 12 dicembre 1969 a Milano) e degli attentati dinamitardi che nello stesso giorno erano stati compiuti a Roma, la sua compagna Carla Gruber che aveva deciso di confessare è stata uccisa e il suo cadavere tenuto nascosto per tre mesi.

Luberti, militante del Fronte Nazionale, viene ritenuto incapace di intendere e di volere dal criminologo Aldo Semerari (morto decapitato e noto per le sue perizie psichiatriche a fascisti e malavitosi della banda della magliana) condannato all’internamento per due anni nel manicomio di Aversa, fa perdere le sue tracce e muore, di vecchiaia e in libertà, il 10 dicembre 2002.

Il fratello di Umberto, Leonardo, ha gestito il negozio di famiglia insieme al fratello Arnaldo e alla moglie Gemma, è morto nel 1984 e gli eredi sono diventati i loro figli, tra cui Settimio il “baroncino”. Nel 1999 hanno bisogno per motivi fiscali di sapere ufficialmente che fine avesse fatto Umberto e dopo qualche ricerca da Milano tramite la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (C.D.E.C) arriva il documento che certifica che Umberto è arrivato il 15 aprile 1944 ad Auschwitz e lì “marchiato” con il numero 180110 è morto il 28sw agosto del 1944.

Umberto di cognome faceva Spizzichino e il “Baroncino” nient’altri è che mio padre. >

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Ponti. Lo faranno non più fra Messina e Villa, ma direttamente fra Messina e Salerno. Questo per evitare gli occasionali disagi (di cui il governo non è responsabile) della prossima nevicata. Che è comunque da addebitare (neve=freddo, freddo=Siberia, Siberia=comunismo) ai communisti. Quanto a dimettersi, accà nisciuno è fesso, come si dice in Brianza.

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Spettacoli. Italia da salvare, il communismo incalza, Craxi era un grand’uomo, se vince Josif Prodi miseria e oppressione per tutti. Al ciinema, in seconda visione.

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Elicotteri. Ottimo quello di Bush: lo faranno in Italia, grazie ai buoni uffici di Berlusconi. Pessimo quello dei 5 elicotteristi italiani che si rifiutarono di uscire in missione l’anno scorso e finirono alla corte marziale per “codardia” (Corriere della Sera, 2 dic.2004); assolti alla fine, perché i mezzi erano davvero inadeguati. L’elicottero di Bush lo fa la ditta Agusta. Il conte Agusta, antico proprietario, era iscritto alla P2 (come il procacciatore dei buoni uffici). Chi sono gli eredi, adesso?

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Welfare. Che una volta si chiamava benessere, stato sociale e compagnia bella. Al sud, comunque si chiami, si sta squagliando come una palla di neve. In quattro anni (secondo uno studio dell’Associazione Artigiani) le spese sociali dei comuni sono diminuite del 20 per cento a Taranto, del 34 per cento a Reggio di Calabria, del 78 per cento a Caserta; del 12 per cento a Catania e Napoli, dove stanno anche privatizzando – o hanno già privatizzato – anche l’acqua da bere.

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Radici. Il reggae torna a casa. Storico concerto per Bob Marley il 6 febbraio ad Addis Abeba. Il Circolo Culturale Africa di Roma organizza la partecipazione con due viaggi, il 3 e 4 febbraio. Poi stiamo organizzando un altro viaggio in Etiopia per Pasqua, che quest’anno è il 27 marzo.
Info: segreteria@circoloafrica.org

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Compagno software. La Catena mi è ritornata indietro dalla casella del partito di Cossutta (postmaster@comunisti-italiani.it) con la seguente motivazione:
“This mail message contains banned or potentially offensive text”.
Oddio… :-)

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Coppole. Nel generale quadro della “Sicilia diffamata”, il presidente della Provincia di Catania Raffaele Lombardo denuncia che: a Berlino, alla Fiera Agricola di quella capitale, esiste “un cartellone propagandistico raffigurante un uomo con coppola e lupara, chiaramente allusivo allo stereotipo di siciliano di cui troppe volte si abusa”. Il Presidente Lombardo (anzi l’Onorevole Lombardo: il titolo di onorevole essendo stato deliberato a sè medesimi dai membri di quella Provincia), nel segnalare lo sconcio al ministero, lo invita a far rimuovere “rapidamente” il cartellone. Immagino che all’inizio manderemo solo una nota diplomatica. Poi, un ultimatum. Infine, una corazzata a occupare il porto di Berlino. Nel frattempo, a Catania, i mafiosi cantano e ballano sopra le scrivanie dei politici. E Catania, con coppola o senza, è al novantatreesimo posto nella classifica delle città italiane.

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O atletes. “Repubblica” sta raccogliendo firme per ritirare la maglia (come per Gigi Riva) di Gaetano Scirea. La proposta è di Bearzot: “Andrebbe ritirata la maglia numero 6 di Gaetano Scirea, grandissimo calciatore e grandissima persona”. Bearzot, con Pertini, è uno dei grandi re buoni della mia generazione. Italia-Germania è stato il punto più alto raggiunto dalla bella sinistra di quei tempi là. E Scirea, oltre ad essere un grandissimo atleta di quell’Italia popolare e allegra, è stato anche un bravo e serio siciliano, un coraggioso: nel 1986 ha pure scritto un articolo sui Siciliani, e non erano in tanti allora – fra gl’intellettuali, non fra i calciatori – a correre questi rischi. Lo ricordiamo con affettuoso orgoglio. E perciò firmiamo.

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Insieme. Acquaro è un paesino della Calabria, non lontano da Vibo Valentia. L’altra notte hanno messo due bombe, una alla Cgil e l’altra (non esplosa) alla chiesa del paese. Gli inquirenti parlano di “contrasti politici locali”. Io non so nulla di Acquaro, ma immagino facilmente quali possono essere i contrasti “politici”, e da che motivati, in una zona militarmente occupata dai mafiosi come questa.

E’ significativo che fra i nemici della ‘ndrangheta (e che nemici: da doverli annientare fisicamente) ci siano, nello stesso villaggio, il sindacalista e il prete. Sarebbero stati su fronti opposti, vent’anni fa. Adesso, rischiano insieme la pelle per contrastare i mafiosi e difendere la gente. Che Dio e Di Vittorio li proteggano. Cerchiamo di non perderli di vista.

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Dopo diciotto anni, non vale più la sentenza contro i tre autori del rogo di Primavalle in cui furono barbaramente uccisi, il 16 aprile 1973, due figli di un esponente fascista di quel quartiere. Il più piccolo dei due aveva otto anni. La Corte d’Appello di Roma ora ha deciso che c’è la prescrizione. I tre vivono all’estero da molto tempo.

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Memoria. “Abbiamo imparato da tempo a difenderci da soli. Se non lo facciamo noi, non ci difende nessuno. Quando Hitler ordinò la Soluzione finale, a nessuno importò nulla dello sterminio degli ebrei”. L’ha detto Sharon, commemorando Auschwitz in parlamento. Ha detto cose vere. Esse spiegano, se non tutto, quasi tutto ciò che d’orribile fa oggi Israele.

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Le televisioni iraniane e egiziane (una “nemica” dunque, e una “occidentale”) trasmettono tranquillamente programmi antisemiti. In Francia giovani arabi assaltano giovani ebrei. In Italia si scrivono cose infami sui muri. “Libero”, governativo, nel Giorno della Memoria esalta in prima pagina Mussolini (non si reagisce apertamente, perché di questo governo si potrebbe avere bisogno in un domani). L’antisemitismo è combattuto, a parole… dagli antisemiti di ieri. Non c’è nulla, a parte gli aerei e i carri armati, che protegga gli ebrei più di ieri. L’Europa non assisterebbe più impassibile – probabilmente – a un nuovo massacro. Ma altri paesi applaudirebbero, o almeno resterebbero neutrali. Questo è il quadro del mondo poco dopo il duemila. Difficilissimo “far politica” su tutto questo. Si può soltanto registrare il quadro, cercare di analizzarne razionalmente le radici. Altri antisemitismi frattanto crescono. S’intrecciano con quelli antichi, s’imbevono, s’alimentano a vicenda.

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Tommaso wrote (esattamente due anni fa):
< Non ho mai letto la Fallaci, ma non penso proprio possa essere definita antisemita o antisionista. Sarà un refuso? >

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Non è un refuso. Tecnicamente, gli arabi sono tanto semiti quanto gli ebrei: non a caso le vignette di Arafat, nei giornali anti-arabi, presentano i medesimi tratti fisici caricaturizzati (naso, labbra,ecc) che, nei giornali anti-ebrei, caratterizzano invece le caricature degli ebrei. E’ interessante notare anche che, sovente, i soggetti che esprimono la propaganda anti-araba sono i medesimi che, contemporaneamente o a distanza di qualche anno, portano o portavano avanti quella anti-ebrea: negli Stati Uniti questo fenomeno è particolarmente evidente.

Alla base di entrambi c’è il sentimento di una oscura identità “ariana” (artificiale e quindi intrinsecamente debole) che viene percepita come vulnerabile e dunque minacciata su certi terreni dai “non-ariani”. L’ebreo è molto più libidinoso di noi tedeschi, e dunque è pericoloso per le ingenue (e per noi frigide) donne ariane; l’arabo, grazie alla sua animalesca vis copulandi, si riproduce molto più velocemente di noi bianchi e questo (come leggiamo nelle dotte analisi “geopolitiche” di alcuni editorialisti) è un pericolo per la civiltà.

L’ebreo è abile e manovriero negli affari, contrariamente al franco e ingenuo tedesco: che dunque bisognerà difendere dai suoi trucchi, che non siamo in grado di elencare ma che sicuramente esistono, visto che così tanti ebrei hanno i soldi e tanti poveri tedeschi no. L’arabo, che in fondo è un incivile beduino, detiene ricchezze immeritate (il petrolio) di cui si vale per ricattare noi ingenui occidentali: che dovremo pur difenderci, a un certo punto.

Entrambi i popoli (o meglio: entrambe le razze) sono (terza caratteristica) sporchi, fisicamente poco puliti: le due propagande antisemite sono molto chiare su questo punto, che per uno psicanalista sarebbe forse il più interessante.

Per quanto riguarda la Fallaci in ispecie, a queste coincidenze di antisemitismo ne aggiungo una quarta, che è di carattere sintattico-narrativo. Rilegga gli antisemiti italiani Anni Trenta (Appelius o Interlandi, per esempio) e ritroverà certi ritmi sintattici, certi stigma di stile, certi “assolo”, che sono esattamente gli stessi: lei è un po’ più sofisticata, ma non poi tanto.

Coincidenza fortuita ma carina, sia nell’antisemitismo del Ventennio che in quello della signora il linguaggio ufficiale è il falso-fiorentino uso turisti: che ahimè gli americani non distinguono, come non sanno distinguere il Chianti vero da quello di trattoria. Fra i toscani fascisti, però, c’erano dei personaggi umanissimi (penso a Ottone Rosai, o a Malaparte) che del loro toscanesimo e persino del loro fascismo facevano scena sì, ma con sincerità e con rispetto; e si avvicinavano all’arte per questa via. La Fallaci è fasulla, da cima a fondo, tanto toscana quanto i David di plastica che gli americani si portano a casa tutti contenti.

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Umberto wrote (adesso):
< Francamente trovo offensivo chiamare antisemitismo quello che possiamo comodamente definire antiarabismo o antiislamismo. non Ravvedo nulla, nell’odio contro i musulmani, che possa essere riicondotto alla loro innegabile origine semita e mi chiedo chi e perché ha sentito il bisogno di definirlo antisemitismo. tu, che lo usi con estrema disinvoltura, puoi darmi qualche lume? Per esempio, perché tu hai scelto questo termine? Aiutami a capire >

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Per gettare l’allarme. Il livello del nostro razzismo attuale contro gli arabi è molto lontano da quello degli Anni Trenta contro gli ebrei. Ma ha già raggiunto, a mio vedere, quello dell’antisemitismo di fine ottocento: l’affaire Dreyfus, per intenderci, o l’antisemitismo popolare (nel senso anche di Partito Popolare) di Lueger a Vienna. Non si ammazzava nessuno, ancora (perlomeno qui in Europa), ma le premesse per ammazzare in massa, alla prossima generazione e in tempo di crisi, cominciavano a formarsi. Molti meccanismi culturali di quel tempo secondo me si stanno riformando adesso.

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Patrizia wrote:
< Caro Riccardo, tra le tante cose – giuste – che hai scritto sulla “guerra” Cuffaro-Report, una è inesatta e mi preme correggerla. Non è vero che i giornalisti siciliani non hanno difeso Milena Gabanelli e i colleghi del nord. E’ vero che l’Assostampa non è intervenuta ma è anche vero che nello stesso pomeriggio in cui sono esplose le polemiche, sessanta giornalisti di tre testate palermitane (Giornale di Sicilia, Repubblica e Rai) hanno firmato un comunicato di solidarietà a Report contro gli attacchi censori di Cuffaro & c, diffondendolo tempestivamente (è stato pubblicato), pur continuando a lavorare (non tanto tranquillamente!). Possiamo anche discutere della efficacia di un comunicato, ma non mi piace che si faccia di tutta l’erba un fascio. La difficoltà di continuare a fare questo lavoro mentre i politici – di destra e di sinistra – tentano di zittirti a suon di querele o di “mazzette” distribuite come pagamento per “servizi di consulenza” vari, (e i colleghi si adeguano, passando notti insonni alcuni, in attesa della condanna; arrotondando gli stipendi gli altri) dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, e rappresentare una “emergenza”, non meno della mafia. Ma qualcuno c’è, anche tra i giornalisti siciliani. Qualcuno che ha sentito il bisogno di dire “non ci stiamo”, di andare oltre il silenzio degli “organismi di categoria” – e, a questo proposito, devo aggiungere che anche l’Ordine dei giornalisti siciliani ha preso posizione nettamente – dunque non facciamo un calderone indistinto, non serve in questo momento, a nessuno. Con stima >

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Cara Patrizia, hai ragione. Chiedo scusa a te e agli altri sessanta colleghi che si sono mobilitati in Sicilia contro la censura. Avrei dovuto immaginare, anche in mancanza di notizie dirette, che qualcuno di voi si sarebbe mosso: e sessanta colleghi sono più che “qualcuno”.

Ecco il comunicato dei sessanta colleghi siciliani:

< I colleghi di “Report” non hanno fatto altro che il loro mestiere di fotografare la realtà. Potrà non piacere, ma il giornalismo d’inchiesta mette in risalto anche verità scomode. Vorremmo sentire parlare di una Sicilia finalmente libera dalla mafia. Ma così ancora non è: lo dimostrano le dichiarazioni rese dai magistrati siciliani pochi giorni fa all’apertura dell’anno giudiziario: Cosa nostra è ancora forte e il pizzo è un terribile fardello che commercianti e imprenditori sono costretti a portare addosso. Proprio alla luce di tutto ciò gli attacchi scatenati contro i colleghi della trasmissione di Raitre, ai quali va la nostra solidarietà, ci sembrano pretestuosi e volti a scaricare responsabilità che bisogna cercare altrove.

I politici devono agire in maniera trasparente per migliorare la Sicilia e agire concretamente per eliminare gli ostacoli allo sviluppo e alla legalità.>

Ecco la lettera di Antonio Ortosleva, del CdR del Giornale di Sicilia, a Serventi Longhi della Fnsi:

< Una sessantina di giornalisti palermitani – proprio perchè il tema del contendere era il rapporto della Sicilia con la mafia, e noi non viviamo e lavoriamo a Honolulu – insomma, la “base” delle tre redazioni (si sono poi aggiunte adesioni dalle emittenti Tgs e Telecolor) ha inteso prendere posizione netta e chiara sul principio invalicabile della libertà di stampa: si può criticare qualunque servizio giornalistico ma è vietato dalla Costituzione, dall’etica professionale nonchè dal contratto mettere all’indice un giornalista, una testata. Avendo apprezzato il tuo intervento nella qualità e non altrettanto l’assenza dell’Assostampa siciliana (sono intervenuti l’Ordine di Sicilia e l’Unione cronisti), voglio sottolineare con orgoglio che anche i giornalisti siciliani nei momenti decisivi sanno mobilitarsi >

La risposta di Serventi Longhi:

< Ritengo il documento dei 60 ed oltre colleghi siciliani una delle migliori testimonianze di civiltà professionale degli ultimi anni. Sono con voi e credo che dovremo continuare a batterci per difendere la libertà nostra e delle testate per le quali lavoriamo contro ogni interferenza ed ogni tentativo di criminalizzare il nostro lavoro >

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A questo punto si potrebbe anche pensare a organizzare qualcosa di più permanente per la difesa della libertà di stampa in Sicilia. Un’idea potrebbe essere di costituire un sindacato, e di chiamarlo – per esempio – Associazione Siciliana della Stampa, visto che attualmente in Sicilia non ce n’è. Giro l’idea a Serventi Longhi. (r.o.)

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Benito D’Ippolito <nbawac@tin.it> wrote:

Ci verrà chiesto conto.

< Del perché non abbiamo accolto e soccorso
chi fuggiva da guerre, da fame, da morte.
Così come noi chiediamo conto a chi fu
complice dei nazisti.

Ci verrà chiesto conto.

Degli accordi razzisti e assassini
di Schengen, delle leggi che hanno riaperto
in Italia i campi di concentramento.
Ci verrà chiesto conto. A noi tutti.

Delle persone che abbiamo lasciato morire.

In quel tribunale
ove non si corrompe, non si mente, non si sfugge
ci verrà chiesto conto>

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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)