Potresti rileggerti un coso di Sciascia, questa settimana. Attento però, che questo è uno Sciascia strano (di quando ancora non era diventato Sciascia, per capirci) e quindi non parla, come al solito, di “mafia”: parla proprio di mafia. La mafia, al tempo in cui è ambientato il libro (dimenticavo: “Recitazione della controversia liparitana”; dovrebbe essere Einaudi ma non ne sono affatto sicuro perché non ho più né libri né biblioteca ma aveva una bella copertina disegnata, comunque che faceva un gran bel vedere sul tavolo di vernice blu della sezione di Lotta Continua del mio paese) la mafia non esisteva a quei tempi, dicevo, e i tempi erano quelli del passaggio dalla monarchia spagnola alla sabauda e poi nuovamente alla spagnola, nella Sicilia del Settecento.
Allora: c’è la prima repubblica, che poi a quei tempi era un regno, e tutti siamo fedeli sudditi del re di Spagna. Inquisizione, dunque, e leggi leggine e regolamenti vari a favore del clero. Ribaltone: Sua Maestà Cattolica, in seguito a un trattato da qualche parte, perde il regno; che viene assegnato dall’America ai torinesi, con Vittorio Amedeo re per l’occasione e il marchese Maffei (se ricordo bene) viceré con pieni – almeno teorici – poteri.
In Sicilia dunque è arrivato il progresso. Per l’inquisizione sono cazzi amari, e anche per i suoi confidenti e bargelli. Alcuni di questi (fra cui il famosissimo Matteo Lo Vecchio: di cui parleremo un’altra volta, se a qualcuno interessa) addirittura si “pentono”, e passano dalla parte dei magistrati. Che erano giovani e progressisti, naturalmente, lottavano per la giustizia e credevano giacobinescamente (oh, è cambiato o non è cambiato il re del regno?) che la legge fosse uguale per tutti. Grande incazzamento dei nobili – mandi un killer ad ammazzare qualcuno e ‘sti stronzi di magistratio te lo mettono in galera – che però, non essendoci ancora né Mughini e né Ferrara, non potevano tradurre in garantese il loro punto di vista e ci facevano dunque una pessima figura. Severi moniti della Chiesa, durissimi editoriali di Mongitore, proteste dei decurioni (una specie di confindustria) palermitani – ma quelli del pool, giù duri.
Un bel giorno, arriva una multa al palazzo del vescovo di Lipari. Sua Eminenza aveva mandato un servo a vendere una cesta di ceci secchi al mercato, senza però pagare la tassa sulle bancarelle. Arriva il vigile urbano (l’algozino), e fa il verbale. Violazione dei privilegi ecclesiastici, iniqua persecuzione del servo di un servo di dio: il vescovo scomunica il povero vigile, e a quei tempi una scomunica era quasi come essere preso per comunista ora.
Ma la notizia arriva al pool di Palermo e i giudici, fra una cosa e l’altra, incriminano a loro volta il vescovo: abuso d’autorità, turbativa delle leggi del Regno, violazione della par condicio fra sacro e profano, e via dicendo. Il vescovo? Una bestia: scomunica doppia, rinforzata e fulminante al vigile (beh, ma questo si sapeva già), all’ufficio istruzione, a tutti i sostituti della procura, a quel giacobino di viceré che gli tiene mano, al re e all’intero regno. E così, per una cesta di ceci il fedelissimo regno di Sicilia si trova nella condizione di dover scegliere a chi essere fedele: se al potere ecclesiastico, o alla legge.
I giudici, naturalmente – mi dispiace di non ricordare i nomi dei giudici ma vado a memoria, e questa è fiacca; uno potrebbe essere Ingargiulo? Ho scritto qualcosa su questa storia quindici anni fa: ma allora avevo il libro, e avevo la memoria – i giudici non avevano dubbio alcuno sulla parte da cui si sarebbe schierato il viceré Violante, un signore civile, portato dai tempi nuovi; e piemontese! Ma com’è come non è, le dichiarazioni di solidarietà del governo si fecero attendere. Ed ecco la solitudine dei magistrati, gli algozini pentiti che uno dopo l’altro cominciano a chiedere perdono in chiesa, i servitori che cominciano ad aprire con malgarbo le porte al sostituto che esce dalla procura.
E i pezzi di Mongitore sempre più frizzanti, le dame che ridono graziosamente ai pettegolezzi sui giudici che a poco a poco riempiono i salotti palermitani… Ancora tutte queste cose non s’erano verificate (non si erano verificate ai tempi nostri, intendo) ma Sciascia era così grande scrittore, a quel tempo, che riuscì perfettamente a rendere quel clima, il clima della palude.
Come finisce la storia? Come sempre, naturalmente. Vittorio Amedeo, per quanto culo desse ai nobili, alla Chiesa e a tutta la destra siciliana ed europea, non riuscì tuttavia a convincerli di non essere un possibile sovversivo. Alla fine, un altro congresso gli tolse il regno (gli dettero la Sardegna, per consolarlo) e lo restituirono agli Spagnoli. I quali, bestie com’erano, duraron poco. Ma intanto l’inquisizione e i vescovi riebbero i loro giocattoli, i giudici del pool furono fatti fuori (umanitariamente, bisogna dire: erano tempi civili) e i ceci di Sua Eminenza tornarono trionfalmente sul mercato. Senza tassa, naturalmente, in nome della libertà religiosa.
È l’unico libro di Sciascia di cui non si parla mai. L’unico che ancora può fare danno.
“Alle ore diciotto, in piazza del Carmine, co-mi-zio del partito communista italiano. Parlerà il compagno Tindaro La Rosa”. “Cittadini, lavoratori: alle ore diciotto, in piazza del Carmine, tutti al comizio del partito communista italiano. Vota communista, contro alla mafia, contro la diccì”. Io ho sentito queste parole con le mie orecchie, al mio paese, molti anni fa. Presso quale ufficio debbo andare a denunciarmi?
Poi c’era quell’avvocato di Catania, era il figlio di un altro avvocato ma famosissimo, lui era pure uno dei migliori della città ma non arrivò mai ad eguagliare, e lo sentiva come una cosa ingiusta, la popolarità di suo padre; che era uno di quei togati autorevoli ma dalla battuta salace mentre lui era piccolo, calvo, leggermente incurvato e con un sorriso mezzo. Era il nostro avvocato, a quei tempi, un gruppo di ragazzi che facevamo un giornale antimafioso e non era affatto facile per noi trovare un avvocato in quegli anni. Una di quelle persone che poi non vedi più per anni e poi, quando torni in Sicilia, ti dicono casualmente, che è morto. Al “Come sta, avvocato?” mi dicono che rispondesse, negli ultimi mesi, nella seguente maniera: “Come sto? Mah. Bene. Solo, ci haiu ddu cosu ddà che arrimina, gira, firria… comu si chiama… un cancru, eccò”. E si allontanava con un civile sorriso.