5 dicembre 2005 n. 312
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Cari amici,
la settimana scorsa la Catena (per la prima volta in sei anni) non è uscita. Mah: un giornale piccolo e presuntuoso come questo avrebbe almeno il dovere di essere sempre professionale – e certo una mancanza del genere professionale non è stata. Altre volte il giornale era uscito regolarmente anche in situazioni peggiori. Stavolta no e non resta che segnare questo episodio fra i tanti memento dei limiti individuali.
(I guai non si sono limitati alla Catena: sono stati lasciati deplorevolmente in asso i ragazzi di cui stiamo seguendo le tesi; c’è un buco nei lavori per il nuovo sito, per il giornale di quartiere a Catania, per il foglio calabrese, per la video-edizione della Catena e nei contatti con gli altri amici che si occupano di queste cose. Ne chiediamo scusa a ciascuno di loro e li preghiamo di aver pazienza e di riprendere i contatti al più presto).
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Ma è poi così importante che cose come la Catena esistano, e che in genere ci siano tentativi – più o meno azzeccati – di fare informazione professionale al di fuori dei circuiti ufficiali? Secondo me sì, per una serie di ragioni. Un tempo, la stampa “padronale” (chiamiamola così per semplificare) faceva danno soprattutto col nascondere le notizie. Se una Fiat 1100 – ad esempio – finiva disgraziatamente contro un palo, il giornale della Fiat (che dipendeva dalla vendita di automobili di quell’azienda) riportava correttamente la notizia, con l’unica eccezione di omettere la marca dell’automobile. Le Ford, le Renault, le Opel potevano essere coinvolte in incidenti, ma le Fiat no: in questo caso, si usava un generico “un’autovettura”. Lo stesso naturalmente capitava ai metalmeccanici, a Lumumba, a don Milani, ai comunisti: meno se ne parlava e meglio era, e non parlandone c’erano ottime probabilità che la gente non ne venisse mai a conoscerne neanche l’esistenza. Le notizie erano infatti molto poche e quelle poche transitavano attraverso canali esili e rudimentali.
Adesso, tutto questo è impossibile. Le notizie sono moltissime e sono praticamente impossibile da nascondere. Persino una vicenda come quella di Falluja (crimini di guerra sulla popolazione: da tribunale di Norimberga), che pure si era cercato di nascondere facendo largo ricorso all’omicidio, alla fine è venuta fuori. Vengono fuori torture, massacri in massa, espugnazioni di città con metodi babilonesi – e qui, da noi, rapporti ormai strettissimi fra politici e mafiosi – che, nell’animo di ogni persona normale, non possono destare che orrore. Allora bisogna cambiare la “normalità” di questa persona: trasformarla cioè da comune e un po’ banale essere umano in “uomo nuovo” politico, adattabile al nuovo ambiente, con una percezione geneticamente modificata di ciò che è bene e ciò che è male.
Un tempo, il problema era – diciamo – per il settanta per cento di nascondere ciò che avveniva nel lager di Dachau, e per il trenta per cento di indurre all’accettazione morale gli abitanti della vicina cittadina. Adesso, le percentuali sono rispettivamente dieci e novanta per cento. Perché ormai nascondere è impossibile; tutto sta nel fare abituare al panorama. Abbiamo fatto stragi a Falluja – ma adesso pensiamo all’Isola dei Famosi. Abbiamo mezza Udc siciliana incriminata per mafia – ma ora c’è il dibbattito con Lerner e Ferrara.
Finita ormai l’epoca del giornalismo, oggi conta invece la “comunicazione”. Che è composta di giornalismo ma anche di mozione degli affetti, di life-styles, di emozioni, di umanità nel suo complesso insomma. Ed è su questo terreno che un’opposizione è indispensabile. Per quanto riguarda le notizie in sè, se ne potrebbe persino fare a meno: le notizie, in un mondo così globale, alla fine vengono sempre fuori. Ma il quadro in cui esse s’inseriscono no: quello può restare artificioso e distorto fino alla fine dei secoli (visto che viene progettato come tale) se ad esso non se ne contrappone un altro, altrettanto consapevole e organico di quello artificiale.
Ecco dunque che il mestiere di giornalista o fa un passo indietro (verso il Ministero della Verità di cui in “1984”) e o ne fa uno avanti (verso l’intellettuale-testimone di don Milani). Non può restare così com’era, o può farlo a prezzo di una sostanziale adesione al Ministero.
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E questo che cosa c’entra con noialtri? Abbastanza. Noi non sappiamo affatto – poiché siamo ai primi dell’Ottocento – come si fa a fare il giornalismo nuovo. Anzi, ogni volta che ci proviamo, siamo abbastanza goffi e in genere tendiamo a usare “da sinistra” esattamente le stesse tecniche del sistema. Qualche rara volta che l’azzecchiamo, però, riusciamo per qualche momento a fare circuito. E dunque a collegarci direttamente alla vita profonda delle persone. A fare intuire un attimo – ma prima dobbiamo convincercene noi stessi – che esiste un mondo reale, di carne e ossa, invece dei similmondi olografici del Ministero. Sono istanti brevissimi ma ci sono e hanno un potenziale fortissimo, poiché ormai tutti siamo collegati l’uno all’altro (attualmente lo chiamiamo internet) e non è affatto detto che il collegamento funzioni fisiologicamente meglio dall’alto al basso che dal basso a dappertutto.
Così, se fossimo nell’Ottocento, adesso progetteremmo improbabili e complicati falansteri, o azioni “militanti e dirette” come gettarci in mezzo alla pista del Gran Premio di Ascot, oppure predere a calci le macchine che ci hanno tolto il lavoro, o andare in giro per i paesini del Carrarese annunciando il prossimo ritorno del buon Dio, amico dei poveri, sulla terra. Faremmo tutte queste cose, e anche più strane (e fra quelle che facciamo ora molte non lo sono di meno), ma in ciascuna di esse ci sarebbe un contenuto inconsapevole ma profondo (“non vogliamo più vivere come ci fanno vivere ora”) e, ancora più inconsapevole, un dato sociologico preciso: in una società scolarizzata, l’organizzazione delle persone comuni è più facile che in una società analfabeta.
Alla fine, dopo un bel po’ di tempo, arriveremmo a trovare le cose più efficienti da fare (e per esempio inventeremmo lo sciopero e la cooperativa) e alla fine alla fine, in qualche biblioteca del continente, un signore come noialtri ma più meditativo e profondo si metterebbe freneticamente a scrivere, nero su bianco, tutte le cose che avremmo imparato in questo frattempo e, mettendocele davanti tutte in una volta, ci aiuterebbe a renderle per quanto possibile concrete.
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Una cosa così non esiste ancora. Ma ne esistono tantissime più piccole e simili, esattamente come capitava allora. Stiamo imparando. E, come una volta c’era la piazza, oggi c’è la Rete. E questo è un piccolissimo nodo della rete. Piccolo, ma uno di tanti.
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Informazione. S’incontrano Bush e Blair, il primo annuncia che sta pensando di bombardare una televisione che non gli piace, Al Jazeera. In effetti, giornalisti singoli (uno di Jazeera, uno della Rueters e uno di Telecinco) erano già stati fatti fuori a colpi di missile, ma un’intera tv forse è sembrato un po’ eccessivo. Perciò Blair ha obiettato, e per il momento la cosa è finita lì. Il contenuto del dialogo, tuttavia, viene fuori qualche mese dopo, sulla stampa inglese. In un primo momento, la linea ufficiale è “stavamo scherzando, mica bombarderemmo davvero una televisione”. Ma il Times, il Daily Mirror e il Guardian insistono: no, si faceva per davvero. A questo punto i direttori dei tre giornali vengono convocati d’autorità e il governo comunica: c’è il segreto di stato, se continuate finite in galera. Cala il silenzio. E non se ne parla più.
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Calabria. Informazione locale, gestita dai giovani antimafiosi. Trasparenza bancaria. Territorio. Lavoro. Una Tennesse Valley Autority al posto del Ponte. Keynes in Calabria. E soprattutto non lasciarli soli, non espellerli – come sta succedendo ora – dalle tv e dai giornali.
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Libri. “Dialogo sulla giustizia, per un nuovo patto di legalità”. Ne parlano, alla Facoltà di Lettere dell’università di Catania, gli esperti di giustizia Anna Finocchiaro e Salvo Andò.
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Bavaglio. Nonostante due interrogazioni parlamentari presentate a settembre e a ottobre il ministro della Difesa Antonio Martino e quello del Lavoro Roberto Maroni, non hanno ancora risposto a chi gli ha chiesto quali siano i motivi per cui il giornalista Marco Benanti è stato buttato fuori dalla base militare di Sigonella, dove lavorava come operaio. Poi, quando il cronista-operaio è andato davanti al giudice per chiedere quale fosse il motivo, l’azienda che l’aveva assunto per conto di Washington gli ha detto: “Non sei gradito agli americani per i tuoi articoli”. Licenziato. [sp-ro.]
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Suffragio universale. Due milioni e mezzo di immigrati pagano le tasse ma non hanno diritto al voto. Normale. Com’era normale che non votassero i poveri (fino al 1912) e le donne (fino al 1946).
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Pellico e Beccaria. In Italia ci sono sei milioni di analfabeti? In queste settimane il dato di una ricerca sull’istruzione nel Paese ha scatenato un allarme immediatamente smentito dall’Istat: in realta’ gli analfabeti sono solo 780 mila, e per raggiungere i sei milioni bisogna aggiungere anche gli alfabetizzati privi di titolo di studio, circa 5 milioni e 200 mila. Sommando altri 13,7 milioni di italiani che hanno solo la licenza elementare, scopriamo che un italiano su tre non ha completato la scuola dell’obbligo. Nel frattempo un gruppo di riviste nate dietro le sbarre, guidate dalla redazione di “Ristretti Orizzonti” si sono riunite il 24 novembre a Bologna per costituire una federazione “dell’informazione dal carcere e sul carcere”. Meno male che ci sono i galeotti a tenere viva la cultura del paese, altrimenti saremmo proprio messi male. [carlo gubitosa]
Bookmark: www.ristretti.it
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Cartolina da Santo Domingo. Cronaca. L’ex Teniente Coronel della Policia Nacional Dominicana Lidio Arturo Nin Terrero e il suo “chofer” (autista) Tirso Cuevas sono apparsi, dopo essere stati estradati, davanti alla corte del distretto sud di Manhattan. I due sono accusati di “trafico ilegal de drogas” nel territorio statunitense. Al momento del suo arresto, il 18 dicembre 2004, il Teniente Coronel viaggiava su un camion che trasportava circa 1,300 chili di cocaina indossando l’uniforme della Policia Nacional de la Republica con la pistola d’ordinanza ben salda nel suo cinturone. I due facevano parte della “red mafiosa” capeggiata da Paulino Castillo, anch’esso estradato negli Stati Uniti, che operava nel Sud America e utilizzava come basi la Repubblica Domenicana, Haiti e Puerto Rico. [rocco rossitto]
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salvo.mec@alice.it wrote:
< Si invita a immediata rettifica delle false notizie apparse su web relative a Daniel Verola, che: non spedisce buerqa in Italia, non spedisce in Afganistan le sue produzioni, e non vende a nessuno i suoi manufatti. Egli collabora invece con organizzazioni umanitarie (legate alla FAO) nella realizzazione di un “progetto donna”, insegna a tagliare, cucire e confezionare abiti con materiali poveri, di recupero, a donne afgane, che vivono situazioni di precarietà, nel pieno rispetto di tutte le loro tradizioni culturali e dei loro tempi produttivi. Daniel Verola, giovane stilista emergente, da sempre precario, con contratto stagionale a termine, non può e non vuole vendere produzioni che sono il risultato di un lavoro colletivo per l’avvio di un laboratorio i cui utili vanno esclusivamente alle lavoratrici afgane >
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Cartello. “La mafia fa schifo”. Aggiunta: “Ma anche Cuffaro non scherza”.
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fcaffa1@alice.it wrote:
< Va bene, obiettivo numero rispedire ad Arcore il cav. Berlusconi. Ma per il resto ? Sanità, istruzione, lavoro, scuola, immigrazione e via enumerando: quale razza di programma sta preparando l’allegra brigata dell’Unione e, soprattutto, quali sono le idee forti che può convogliare la sinistra? >
Bookmark: approfondimenti.splinder.com>
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Tito G. wrote:
< “Per decenni i tedeschi sono stati in maggioranza intolleranti, prepotenti, razzisti…”. Ma di quali decenni parlate esattamente? Bisognerebbe avere una maggiore cognizione della Germania e del lavoro immane che i tedeschi hanno svolto per affrontare, elaborare, condannare e rinascere dal loro passato. E questo a destra come a sinistra, da Adenauer a Willy Brandt, passando per tutta l’intellettualità Böll, Andersch, Grass, arrivando ad ogni cittadino, alle lotte sindacali, agli scioperi politici, al sessantotto, alla stampa di ogni direzione che non fa passare giorno, da sessant’anni a questa parte, senza rintracciare personaggi, ricordare fatti, scovare storie per un’elaborazione nazionale, popolare e soprattutto europea di quello che è stato il nazifascismo. Uno sforzo questo di un popolo tutto, che incomincia ogni giorno spiegando ai bambini di 6 anni in prima elementare che sia stato l’Olocausto e che continua per tutta la formazione del cittadino, del suo senso civile e politico. Uno sforzo che l’Italia non ha ancora affrontato, cosa che oggi consente il rifiorire di interpretazioni assurde sui combattenti repubblichini e sul disconoscimento del ruolo di protagonista che il nostro Paese ha avuto nella politica e negli orrori di quegli anni. Mi spiace trovare in una pubblicazione seria come la Catena leggerezze di questo tipo >
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A.P. wrote:
< Secondo i dati dell’Agenzia Europea delle Droghe siamo terzi in Europa per consumo di cocaina. Una droga la cui immagine è legata alle classi “di successo” (imprenditori, politici, milionari) e dunque probabilmente non negativa per l’immagine post-moderna del nostro paese >
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Paolo B. (di Cornedo, ma già abitante a Pieve per vent’anni) wrote:
<“Il comune di Pieve Emanuele ha intitolato una strada a Peppino Impastato…”. In realtà è una piazza… proprio davanti al Ripamonti Residence di Ligresti :-))) >
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ninoq@email.it wrote:
< Lunardi diceva che con la mafia bisogna convivere, ora Berlusconi (a Messina, il 25 novembre) dice che è in guerra con la mafia. Finalmente ho capito perché siamo andati in Iraq: siamo andati a convivere! >
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L.M. wrote (ad arcoiris):
< A bagheria il 15 maggio 2002 un gruppo di ragazzi di 30-40 persone ha occupato una struttura, La Montagnola, notoriamente conosciuta per gli interessi ad essa connessi. Nasce così il c.s.o.a. Montagnola gestito in maniera indipendente da questi ragazzi. Nell’arco di un mese e mezzo sono state tante le attività svolte all’interno e fuori la struttura, soprattutto campagne informative rivolte alla popolazione bagherese per sollecitarle a prendere atto di come una magnifica struttura come quella potesse tornare in mano ai cittadini e non rimanere in un totale sfracello in balia a teppisti, prostituzione ecc. Dopo questo mese e mezzo i ragazzi della Montagnola subiscono un ATTENTATO MAFIOSO nel quale si è dato fuoco a parte della struttura, a un motore di uno degli occupanti e di un cane che il c.s.o.a teneva, dato che a Bagheria il problema del randagismo è risolto tramite l’avvelenamento dei cani stessi. Nonostante tutti i nostri sforzi per rendere noto l’avvenimento, mai nessuno si è occupato della faccenda, tipo la magistratura o i giornalisti… o la popolazione. Questo messaggio non è che un altro tentativo di far conoscere l’incubo mafioso che i ragazzi di Bagheria sono costretti a vivere ogni giorno.
Bookmark: www.arcoiris.tv
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(Adesso sono nella sede di un Comitato Borsellino giù in Sicilia, è sera e la gente sta finendo di votare per le primarie. I risultati si sapranno fra poche ore, perciò dovrei aspettare un po’ e mandarvi “il pezzo sulle elezioni in Sicilia”. Ma forse è meglio riprendere un vecchio articolo e rimetterlo qui subito senza aspettare il resto. Mi sembra che dica tutto quello che ho da dire anche adesso, comunque vadano le cose qui in Sicilia nelle prossime ore e nel resto d’Italia nei prossimi mesi).
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IL PARTITO DI FALCONE E DEI RAGAZZINI
(Avvenimenti, gennaio 1992)
“Il partito di Falcone e dei ragazzini” non aveva un comitato centrale o uno stemma, ma in realtà era l’unico partito esistente in Sicilia, oltre alla mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dall dichiarazioni dei sindaci che escludevano l’esistenza della mafia nella loro città, dai giornali ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che lavorava chiassosamente all’autodistruzione della sinistra, e dai colpi di pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il liceo Meli, l’Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il Palazzo di Giustizia e il corteo,che fino a quel momento aveva gridato a voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L’altra metà, i liceali. A Catania, fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o nell’altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani: furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare quotidianamente – il volantino,il centro sociale, l’assemblea – per strappargli dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e lottarono, paese per paese e città per città. “La Sicilia non è mafiosa – affermavano orgogliosamente – La Sicilia è militarmente occupata dalla mafia”. La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal padre – boss mafioso – perchè era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha combattuto, che non s’è arresa mai.
Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come partecipazione, come trasversalità, come sociatà civile nasce nelle lotte palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l’unica città d’Italia dove sia cresciuta un’opposizione di massa, dove l’opposizione sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e stampa non riesca – due volte in due anni – a fermare i candidati dell’opposizione. Non è un caso se a Capo d’Orlando i commercianti si ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e prendendosela con loro. Dal 1983 – e sono ormai nove anni – in Sicilia è in atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. – un vero e proprio movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che essa porta con sé.
Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l’anello che mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto. Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio – ma non è una novità, perchè avviene regolarmente ogni settimana – c’è assemblea dei liceali dell’Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non avere paura dello sfascio. Perché sanno che c’è una classe dirigente pronta a prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario – e non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla Chiesa? Sì: ma anche – e soprattutto – Davide Camarrone del liceo Meli, Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani, Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D’Urso: avete mai letto questi nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti uscivano sui giornali, cent’anni fa.
Una metà del “partito” oggi non c’è più. Martelli, il giudice Carnevale, Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d’essere ucciso, era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei “vecchi”, solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson.
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Mr Auden wrote:
< Private faces in public places
Are wiser and nicer
Than public faces in private faces >
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)