13 gennaio 2006 n. 317
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Che farebbe Bill Laden se sbarcasse in Sicilia? Immagino che per prima cosa butterebbe giù le chiese. E che farebbe Provenzano se diventasse – non è più molto probabile: ma chissà – assessore all’edilizia della regione Sicilia? Mah: per prima cosa confermerebbe gli appalti a quelli che li hanno già; ma poi perderebbe almeno una giornata a buttar giù tutte le sedi in cui si riuniscono oppositori, communisti, borsellini e antimafiosi.
A Catania, però, sia Laden che Provenzano resterebbero, da questo punto di vista, disoccupati. Non c’è bisogno di loro per buttar giù le chiese, almeno quelle che danno fastidio ai mafiosi. Stanno cascando già, e il walì di Sicilia – l’emiro Totoh Vasahvasah Bin Kuffar – ne attende ansiosamente la rovina. San Pietro e Paolo, per esempio, ha il tetto che sta letteralmente finendo in testa ai fedeli. Ai primi calcinacci venuti giù i preti, dopo aver messo in sicurezza con tavolati il tetto e transennato la parte di chiesa sotto tiro, hanno immediatamente fatto rapporto a chi di dovere, segnalando danni, pericoli e riparazioni da fare. Spese non tanto da poco, perché la chiesa – a suo tempo tirata su in economia – comincia ad avere problemi non solo nel tetto (che bisogna rifare al più presto) ma anche nei pilastri, che bisogna controllare.
Il rapporto, di mano in mano, è arrivato alle massime autorità siciliane, che proprio in quel periodo stavano stanziando le somme per i restauri delle chiese. Ed ecco il risultato: “Alla chiesa di Sant’Alfio, dueecentoventimila euri per rifare l’illuminazione. A Santa Margherita, altri duecentomila per rifare il pavimento del sagrato e anche la balaustra. A Maria Santissima del Monte, duecentotrentamila. A Piazza Caduti, per un campanile nuovo, quattrocentomila”. E qui il presidente, che a ogni santo finanziato mormorava devotamente una preghiera, s’è calcato il turbante in testa e ha esclamato: “A voi di san Pietro e Paolo niente! Neanche un dinar, neanche un maravedì, maledetti infedeli! Un’altra volta imparerete a mettervi con quel communista di Pietro e quel professionista dell’antimafia di Paolo!”. E solo per le insistenze del visir, che non voleva metterla giù così apertamente davanti a tutti, alla fine: “Va bene – ha concesso – eccovi quindicimila euri di contributo. Tanto con questi non arrivate a pagarvi neanche le impalcature!”
Si riuniscono i cristiani di Catania, nella parte di chiesa su cui non vengono giù i calcinacci, e tutti insieme esaminano (a san Pietro e Paolo la comunità si autogoverna così, in democrazia) la situazione. “Siamo nei guai – fa uno – Qua ci vuole almeno un trecentomila euri. Come facciamo?”. “Vi ricordate – fa un altro – all’inizio all’inizio, quando il prefetto non ci voleva nemmeno fare aprire la chiesa?”. “Eh… – fa un altro – intanto lui se n’è andato e noi siamo ancora qua”. “Infatti! Mica ci siamo presi di panico allora. L’Assemblea la facevamo dove capitava, di nascosto, e intanto raccoglievamo i soldi per fare la chiesa alla faccia sua. Quarantamila sesterzi abbiamo raccolto allora, se vi ricordate”. “Ma perché ce l’avevano con noi?”. “Boh! Storie vecchie. Dice che parlavamo male degli imperatori e montavamo la testa ai poveri. Ogni volta tirano fuori sempre le stesse cose”. “Sentite, non stiamo a perdere tempo – fa una signora – qua ci sono trecentomila euri da trovare. L’imperatore non ce li dà, giustamente, e in fondo non vogliamo nemmeno soldi da lui. Il califfo neppure (e che c’entra lui?) e dubito pure che ci pensi papa Attanasio, che ci ha già tanto da fare coi suoi studi di teologia. Facciamo una colletta”.
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San Pietro e Paolo di Catania, come ogni chiesa che si rispetti, originariamente era un semplice garage. Qui veniva a fare l’Assemblea un prete del tipo che allora si diceva dei “preti-operai” (non una gran novità, visto che originariamente undici preti su dodici erano operai). La chiesa vera e propria, in via Siena, viene tirata su nel 1968-69 e se vi ricordate sono anni abbastanza curiosi. Là dentro, infatti, invece di dire il rosario e scambiarsi i santini della Dc, la gente comincia a prendere strane abitudini: assistere i poveri, accogliere gli emigranti, contestare la guerra e discutere liberamente su tutto quanto. Qualcuno mormorava addirittura che fossero cristiani. Era una chiesa strana, in cui non comandavano i preti ma tutti gli uomini e donne della comunità, indistintamente.
Decidere le cose insieme è la più gran scuola che ci sia per gli esseri umani, quella che ti fa crescere e t’insegna a prenderti le tue responsabilità, da cittadino. Di responsabilità a San Pietro e Paolo se ne presero molte, e raramente erano gratis. Nel ’70, per esempio, bisognò sborsar soldi – tutti insieme, e avendolo collettivamente deciso – per l’oratorio; nell’84 per la scala, nell’85 per il lucernaio, nel 91 per la facciata… Ogni volta arrivavano gli onorevoli per dare l’aiuto “politico” in cambio di una “simpatia”. Ma i nostri cristiani (“dolci come colombe, ma pure furbi come serpenti”) sgamarono l’inghippo: “Meglio far case e scuole, coi soldi pubblici”, risposero ai politici, e tirarono avanti da sè. Non era facile raccogliere centocinquanta milioni, per esempio, a quei tempi erano una bella cifra. Però loro ci riuscirono, famiglia dopo famiglia e mille lire dopo mille lire, e fecero l’oratorio e ripararono la facciata.
E passano gli anni e a Catania arriva – come in tutta la Sicilia – la mafia. Qui è la mafia ferocissima e governante di Santapaola e dei Cavalieri. I Cavalieri hanno i politici, quelli di Santapaola hanno i mitra. C’è un verde pubblico, a poche decine di metri dalla chiesa, che in teoria dovrebbe essere un giardino, ma in pratica Santapaola l’ha sequestrato per farci un deposito di automobili. Le autorità sono d’accordo e i principali politici, onorevoli e prefetto in testa, vanno alle inaugurazioni di Santapaola e della sua concessionaria di macchine (a proposito: era la Renault. Non comprate Renault). Ma un bel mattino, dalla chiesa esce un corteo compatto e timido di persone. Sono i cristiani di san Pietro e Paolo. Senza slogan nè grida, ma senza esitare, traversano quelle decine di metri e vanno dritti alla concessionaria di Santapaola. La occupano. E tirano fuori i cartelli: “Vogliamo il giardino pubblico per i nostri bambini”.
Questo è uno degli episodi che fondano la Resistenza catanese. L’altro è la nascita dei Siciliani, il primo giornale libero e antimafioso e – un anno dopo – l’assassinio del suo direttore, Giuseppe Fava. A san Pietro e Paolo nasce un’associazione civile, Cittainsieme. Ci sono cortei, manifestazioni, pubbliche denunce; minacce, battaglie, crescita di cittadini. Qui nasce per la prima volta la politica, nel senso antico (“polis”) della parola; la prima “primaria” d’Italia, la scelta di un candidato fatta dai cittadini, avviene qui, e l’organizza nei primi anni Novanta proprio Cittainsieme.
Adesso, se vai davanti alla brutta chiesa di via Siena, trovi un via-vai di persone, di ragazzi, di padri di famiglia, di donne, ciascuno dei quali ha una cosa da fare e la fa volentieri, da cittadino. Qua c’è padre Alfio col mezzo toscano in bocca che ascolta con un sorriso amichevole i problemi di un parrocchiano. Là c’è Resca che sta partendo (con la fisarmonica appresso) per il campo scout. Dentro c’è padre Piro, che ormai scende sempre meno perché è vecchio e malato, ma vive serenamente nella sua chiesa. E, tutto attorno, questo brulichìo di ragazze, di giovani, di vite umane, di piccole e grandi cose da vivere che, tutte insieme, costituiscono un popolo – loro dicono il popolo di Dio. Tu, che sei ateo, li guardi sorridendo un attimo e poi torni alle tue parallele e compagne cose da fare.
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Io sono ateo e povero, e dunque – per due ottime ragioni – non ho alcun vincolo di solidarietà con questa gente. Ma tu? Se sei un cristiano (o anche se non lo sei) e stai in Veneto (ma anche a Roma o in Lombardia o dovunque altro) è anche affar tuo tenere in piedi il loro tetto. Loro esistono anche per te. Passano i papi e i cardinali ma questo popolo resta, è lui la Chiesa. E mi dispiace solo per Voltaire che mi guarda perplesso, qua sul mio tavolo, dalla copertina del mio vecchio “Dizionario”.
Info: padre Resca, 095.502230
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Greganti e Consorte. Il primo girava in centoventisette ed era un compagno. Non so cos’abbia fatto per il Partito ma per sè medesimo (Di Pietro sarebbe il primo a riconoscerlo) neanche un soldo. Il secondo, in autoblu con autista, è un grande manager e manda i soldi all’estero. La tragedia non consiste nelle illegalità e nemmeno negli intrallazzi politici ma nella semplice differenza umana fra questi due personaggi.
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Eguaglianza. “Siamo tutti uguali!” disse Al Capone.
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Dei voti che perderemo – non credo tanti – sul caso Unipol il dieci per cento va addebitato alla propaganda (cinica e in malafede: ma con sei televisioni puoi fare tutta la propaganda che vuoi) di destra. Il dieci per cento agli intrallazzi effettivamente commessi da Consorte e da chi gli ha dato mano nel suo partito. L’ottanta per cento va addebitato semplicemente alla coglionaggine dei dirigenti del più abile e navigato partito d’Italia. Quelle telefonate non si dovevano fare non perché fossero illegali ma proprio semplicemente perché erano fesse.
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(Reprint). Libri: Luttwark, “La dittatura del capitalismo”. Strano titolo. Luttwark, per quanto ne sapevamo finora, è uno storico dell’impero (americano, naturalmente; ma col fantasma della “pax romana” che aleggia costantemente fra le pagine, secondo tradizione anglosassone da Gibbon in poi) e ha scritto delle cose molto solide, già negli anni Ottanta, sulla geopolitica militare Usa-Urss. Con troppo Tucidide alle spalle per aderire alla fiction dell'”Impero del male”, Luttwark è tuttavia un sincero propugnatore dell’american way of life in tutti i campi, dalla torta di mele ai marines, un liberale di destra (molto di destra) e, orgogliosamente, un anticomunista. La tesi de “La dittatura”, se abbiamo capito bene, è che il vecchio capitalismo è sfuggito di mano ed è diventato un’altra cosa, che lui chiama “supercapitalismo” e che ha qualcosa a che vedere col sistema de “L’orrore economico” di qualche anno fa (come si chiama l’autrice? perdonatemi, ma scrivo senza materiali).
Qui però non siamo nel dickensiano e nel pamphlet, ma in uno studio socio-economico denso di tabelle. E la vittima, secondo Luttwark, non è il povero del terzo mondo o il giovane disoccupato – è proprio il capitalismo in se stesso: divorato per così dire dall’interno da un nuovo sistema, ancora non bene analizzato, di cui il tratto principale è l’incontrollabilità rispetto a qualsiasi legge e il prevalere di una nuova casta di manager svincolati da qualsiasi rapporto produttivo e/o sociale.
In uno dei primi capitoli cita dettagliatamente, con gran puntiglio di dati, il caso della Boeing. La Boeing è uno dei protagonisti del complesso militare-industriale di cui parlava Eisenhower alla fine del suo mandato. Niente di male, per Luttwark; persino l’obsolescenza della concorrenza e il pericolo del monopolio sono per lui quasi accettabili (per questo parlavo di liberale “di destra) in vista dell’interesse nazionale. A un certo punto, dunque, la Boeing si aggiudica una grossa commessa – cerco di riassumere alla meno peggio – di aerei. Non importa come ci sia riuscita: è comunque un bene per la produzione. La Boeing tuttavia ha difficoltà a star dietro alla commessa nonostante le tecnologie e i ricorso agli straordinari, il personale di fabbrica risulta insufficiente. Emergenza: si rischia di perdere almeno una parte della commessa.
Proprio a questo punto, il supermegamanager decide di licenziare, con gran clamore, alcune migliaia di operai. Quasi immediatamente, la produzione crolla e – come prevedibile – parte della commessa va a farsi benedire. Contemporaneamente, però, in borsa le azioni Boeing salgono alle stelle: la “prova di carattere” data dal managment ha convinto gli investitori (per lo più middle class pulviscolare finanziariamente gestita via computer) che il loro denaro è in buone, anzi in ottime mani. I capi della Boeing – pensa l’azionista – sono dei pessimi industriali, e gettano via i soldi; ma sono degli ottimi finanzieri, che non indietreggiano a nulla pur di aumentarmi il dividendo tagliando i costi.
Questo ragionamento, probabilmente, non può durare molto a lungo ma: 1) una quota significativa delle azioni vengono possedute per un periodo di tempo estremamente limitato, tale da rendere remunerativo il mordi-e-fuggi; 2) il potere e l’interesse personali del top managment sono tali da costituire ormai un fattore significativo nela determinazione delle scelte aziendali. La Boeing, cioè, si concentra nella tattica e abbandona la strategia (il bottino della battaglia si raccoglie subito, e immediatamente dopo si abbandona quella particolare guerra); cessa di essere un’industria e diventa una massa di denaro mobile, ed è rapidissimo il movimento. Il capitale, in particolare, a questo punto non ha più niente a che vedere con le teorie classiche che gli assegnavano un rapporto più o meno stretto coi mezzi di produzione. Il capitalista non è più chi è “proprietario” del capitale ma chi lo gestisce nel breve periodo. E il capitalismo? Boh. Ammesso che ce ne sia ancora solo uno.
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Nel 2006, per la riforma Ocm sottoscritta da Alemanno a Bruxelles, 13 (su 19) zuccherifici italiani chiuderanno. Se l’Europa decide che l’Italia non può più produrre zucchero, pazienza. Ma questo è un problema che si conosceva da anni, e nessuno ha pensato a riconvertire gli stabilimenti chiusi. Bisognerà pagare con la cassa integrazione migliaia di operai per stare a casa. Non è più antieconomico che produrre lo zucchero? E poi: col protocollo di Kyoto siamo indietro e non si produce praticamente per niente energia elettrica da biomasse o biocombustibili. Ma una leggina che favorisca queste produzioni? No, eh? [antonella serafini]
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Ansa. Una pensionata di San Cesareo (Roma) ha citato in giudizio Berlusconi per inadempienza contrattuale. Riguarderebbe il contratto con gli italiani firmato a “Porta a Porta” quattro anni fa. “La mia pensione – sostiene l’anziana signora – non è aumentata affatto e anzi è diminuita un po’”. L’udienza avrà luogo il 28 febbraio dinanzi al giudice di pace.
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Mafiawearuna. E’ il nome di una nuova linea di abiti lanciata da un giovane imprenditore veneto, tale Paolo Rubin. Dice che “Cosa Nostra richiama l’attenzione, nel bene e nel male. Ci fa conoscere all’estero e esprime la voglia della gente comune di arrivare al potere”.
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Ultimo. Il 15 gennaio in diverse città italiane sono stati affissi adesivi in sostegno del capitano Ultimo e in ricordo dell’arresto di Totò Riina, avvenuto esattamente tredici anni fa: “Recuperiamo la nostra libertà, rivendichiamo la nostra dignità offesa, costruiamo una lotta di popolo contro la mafia, la prevaricazione, la violenza e lo sfruttamento; per la legalità, la libertà e la solidarietà. Per costruire dove molti distruggono, per reagire dove molti acconsentono, per respirare dove molti soffocano”.
Bookmark: noallamafia.interfree.it/
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Curriti, curriti cu Rita. Palermo. Si sono riuniti giovedì, nell’aula magna di Lettere e Filosofia, i comitati Rita Presidente di Palermo e provincia. Altre assemblee dei Comitati: il 15 mattina a Catania, all’Arci di via Landolina; il 16 a Enna (alle 15.30) e a Caltanissetta (alle 19); il 17 pomeriggio a Ragusa, alle Acli; il 18 a Messina (ore 14, sala Giunta); il 19 a Siracusa (alle 16 all’Arci); il 20 a Trapani (ore 17.30, all’ Associazione Per le Città che Vogliamo) e il 21 mattina ad Agrigento. Comincia così il “percorso di partecipazione dal basso, finalizzato all’elaborazione collettiva del programma di governo della Regione”.
Bookmark: www.ritapresidente.com, ritapresidente.splinder.com
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a_mazzeo@yahoo.com wrote:
< Domenica 22 manifestazione a Messina contro il Ponte. L’appello della Rete Noponte è su www.terrelibere.it/terrediconfine/?x=completa&riga=01806 >
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Aldo Vincent wrote:
< Su Vincentnews abbiamo raggiunto 6.500 contatti al giorno. E’ un buon risultato. Certo potremmo fare di più. Occorrerebbe mettere un link in ogni nostro blog. Se riuscissimo a costituire una rete di almeno 10.000 contatti, potremmo dire di aver creato un servizio di informazione alternativa” >
Bookmark: vincentnews.splinder.com
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pierluigi.baglioni@fastwebnet.it wrote:
< Ottimo e veritiero il racconto sulle connessioni tra politici e imprenditori edili. Fu una caratteristica dei socialisti della prima republica per finanziarsi le campagne elettorali e competere coi “ricchi” Dc e Pci. Esagerò e incappò in Mani pulite fomentata dal Pci-Pds quando temette che Bettino Craxi insidiasse la sua egemonia dopo il plateale fallimento comunista e dell’Urss. Lo racconto con la memoria autobiografica scaricabile su:
socialisti.brinkster.net/Socialisti%20genovesi.pdf >
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Domenico Stimolo wrote:
< Grazie per il tuo flash di memoria sull’ingegnere M. e sul sacco di Catania. Anch’io, ragazzo o ragazzetto, passeggiando per Via Etnea, vedevo quell’uomo con il doppio cartello di denunzia appeso sul collo. Già, sembrava “buffo”. In quei lontani anni imperversavano sulle strade altri personaggi buffi, tipici della catanesità spocchiosa e ridanciana (della serie il popolo gode mentre il re fa i cazzi suoi): Pippo Pernacchia e Iachino Marletta. Facevano ridere, a “suon di musica di pernacchi” e cà isata da petra. L’ingegnere M., sempre più serio e smagrito, vero eroe civico della città, sembrava, agli occhi del “popolo sonnanbulo”, il terzo della comica cumacca, tanto per completare il trittico allegorico. Il popolo catanese rideva, e Loro trafficavano, accumulando enormi ricchezze con le speculazioni edilizie. Son passati trent’anni, la musica non è cambiata. Comandano sempre i “fioroni”, e la città è sempre lì, sprofondata al 102mo posto nazionale per vivibilità. E l’ing. M., dov’è? In assolutà povertà e solitudine, come sempre succede ai veri eroi civili >
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(La Catena ha saltato una settimana per problemi vari. Ce ne scusiamo con i lettori)
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Gibran wrote (by c.g.):
< Se vuoi rivelarti,
devi
o danzare nudo nel sole
o portare la tua croce.
Per arrivare all’alba,
non c’è altra via
che la notte.
Quando la tua gioia
o il tuo dolore
diventano grandi,
il mondo diventa piccolo >
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)