19 novembre 2007 n. 356
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E’ morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l’ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev’essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo – disse a se stesso – io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.
Così, fece domanda per un posto di parroco nel quartiere più miserabile di Catania, al Pigno. Lo accontentarono rapidamente: non c’erano rivali. Lasciò il palazzo del vescovo, e andò a vivere lì: benedicendo, consigliando, aiutando, difendendo la gente – un prete. Questo per quarant’anni. Poi è morto. Il vescovo ha mandato le condoglianze, sul giornale locale è uscito un trafiletto. La gente del Pigno ha pianto. Tutto qui.
Io, quando l’ho saputo, ho pensato d’istinto al segretario del Pci del mio paese, Tindaro La Rosa. Anche lui, giovane avvocato, aveva piantato tutto per andarsene a stare in mezzo ai contadini. Anche lui, quarant’anni di lotte e fatiche in mezzo ai poveri; uno di loro. Anche lui, come Concetto Greco, era un uomo colto, un intellettuale (padre Greco è stato uno dei primi lettori della Catena. Seguiva gli avvenimenti del mondo; scriveva su internet, la sera); sapeva improvvisare brindisi in rima, citare con proprietà Marx o Croce. Ma questo eccezionalmente, come riandando un attimo – e non senza rimpianto – al mondo da cui era volontariamente uscito. Anche lui, dalla vita, ha avuto un premio solo: i proletari piangevano, al suo funerale. Come per padre Greco, come per i Licausi o i Torres, per tutti quei poveri maestri che a un certo punto hanno deciso di mettere la loro vita là dove mettevano le loro parole.
Questa non è una storia di preti: si parla proprio di noi, di noi intellettuali. Le stesse gite sull’Etna, gli stessi libri, la stessa ingenua ambizione e la stessa pietà umana hanno attraversato la gioventù del ragazzo Concetto e di qualche suo coetaneo “di sinistra” della Catania di allora. Ma non con lo stesso esito: nell’uno ha prevalso la “politica”, nell’altro la pietà. Cioè, marxisticamente, la soprastruttura e la struttura. Di due ragazzi, così, uno diventa un “intellettuale organico” (al proletariato, alla classe) cui Gramsci stringerebbe volentieri la mano; l’altro un mandarino dell’establishment, di destra o “di sinistra” importa poco.
L’illustre professor Barcellona, teorico insigne ma mai visto al Pigno (o contro i cavalieri) è di destra. Il povero padre Greco (ma lui, leggendo “povero”, sorride con ironia) è decisamente la sinistra. E il primo sospira, s’agita, si dibatte (la “crisi del marxismo” e compagnia bella), il secondo tranquillamente va per la sua strada, sapendo che altri andranno avanti dopo di lui. E già in questo momento, nel povero quartiere, ci sono ragazzi che girano, studiano, impaginano il loro giornale: gratis, tranquillamente, per il puro piacere di fare una cosa utile alla loro gente. Un giorno, se avranno tempo, spiegheranno ai compagni “politici” cos’è la rivoluzione. O forse no, perché teorizzare tutto sommato non gl’interessa.
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Tutto questo anche per spiegare perché io non me la sento di partecipare – ma lo dico senza polemica, affettuosamente – alle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dei Siciliani, agli incontri. Ho avuto degli amici bellissimi – Elena con la medaglia di cartone, un giorno che era tornata da una missione difficile, ritagliata ridendo e appesa solennemente al collo come gioco – ma lei ed io sapevamo quant’era meritata davvero, fosse stata anche d’oro – e Miki accanto a Lillo sul camioncino, visi seri e tranquilli, che portava le copie a Roma – non sapevamo se il camion sarebbe stato attaccato lungo la strada – e Claudio che inghiotte duro e passa i pezzi – e Antonio e Fabio e Rosario e Graziella e Cettina e tutti gli altri. Ma ne ho anche altri nuovi. Coi più dei “vecchi”, siamo ormai separati da vite assai diverse: non migliori o peggiori; ma differenti. Graziella è rimasta qui (è grazie a lei che si fa Casablanca), a far le cose di prima; non so se ha fatto meglio lei a continuare o altri a far altre cose; intanto è qui.
Non vengo, alle celebrazioni, perché non ci siamo tutti. I Siciliani erano anche altri, oltre a noi quattro o cinque più conosciuti; ma troppi sono i “non importanti”, i dimenticati. (Noialtri non siamo mai stati un “io”, a quei tempi, o una somma di “io”, ma un “noi” umile e orgoglioso). I Siciliani non siamo stati solo noi ma anche la generazione seguente (Fabio, Rosalba, Gianfranco, Maurizio, Nuccio, Rossana, Vanessa e gli altri trenta), e quella dopo; e ancora oggi, in un certo senso, spuntano nuovi ragazzi dei Siciliani. Non è stata una storia nostra; è stata “anche” nostra, con molte più articolazioni di quel che si crede – i Siciliani, l’Associazione Siciliani, SicilianiGiovani; poi Avvenimenti, l’Alba, di nuovo i Siciliani… – e la differenza è importante (una storia di tanti non può essere folklorizzata e digerita).
Ma soprattutto perché i Siciliani non si celebrano: si fanno. Altri ricordino con nostalgia i “loro tempi”, quando Lotta Continua, quando quella manifestazione, quando il sessantotto… Noi dei Siciliani non abbiamo nessuna nostalgia, niente da ricordare. Per noi non c’è un passato finito, da “ricordare”; c’è un lavoro che sta continuando, un presente, in cui conta poco il singolo, ma ognuno è un preciso anello di una catena, qui ed ora.
Così, in questo momento, non sto facendo nulla di sostanzialmente diverso da venticinque anni fa. Scrivo, organizzo, impagino, cerco di dare una mano. Nulla d’indispensabile, di ”importante”, di “mio”. Ma utile sì, utile e collettivo. Casablanca – ovviamente – non è i Siciliani. Ma ne è una fase, un anello. Prima ci sono state altre cose, poi ce ne saranno altre. Tanti esseri umani vi partecipano, vi hanno partecipato, e vi parteciperanno ancora. E’ riduttivo e perdente cristallizzare un momento, ridurlo a ricordo nostalgico, gettarlo ingenuamente fra le mascelle dei media – che poi lo cacano via a modo loro.
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Il 21, a Catania, “Donne Contro”. Il 22 e 23, “Sbavaglio” numero due. Prima giornata movimenti, antimafia sociale, voci alternative. Seconda giornata, “politici” (capeggiati, tanto per intenderci, da una Lidia Menapace). Se venite, o vi fate sentire, secondo me è buono. Consigli, idee, giro organizzativo – fare rete.
Quanto a Casablanca, la situazione è la seguente: isolatissimi nell’ufficialità a Catania (non so se il prossimo numero lo manderemo ancora qui alle edicole, tanto non lo si vede), sempre più seguiti e solidarizzati su (non ci montiamo la testa: sappiamo benissimo che non è che siamo bravi noi, è che bella la nostra bandiera). Un esempio solo per intenderci: due settimane fa tagliano la luce; due ore dopo, all’insaputa nostra e del tutto per caso, arrivano i soldi per pagarla; li manda il fratello di uno dei nostri giudici uccisi che, avendo saputo che in Sicilia c’è questo certo giornale e ha bisogno di aiuto, immediatamente fa un bel po’ di abbonamenti-sostenitore e li manda, e poi si mette in giro per l’internet a cercarne altri. Né lui sapeva che avevamo tanto bisogno di lui, né noi sapevamo di poterci contare. Ci siamo semplicemente incontrati. Così ci siamo ancora. E camminiamo così, senza sapere dove e con che scarpe, ma sempre avanti, fiduciosamente.
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L’ultima predica di padre Greco
Do’ Vangelu secunnu Luca
Capitàu ‘n sabutu ca Gesù ava
trasutu na casa di unu de’ capi raisi de farisei ppi mangiari
e a gente stava ddà a taliarlu.
Virennu comu li ‘nvitati s’affuddavunu a pigghiarisi i megghiu posti,
ci stampau na lizioni:
“Quannu si ‘mmitatu na ‘n spunsaliziu da corcarunu, non t’assittari ‘o primu postu,
pirchì po’ capitari ca arriva unu cchiù ‘mpurtanti di tia
e chiddu ca v’invitau veni a diriti: susiti, ca ddocu s’assittari st’amicu me.
Allura ti finisci d’assittariti all’ultimu postu, cu’ tantu di mala cumparsa.
‘Nveci, quannu sì mmitatu, si t’assetti all’ultimu postu
vinennu u patruni ‘i casa ti dici: unni ti ‘o mittisti. veni cchiù avanti.
Accussì fai na bedda cumparsa davanti a tutti e ‘mmitati.
Pirchì cuegghiè si senti cacocciula, finisci murtificatu,
e cu s’incala, agghiorna cchiù ‘mpurtanti”.
Poi ci rissi o patruni i casa:
“Quannu ammiti qualcunu a mangiari ni tia,
no ammitari i to’ amici, o i to frati, o i to’ parenti, e mancu genti ricca,
picchì chissi si levunu l’obbligu ammitannuti macari iddi.
O cuntrariu: quannu fai ‘n fistinu, ammita puvireddi, storpi, zoppi e cechi,
accussi si cuntentu di non aspittariti nenti di nuddu.
‘gn’iornu appoi ricivi ‘n ringraziamentu ranni
quannu t’assetti cu tutti l’autri galantomini no’ jornu da risurrezioni”.
Si dici: Parola do Signuri.
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)