10 aprile 2008 n. 358
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La mia Italia
E’ molto tempo che non ci sentiamo, ma questa è una settimana importante. E’ il momento in cui, dopo quasi vent’anni di Weimar, cambia il regime. Vent’anni fa l’Italia esisteva ancora e non solo come espressione geografica, era un paese occidentale retto a democrazia parlamentare; era politicamente diviso fra una sinistra ancora in qualche modo espressione dei lavoratori e un centro democratico-moderato. Era un paese pacifico, che non faceva guerre da cinquant’anni. Aveva una magistratura libera, un inno nazionale, una bandiera. Vi erano sfruttatori, ma non col potere assoluto; politici corrotti molti, ma onnipotente nessuno. I giovani, a un certo punto, cessavano di essere ragazzi e diventavano uomini con dei diritti riconosciuti. Le donne erano pari agli uomini, e questo era ormai senso comune. Nessuno faceva guerre di religione. Religione civile, comune a tutti, era la Liberazione condotta insieme, monarchici e marxisti, operai e ufficiali, contro il nazismo. Milano era Italia, Italia era Napoli, italiani erano i rossi e italiani i neri. Alcuni dei migliori politici – i Moro, i Pertini, i Berlinguer – erano anche, per avventura, i più popolari. Nessuno di loro, oggi, troverebbe posto in una qualsiasi lista elettorale; nè se ne parla più.
Questa era la mia vecchia Repubblica e mi sembra giusto renderle fedelmente omaggio, ora che non c’è più. Nello stesso paese, vent’anni dopo, dei due unici capipartito autorizzati uno fa il pubblico elogio dei mafiosi (“Mangano? E’ un eroe”) e l’altro, in Sicilia, fa scrivere il programma elettorale a un Salvo Andò (“Basta coi professionisti dell’antimafia”). Uno vuol cancellare la Resistenza dai libri di scuola, l’altro s’era dimenticato di includerla nel progrmma del suo partito. Certo: non sono la stessa cosa. C’è sempre differenza fra gli Hitler e gli Hindenburg; non si resta neutrali. Ma i valori terribili, disumani, che ora minacciano di farsi nuovamente regime, non sono stati contrastati e amzi spesso ne ha subito il fascino anche chi doveva morirgli contro.
Così, eccoci qua. Senza far finta di niente cercando impossibili neutralità – si vota, senza se e senza ma, contro Berlusconi – ma senza nulla rimuovere e senza perdonare niente. Votare ora, contestare domani: non saranno i notabili “democratici” a riportare la democrazia in Italia, sarà la generazione che cresce ora. Per essa, faticosamente, cerchiamo di riprendere la penna in mano.
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Elezioni
Per chi vota Mirta Sibiu? Mah, non vota. Primo perché forse nemmeno sa che ci sono le elezioni. E poi perché, essendo zingara, non può votare. Mirta (il nome non è questo, se pure ha un nome) è quella donna che, cinque mesi fa, permise di arrestare l’uomo che aveva appena violato e ucciso un’altra donna a Tor di Quinto. C’era buio nella zona (i lampioni non funzionavano) e neanche un poliziotto, o un cittadino coraggioso, in giro. Lei si buttò alla disperata davanti a un bus che passava, agitando le braccia e urlando. Qualcuno chiamò il 113 col telefonino. Lei continuava a gridare di fare presto, sennò quello scappava.
“Quello” era un rumeno, come lei. Si scatenò il pogrom contro i rumeni. Alcuni furono sprangati per la strada, altri espulsi. La foto mostra una donna anziana, con un sacchetto di plastica in mano, mentre viene spinta da un militare su per un fosso. “Schnell, schnell!”: abbattono tutte le baracche del campo, e anche la sua. I fasci organizzano ronde, i sindaci proclamano che basta coi rumeni; quello di Roma, che proprio in quei giorni sta fondando un suo partito, non è il meno deciso. A Treviso i bambini rumeni vengono aggrediti dai compagnucci ariani, a scuola. A Roma scoppia una bomba in un negozio di rumeni, un frutta-e-verdura.
Dura due settimane, poi tutto torna – non è il trentasei, ci mancherebbe – nella normalità. Mirta, con la normalità, non ci ha molto a che fare. Forse le avranno messo un paio di carte da cento in mano, prima di mandarla via. Forse la sua baracca non l’hanno abbattuta. Non l’hanno invitata ai dibattiti, questo è certo. Nè il presidente Napolitano le ha dato una medaglia al Quirinale, davanti ai corazzieri schierati. Zingara. Una buona zingara, questo sì. Ma sempre zingara resta.
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Nella normalità italiana la violenza è ormai di casa, e così la paura. La violenza (quantomeno culturale) è il principale mezzo di ascesa sociale, di conquista di status o comunque di autoidentificazione. La paura non è più semplicemente la paura fisica, occasionale, ma un’ideologia alimentata, con campagne mirate, sul modello della società di massa degli anni ’30. Il consenso politico si costruisce ormai prevalentemente sulla paura. La gratificazione individuale su questa o quella piccola violazione di regole comuni.
Qualche tempo fa il sindaco di una grande città italiana ha deciso di escludere i bambini non registrati (“clandestini”) dagli asili. La decisione era illegale, e alla fine è stata ritirata. Un giornale locale, nel frattempo, ha sondato i lettori. “Via i bimbi non regolari: hanno fatto bene?”. La risposta è stata, due lettori su tre: sì, hanno fatto bene, è proprio giusto così, noi non abbiamo nessuna pietà umana per i bambini.
Ecco, il cuore della crisi è questo. E’ una crisi etica, cioè profondamente materiale. Weimar non è crollata per colpa del Reichmark, per quanto l’inflazione non fosse certo un problema da poco. E’ crollata perché a un certo punto s’è fatta strada la convinzione che quello con gli occhi neri non è un tedesco, e forse neanche un uomo, ma un’altra cosa. Che ci si può salvare sacrificandolo. Che non si è più una nazione caratterizzata da storie comuni, pensieri, dolori vissuti insieme ma una tribù caratterizzata da questo o quel tatuaggio o sciamano o colore dei capelli.
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In Sicilia i partiti politici sono due, la mafia e l’antimafia. Ciascuno di essi comprende circa un quarto della popolazione, il resto ondeggia. Ma il partito dell’antimafia, in queste elezioni, non esiste. Ciascuno dei suoi notabili, persino dei più coraggiosi, in un momento o nell’altro ha deciso di correre da solo. Non s’è stata la lista Borsellino-Crocetta-Lumia-Fava e nemmeno – come due anni fa – la bandiera Borsellino. Ognuno (appoggiato a una forza esterna) per sè, e Dio per tutti. Il partito della mafia invece è rimasto unito.
Eppure sarebbe stato esattamente il momento di farlo, il fronte antimafioso: la gente s’era pur mossa, a Palermo, contro Cuffaro; e già una breccia era aperta nel fronte avverso, coi giovani di destra schierati per la prima volta contro Cuffaro. Nessuno ha voluto cogliere l’occasione. S’è preferito “far politica” nel senso più perdente della parola. Due anni fa l’antimafia portò al centrosinistra un aumento di circa l’otto per cento, dopo una campagna allegra ed entusiasta (con molti giovani, fra cui quelli del Rita Express, stupidamente trascurati dopo).
Non credo che ciò si ripeterà ora. Non in una situazione in si candidano i Crisafulli e si buttano fuori i Dalla Chiesa. L’antimafia è una cosa seria, è un programma politico e non una dichiarazione di buoni sentimenti. Se si rinuncia – come si è fatto – a questo programma non solo si perde ma si perde male.
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Che fare? Conosco compagni che voteranno per Veltroni “turandosi il naso” per pura e semplice paura del fascismo – non a torto, viste le posizioni ormai apertamente fasciste di Berlusconi.
E conosco gente anziana, compagni niente estremisti, che dicono di non voler votare perché “se quello vuol correre da solo e buttare via il premio di maggioranza vuol dire che per lui l’importante è fottere la sinistra e non battere Berlusconi”.
Io concordo con l’analisi, ma non con le conclusioni. Votare bisogna lo stesso, quantomeno per dignità. Votare per Veltroni nella speranza che superi da solo Berlusconi. Votare Arcobaleno nella speranza (non facile) che oltre a sopravvivere la sinistra riesca finalmente a uscire dalla cripta in cui s’è rinchiusa. Votare Beppe Grillo (in Sicilia c’è) nonostante l’inaffidabilità della candidata che nel suo comune ha già regalato – per egocentrismo – la vittoria ai mafiosi. Votare Di Pietro, nella speranza che stavolta i suoi eletti non passino il giorno dopo con Berlusconi. Votare i socialisti, sperando che finalmente abbiano imparato a distinguere fra Proudhon e Arsenio Lupin. Votare sinistra critica, alla peggio, sempre meglio di scheda bianca. Nessuno di questi voti è tecnicamente molto utile, nessuno ha più di tanto a che fare con la politica fondamentale della Sicilia, che è l’antimafia. Ma sono altrettanti modi di dire “io ci sono, non abbandono la lotta solo perché i miei generali hanno tradito”.
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E cosa diciamo ai giovani? Sembrerebbe la cosa più difficile ma in realtà è molto semplice: continuiamo a fare il nostro dovere. Il lavoro nei quartieri, i giornali, l’organizazione, i siti, tutta la piccola rete che insieme facciamo crescere ogni giorno, questo non dev’essere neanche per un istante rallentato. “Voi avete rovinato l’Italia, noi la la ricostruiremo”. Queste parole furono dette, molti anni fa, in una situazione ancora più difficile dell’attuale. Anche allora la sinistra, fra rinnegamenti e arroganza, si squagliava e la destra sembrava invincibile e destinata all’avvenire. Ma alla fine, con fatica e costanza, si è ricostruito. Ciascuna delle piccole cose che facciamo oggi serve a questo. Non sono battaglie simboliche, di retroguardia, per dire “facciamo qualcosa”. Sono esattamente i tasselli da cui, fra molti o pochi anni, sarà alla fine composta la sinistra nuova.
Non estraniamoci dalle elezioni, ma con la consapevolezza che il lavoro da fare è soprattutto dopo. E che in questo lavoro saremo soli perché i vecchi, anche quelli che non avranno tradito, difficilmente avranno la forza di rimettersi in piedi. Ci sarà confusione, con gli oligarchi che proclameranno di essere loro l’unica speranza rimasta e i delinquenti che grideranno al popolo “libertà! viva la cuccagna!”. Ma voi non vi lascerete confondere, continuerete ad essere umani, fedeli alla concretezza delle piccole cose. Il giorno dopo le elezioni, comunque vadano, comincia l’esame di cittadini – e di uomini – per questa generazione.
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Prodi
Il 21 febbraio s’è riunita la commissione per la verifica degli eletti al Senato. In discussione ci sono nove ricorsi contro altrettanti senatori di destra; si ritiene unanimemente che ne verranno accolti quattro, presentati da socialisti e radicali. Ago della bilancia quindi diventeranno Pannella e Boselli e non più Mastella. Inopinatamente, però, i commissari del Partito democratico votano insieme con quelli del Polo della Libertà e tutti i nove ricorsi vengono respinti. Da quel momento Mastella diventa arbitro della situazione. L’indomani fa cadere il governo. Si apre una campagna elettorale di difficile interpretazione, in cui l’unico dato certo è che il Pd e Berlusconi assorbono o emarginano, nelle rispettive aree, tutti gli alleati.
In sostanza democratici e forzisti hanno deciso insieme di dare i pieni poteri a Mastella sulla sopravvivenza del governo Prodi. E così è terminata l’unica esperienza vincente di coalizione progressista in Italia. L’Ulivo cancellato dalla memoria, Prodi buttato fuori dalla politica, l’allegra compagnia marcia avanti: “Vinceremo!”.
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Feudatari
Chi ha detto che il medioevo è finito? Ancora oggi privilegi, titoli nobiliari e feudi televisivi fanno la differenza tra plebei e nobili come Sveva Fede, figlia del più noto Emilio, che si è considerata al di sopra del codice della strada. Forse non ha tutti i torti, visto che anche il suo babbo continua a trasmettere senza assegnazione di frequenza, facendo marameo alla legge che in teoria lo avrebbe spedito sul satellite già dal 1997, e alle emittenti che hanno avuto in concessione le frequenze che lui occupa abusivamente come uno squatter dell’etere. Se fossi figlio di Fede, anch’io sarei tentato di fare un po’ il cavolo che mi pare, considerando l’Italia come una enorme casa delle libertà a mia disposizione.
Una tentazione simile l’avrà avuta sicuramente anche Sveva, che il 15 marzo, stando a quanto riportato sul “Gazzettino” di Belluno, è stata fermata dai vigili urbani a Cortina “per aver imboccato un senso vietato alla guida di un veicolo non sottoposto a revisione, e per giunta con un bambino piccolo sul sedile posteriore senza le protezioni”. Secondo le note di cronaca Sveva avrebbe reagito “in maniera tale da far riempire un verbale di cinque pagine, dove compaiono tra l’altro ingiurie e minacce”. E di fronte a queste cinque pagine si sono mobilitati ben due tribunali: il primo è quello che fa riferimento alla Procura di Belluno, che sta studiando il fascicolo, e il secondo è il tribunale popolare di Emilio Fede, che il giorno successivo al verbale ha scatenato sul TG4 una campagna personale di denigrazione contro il corpo della polizia municipale.
Dopo una raffica di servizi contro i vigili Fede è riuscito anche a a litigare in diretta con Mario Assirelli, del sindacato di polizia Sulpm. Il commento più caustico a questa incresciosa vicenda è quello prodotto da “zebra3”, un anonimo vigile urbano che frequenta il forum “La polizia e il cittadino” su www.comuni.it. “Fede ha fatto incazzare un’intera categoria di circa 55.000 persone in periodo elettorale: un genio!”. [carlo gubitosa]
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Da questa settimana la Catena riprende. Non si può stare zitti ora, e ancor meno lo si potrà nei prossimi mesi.
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Polis
La nostra è una Città in cui si lavora:
a comandare, è il popolo e la Legge.
Ciascuno di noi tutti ha dei diritti,
quand’è insieme con altri, e quando è solo;
ciascuno di noi tutti ha dei doveri.
Nella Città non c’è uomo nè donna,
miscredente o fedele, bianco o nero.
I cittadini sono uguali. Tutti
vivano nella loro dignità,
nè miseri, nè troppo ricchi: a ognuno
fraterna dia il suo aiuto la Città.
Chi pensa, chi produce, chi lavora,
ognuno dia una mano alla Città:
lei vuole che nessun rimanga fuori
per la pigrizia o per la povertà.
È una la Città, ma il cittadino
è diverso un dall’altro, al suo paese,
nel suo nord, nel suo sud, nel suo dialetto:
la Città non ci vuole fatti a schiera.
Legge di dei non è legge civile:
qui, ciascuno rispetti il dio d’altrui.
I boschi, l’aria libera, i poeti,
i maestri che insegnano, il sapere
sono il nostro tesoro: la Città
per tutti loro è vita e libertà.
Non barbari, ma uomini civili
noi rispettiamo ogni altra città.
Ma chi fugge dai barbari, qui trovi
casa fraterna, asilo e carità:
guai a chi lo scaccia! Offende tutti noi.
Non sia guerra fra umani, uomini!, mai.
Ragionate piuttosto: noi vogliamo
essere i primi a ragionare, e andiamo
nel mondo in amicizia e libertà.
Nei giorni duri, abbiamo una bandiera
che ci ricorda: siamo una Città.
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)