San Libero – 388

Nessuno propone la soluzione più logica (nazionalizzare la Trabant e
metterla in mano agli ingegneri) anche perché, in teoria, la fabbrica
è già nazionalizzata: vive dei soldi pubblici, produce pessime
macchine ed è gestita da gente che di partito s’intende forse, ma di
automobili assai meno. Gli unici rimedi che conoscono sono: uno, più
sacrifici; due, più polizia.

Esattamente la situazione della Fiat. Cacciati gl’ingegneri dai
vertici (qualcuno si ricorda ancora di Ghidella?), sostituiti da gente
fidata del Partito (Romiti nell’88, adesso l’ineffabile Marchionne),
le macchine vengono male e nessuno ne vuole.

Fra tutte le consolidate auto europee, la Fiat è quella (- 26 per
cento) che va peggio. Non per colpa dei coreani o dei cinesi: soffre
Psa, Volkswagen, le europee.

Buttare fuori a calci il compagno Marchionnov? Non se ne parla
nemmeno. Sacrifici, licenziamenti e, se qualcuno protesta, polizia. E
siccome qui in Unione Sovietica c’è un partito solo, nessuno
seriamente protesta (seriamente vuol dire vendita forzata o
nazionalizzazione).

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Cose Nostre

Trasferito d’autorità un poliziotto, Raffaele Mascia, che faceva
indagini sulle infiltrazioni mafiose in città.
Minacciato (testa di capretto mozzata) un compagno, Roberto
Giurastante, che faceva inchieste sui traffici di rifiuti nella
regione.
Queste due notizie vengono, rispettivamente, da Imperia e da Trieste.

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Il Quarto Reich di Brighella

Che fa un capo dello Stato riformista anzi semplicemente democratico
anzi, mi voglio rovinare, addirittura conservatore e di destra se il
sindaco di un paese propugna la superiorità della razza bianca locale
e vuole insegnarla per forza ai bambini innocenti delle scuole? Manda
messaggi? Si appella alla buona volontà di un minisstro? Lascia
intendere che forse non va bene?.Manda direttamente la truppa, reparti
delle Forze armate, che disperde la folla razzista a calcio di fucile
e fa ala ai bambini neri.

Non l’ha fatto Di Pietro o Vendola e nemmeno Bersani. L’ha fatto un
presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Eisenhower,, a Little
Rock nell’Arkansas nell’autunno del ’57. Pochi anni dopo, nel ’62, fu
Kennedy a mandare quattrocento federali nel Mississippi, dove i
razzisti locali – governatore in testa – pretendevano di fare i
razzisti nell’università.

Anche qui, le baionette spianate e qualche buon spintone fecero un
buon lavoro. Ad Adro, nel Quarto Reich di Brighella, il sindaco
ribelle e razzista invece è ancora lì.

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La vera notizia

«La vera notizia a me l’ha detta Eva, una ragazza del Centro per
disabili con cui lavoro – racconta Mauro Biani – “Hai sentito? – mi ha
detto – Sakineh non l’ammazzano più, la impiccano”. Una frase che
vale più di cento editoriali»

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Giudici a Berlino

Qua in Sicilia, a Catania i giudici non hanno la tradizione di
Palermo. Un modo eufemistico per dire che negli anni 70 mettevano in
galera l’ingegnere Mignemi che denunciava scandali edilizi, negli anni
’80 indagavano sui conti di Giuseppe Fava, negli anni ’90 coprivano i
Cavalieri e un paio di anni fa non si accorgevano che i Santapaola
scrivevano editoriali sui giornali di Ciancio.
Qualche giorno fa, fra la sorpresa generale, sono piombati sull’unico
giornale non di Ciancio della Città, Sud, che – a quanto avevano
sentito dire – aveva intenzione di parlar male del presidente
Lombardo.

Sarebbe bellissimo se Catania prima o poi diventasse una città
normale, a cominciare dal Palazzo di Giustizia e da coloro che
l’abitano. Non sembra un momento vicino.
Ci sono magistrati borbonici (quelli cresciuti col vecchio Di Natale:
il persecutore di Fava, per intenderci), ci sono magistrati liberal
(quelli del caso Catania di qualche anno fa: i persecutori di Scidà,
per intenderci).

Tutt’e due, fra di loro, si fanno a quanto pare una gran guerra, dando
notizie, negandole, incriminandosi – per interposta persona – a
vicenda, ciascuno coi suoi notabili, i suoi amici, le sue bestie nere.
Noi (salva la solidarietà coi colleghi di Sud – solo i colleghi) noi
non c’entriamo, siamo di un altro mondo, forse – ci pare a volte – di
un altro pianeta.

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Parlare di “politica”? Bravo chi ci riesce

E’ diventato impossibile parlare di “politica” perché ormai la
divaricazione fra il mondo Vip e quello nostro è tale, che pare di
ragionare con gente di pianeti diversi.
I nostri problemi (di noi di questo pianeta) sono i seguenti:

1) E’ morto il sistema industriale con cui l’Italia era uscita dal
Terzo Mondo. Morto ammazzato, con l’eliminazione di Keynes, la fine
(teorizzata) del sindacato, la riduzione (proclamata) del rapporto di
lavoro a mero fatto occupazionale, “militare”. Tutto ciò,
naturalmente, ricaccerebbe in dieci anni l’Italia fuori dell’Occidente
(l’Argentina “prima” era un paese prospero e avanzato) ma ai grandi
manager non gliene frega niente perché loro – individualmente e come
ceto – non sono italiani, sono multinazionali. La Fiat, che comanda in
Italia, non è italiana affatto.

2) Il potere politico (anzitutto la finanza, e poi anche la “politica”
e le regioni) in metà del Paese è tout-court mafioso e nell’altra metà
assedia le poche roccaforti ancora indipendenti.

A questi due problemi, ciascuno dei quali basterebbe a a distruggerci
come Nazione, si aggiunge quello della Lega, cioè di un potere
dichiaratamente eversivo che siede alla pari con gli altri poteri.
Le interviste di Bossi qui non ci fanno ridere affatto; ci fanno
pensare invece a titoli del tipo “Il Presidente della Repubblica (o il
sindaco di Peretola, o l’ambasciatore del Belgio, o chi volete voi) si
è incontrato ieri col capo delle Brigate Rosse Renato Curcio” ecc.

I danni della Lega risultano per fortuna limitati dalla sua povertà
culturale. Riesce semplicemente ad assorbire e “politicizzare”
inciviltà preesistenti. In più, tradisce il nord – senza neanche
accorgersene – aprendo le porte alla mafia, che per lei è
semplicemente uno dei tanti poteri con cui far “politica” furbesca
all’italiana.
(Senza accorgersene, certamente. Ma si è accorta benissimo, e l’ha
portato a fine cinicamente, del primo tradimento, quello fondativo,
con cui ha permesso la deindustrializzazione del nord svendendo
cent’anni e passa di civiltà – operaia e industriale – questa sì
“padana”).

Di questi due problemi (due e mezzo) nella “politica” italiana non si
ritrova traccia, se non formale. La Fiat non ha avuto oppositori.
L’Espresso dedica una copertina molto benevola a Marchionne (e questi
sono i liberal, figuriamoci gli altri). Il resto degl’industriali s’è
già accodato.
Quanto alla mafia…beh, lasciamo andare.

Soltanto nelle assemblee dei ragazzi, oramai, si trova la politica
reale. Nel paesino sperduto, alla prima assemblea antimafiosa, vengono
rudimentalmente dibattuti i problemi reali del Paese. A Roma no. Nei
convegni, nelle redazioni, nei precongressi, nei partiti si parla
sempre e disperatamente – weimarianamente – d’altro. E uno dovrebbe
mettersi seriamente a commentare il nuovo partito, o non-partito, di
Veltroni, o la precisazione di Chiamparino, o l’ultima intervista di
Renzi,?

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Il dopo-Ciancio

A Catania, una buona notizia (una notizia improvvisa, eppure attesa):
è nato un giornale nuovo, al di fuori di Ciancio, e per la prima volta
non è uno di quelli fatti da noi ma ha degli imprenditori che lo
finanziano.
La notizia non è il giornale (si chiama “Sud”; il direttore, non
nostro, è un bravo ragazzo; esce ogni due settimane), la notizia sono
gli imprenditori. Per la prima volta dopo secoli degli imprenditori
catanesi si son tirati su mutande e brache e hanno timidamente
iniziato a fare il loro mestiere.

Questa è una svolta. Comincia, con questa piccola storia, il dopo-Ciancio.
Ci coglie con sentimenti diversi: simpatia, diffidenza, sorrisi,
scuotimenti di testa…
Adesso, il cammino sarà in discesa. Non sarà breve o facile, ma sarà
la seconda parte della strada. La prima è durata venticinque anni.

Io spero che i colleghi di “Sud”, e persino i loro imprenditori,
abbiano un buon successo in questa impresa, che certo non sopravvaluto
ma nemmeno voglio sottovalutare. Il suo valore di segnale è
indiscutibile, conferma le nostre analisi, c’incoraggia nel lavoro; ma
potrà avere anche – lo vedremo nei prossimi mesi – un buon peso anche
di per sé, giornalisticamente; ed è ciò che auguriamo.

Quanto a noi, abbiamo avuto una fortuna grandissima in tutti questi
anni ed è stata quella di avere accanto – dopo il gruppo iniziale dei
Siciliani – dei colleghi e compagni molto superiori a quel che
meritavamo. Coraggiosi, costanti, solidali, amici: nello sfacelo
generale, essi pochi hanno tenuto duro. E sono ancora qui al loro
posto, all’inizio – speriamo – di una stagione meno dura, nata
soprattutto grazie a loro

Non mi ricordo più, alle volte, qual era l’obbiettivo finale dei
Siciliani. Forse semplicemente questo: essere degni del nome, essere i
Siciliani. Non c’è dubbio che Fabio, Graziella, Piero, Giovanni, Toti,
Maurizio, Luca, Sonia, Massimiliano, Lillo, Sebastiano e tutti gli
altri l’abbiano conseguito.

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Sei amici

Il dottore Nastasi, veterinario, s’era fatto tutta la ritirata di
Russia a piedi, con gli alpini. Mio padre aveva la rotula sinistra di
metallo, completamente ricostruita, e varie schegge non estraibili in
corpo. L’altro Nastasi, quello che insegnava ginnastica, s’era fatto
Grecia, Libia e Albania. Idem Alfano e Ruvolo, tutti in fanteria.
Ghetti, un anno e mezzo nei sommergibili: ne tornarono una decina, dei
sottomarini atlantici, e “alla parata di Napoli eravamo ottantuno”. Di
questi sei amici non ce n’era uno che non bestemmiasse quando sentiva
“gerarchi” e “mussolini”.

Nessuno di questi sei era pacifista, nel senso che intendete voi
adesso. Ma odiavano la guerra e chiunque ne parlasse bene. “La guerra,
la guerra…”. “Eh. Non potete capire, voi giovani, quant’è bella la
pace”. Uno sospirava, l’altro tirava un colpo di toscano.

Non si sono mai fatti guardare, da me bambino, come eroi. Stavano anzi
molto attenti a non farlo. Di tutta la guerra, l’unica racconto che ho
di mio padre è delle sigarette che s’erano scambiati, sotto la tenda
dell’ospedale da campo, con il maggiore inglese che forse l’aveva
ferito. E un’altra volta in cui, con tutti noi bambini a naso in su
davanti ai premi del tiro a segno, dopo lunga esitazione e
vergognandosi prese la carabina ad ariacompressa e a uno a uno li
buttò giu tutti. “Ero tiratore scelto” mormorò come scusandosi,
distribuendo le bambole e gli orsacchiotti di pezza.

Non so quante ferite e medaglie avessero quei sei amici, tutti
insieme. Ma mi hanno insegnato la pace, poiché erano dei soldati.
OggiAggiungi un appuntamento per oggigiorno un politico – culomolle, gerarca, mai stato al fuoco, mai
rischiata la pelle per il suo paese – vorrebbe invece insegnare la
guerra (peggio: giocare alla guerra) ai ragazzini. Ma mio padre e i
suoi amici, nelle loro varie e diverse idee politiche, concordemente
avrebbero avuto orrore di lui.

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I termini della questione

Angelo Vassallo, Nicola Cosentino.
Pio La Torre, Vito Ciancimino.
Piero Gobetti, Amerigo Dumini.
Questi sono i termini della questione qui ed ora.
Se siamo ancora in politica, il tipo di politica in cui siamo è questo.

* * *

Il regime uccide i suoi oppositori. Non ci sono ordini dall’alto. Ma
non ce n’erano neanche prima. Non è stato Mussolini a ordinare di
uccidere don Minzoni. Non è stato Ciancimino a dare l’ordine di
uccidere Peppino Impastato. Ma quelle uccisioni erano “necessarie”,
erano nella struttura intima di tutto un regime.

Per quale motivo il sistema mafioso (che comprendeva, allora, vertici
della Dc siciliana) avrebbe dovuto non uccidere uno come Impastato:
che pericoli c’erano a farlo? Un lottacontinua d paese: chi se ne
sarebbe accorto? E che guai srebbero mai potuti venire dall’uccisione
di un povero prete di campagna come don Minzoni? Tutt’e due
dannosissimi, localmente. Facili da soffiare. Davvero c’era bisogno di
andare a chiedere gli ordini al Capo, di disturbarlo per così poco?

Però Badalamenti era uno degli pilastri palermitani – con Spatola –
dell’era democristiana. Però Italo Balbo era uno dei quattro
“quadrumviri” del regime. E il capo dei berlusconiani in Campania è un
uomo intercettato in conversazioni servili con camorristi, ed è ancora
un gerarca, ed è Cosentino.
Fra tutti, è stato ancora Don Ciotti a dire la cosa giusta. “Fermatevi
tutti un attimo, alla stessa ora, per ricordare Vassallo”. Che frase
semplice e “apolitica”, da prete. Che frase profondamente politica,
rivoluzionaria, da – negli anni Venti – “comunista”.

“Sciopero generale, contro il fascismo, un attimo di silenzio e
ricordo per Matteotti!”. Questo ha detto don Ciotti, con le sue
parole. Sciopero per un attimo, perché questo siamo in grado di fare
ora. Solo un attimo. Ma basta, se è un attimo tutti insieme. Perché ci
vuole poco a trasformare quel momento in un’ora, e quell’ora in un
giorno, e quel giorno in uno
“Sciopero generale contro la mafia – contro il fascismo”.

Ecco, la politica è questa. Qui ed ora è questa – lo sciopero generale
contro il regime -, la politica che ci serve, non la trattativa. Non
sono Del Bono e Vecchi, non è Federzoni e non è Ciano – non è nemmeno
Sua Maestà il Re e imperatore – il nostro interlocutore. E’ quel
ragazzo che organizza quel mometno di sciopero – solo un momento, ora
– nella sua scuola. E’ quel sindacalista che si ricorda dei suoi
antichi (“No al fascio – pane e libertà”). E’ quel muratore rumeno –
tutti i muratori di Roma sono rumeni oggiAggiungi un appuntamento per oggigiorno, come già un tempo
erano tutti meridionali terroni, o tutti burini – che non sciopererà,
adesso, ma per un attimo bofonchierà qualcosa al compagno vicino, là
sull’impalcatura.

(Dimenticavo. Vassallo era un esponente dell’odiato “Pi Di meno Elle”,
esattamente come Matteotti era un “traditore riformista” e Pio La
Torre un “moderato” del Pci. “Uniti si vince” dicevamo ua volta,
quando si vinceva).

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Parlando di noi

Caro G. e cari tutti,
mi dispiace molto di non poterci essere ora, vi seguo con attenzione e
vi auguro buon lavoro.
Buon *lavoro*, non buona commemorazione o buona autoconsolazione o
buona ripetizione delle cose che già tutti sappiamo. E nemmeno – ma
questo a voi non c’è proprio bisogno di dirlo – buona
autoglorificazione, una categoria che un tempo era quasi assente e ora
ahimè è fin troppo presente nelle occasioni pubbliche dell’antimafia.

Lavorare vuol dire non essere nè geni nè eroi, e anzi guardarsi
accuratamente dall’esserlo e considerare con diffidenza un uso troppo
frequente di queste parole. Le guerre le vincono i comuni soldati – e
la vostra è una guerra – e non i generali e neppure i cavalieri a
cavallo. Bisogna che vi abituiate subito a pensare così, per quanto
fuori moda sia; a lavorare pazientemente e modestamente, ma con
serietà e con costanza, senza grandi parole ma senza mollare mai
nemmeno per un istante. Ma questa nel caso vostro è una predica
superflua, visto che vi conosco e so che persone siete. Diciamo che è
una cosa in più, un pericolo che vi segnalo.

Certo, potrà capitarvi (è capitato ad alcuni dei presenti) di dovere
affrontare situazioni durissime, momenti in cui – come si dice – non è
neanche sicuro di riportare a casa la pelle. Ma se vi toccheranno
affrontatele senza tante parole, come un muratore su un’impalcatura
difficile o un ferroviere su una linea rischiosa. Noi siamo stati
così, Pippo Fava è stato così. Se volete imitarlo – ed è bello imitare
uno come Pippo Fava – cominciate da questo: niente grandi parole!

E un’altra cosa vorrei dirvi, un’altra cosa un po’ anomala, del
Direttore: non era un giornalista d’inchiesta. Lo era stato a suo
tempo (con Liggio, con Genco Russo, coi mafiosi di allora) ma non
quando ha diretto i Siciliani. E allora perché l’hanno ammazzato?
Perchè non Claudio o me o Miki, che invece le inchieste le facevamo
proprio allora?

Perché il giornalismo d’inchiesta non è che una parte del giornalismo,
e nemmeno la parte principale. La parte principale è quella (fra
virgolette) “politica” ed è come leader politico che Pippo Fava è
stato ucciso. Ma come, i leader politici vanno in giro così, senza
potere nè cravatta, senza nemmeno un partito cui appartenere?

Proprio così. La politica vera è raccontare i dolori della gente, e
le loro speranze, e i volti dei potenti che l’opprimono, con arte,
mettendoci tutti se stessi, cervello e cuore. Allora, e soltanto
allora, la verità colpisce davvero.
Tra voi ci sono tre ottimi giornalisti – Carlo, Graziella e Pino – che
hanno pagato moltissimo per quello che hanno fatto. Hanno fatto
inchieste bellissime ma ciò che non gli è stato perdonato è stato
prima di tutto il loro ruolo “politico” e civile.
Quando Graziella non solo indaga su un episodio ma anche organizza i
Siciliani, quando Carlo si fa esempio vivente di rottura dell’omertà
del notabilato locale, quando Pino non solo denuncia i Fardazza ma li
schernisce e porta la gente a ridere di loro, ebbene, questa è
politica e questi sono i nostri militanti politici, non solo e non
principalmente i nostri giornalisti. Bravi, concreti, complessivi e
quindi non digeribili in alcun modo. “Pericolosi”.

E così spero si possa dire di voi, in tutti i campi. Un saluto
affettuoso e ancora buon lavoro.

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Peppe Sini <nbawac[at]tin.it > wrote:

< Il governo del colpo di stato razzista è ipso facto un governo
fuorilegge, avendo violato la Costituzione della Repubblica Italiana
ed i fondamenti stessi dello stato di diritto.
Occorre ottenere le dimissioni del governo del colpo di stato
razzista; e non attraverso una congiura di palazzo, ma attraverso una
insurrezione nonviolenta del popolo italiano in difesa dei diritti
umani di tutti gli esseri umani.
Dimissioni immediate del governo hitleriano della guerra e del
razzismo, delle stragi e delle persecuzioni, dell’anomia e della
barbarie.
Viva la Costituzione della Repubblica Italiana! >

________________________________________

Tindaro La Rosa, sindacalista siciliano, wrote:

Non siamo tutti gli stessi

< Una sola cosa accomuna gli uomini:
la morte dopo la vita;
ma nessuna cosa accomuna tutti
nella vita.
La politica aggrega,
ma nella diversità di scelte;
educa sul come vivere,
organizzarsi e agire.

Non siamo e non potremo mai essere
tutti gli stessi,
perchè partiamo da posizioni tanto diverse
per andare in direzioni tanto diverse,
per raggiungere obiettivi distanti
e contrastanti.

Non siamo tutti gli stessi
e non è vero che sono tutti gli stessi,
sia sul piano generale che particolare,
sia collettivamente
che individualmente >

________________________________________

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