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Ma davvero voi italiani…
Ma davvero lo state cacciando per una storia di troie? E la Fiat? E la mafia? E tutto il resto?
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“Pidduista Piscitello, presente!”
“Porca mafia! Porci pidduisti! Bestia d’un…! E bestia io che mi ci son messo!”. Come ogni sabato, il pidduista scelto Antonio Piscitello, impiegato di terza classe al municipio di Caloria,: bestemmiava attorno agli stivali della divisa. “Che hai?” urlò, come tutti i sabati, la signora Assunta. “Ho, ho… Ho che questi porci stivali… Porca Piddue! Porco chi l’ha inventata e porco Berlu…”. “Zitto, imbecille! Ci vuoi rovinare?”. Con un sospiro, la signora Assunta prese il calzastivali, s’inginocchiò accanto al marito e alla fine fra tutt’e due, come Dio volle, riuscirono a farcelo entrare.
Sul pianerottolo, Piscitello si fece da parte per lasciare passare il capomanipolo Pasquarelli: “Piscitello! A chi l’Italia?”. “A noi!”. In piazza, la solita solfa: “Berluschistiiii… A noi!”. “Pidduistiiii! Saluto al Capo!”. “Pidduistiiiii… Saluto al Presidente!”. Discorsi, impero, Somalia italiana, Albania italiana, Medioriente italiano, Giovinezza, Marcia presidenziale e poi finalmente tutti a casa.
A casa – come ogni sabato – Piscitello si stravacca faticosamente sulla sua poltrona, la signora Assunta gli toglie faticosamente gli stivali, e poi il rito finale: la signora va a prendere il ritratto a colori del Presidente, lo regge – pur continuando a protestare – a braccia tese davanti a Piscitello, e Piscitello (“Porco che non sei altro! E io più porco di te che ti sto dietro!”) ci sputa sopra. Infine il ritratto, debitamente pulito col panno, vien riportato in salotto, e Piscitello sprofonda davanti alla seicentodiciottesima puntata del “Grande Fratello”.
Colla Piddue, a dire il vero, Piscitello – alieno dalla politica com’era – non ci aveva mai avuto a che fare. Ma sessantacinque euri al mese sono sessantacinqueeuri, e la signora Assunta, a furia di conoscenze e di buone parole, era riuscita a farlo iscrivere lo stesso. “Tieni! E ringrazia il cugino Battista che te l’ha fatto avere!”.
Il brevetto di pidduista, a Piscitello, gli era costato duecentomila lire, perchè il cugino Onofrio, ex-socialista, aveva voluto il suo interesse in contanti. In compenso, lo aveva fatto iscrivere come pidduista della prima ora.
Così, adesso, gli toccava anche stare a sentire il capufficio Brunetti che lo mandava a chiamare quand’era di buonumore: “Noi vecchi pidduisti – faceva – noi che l’abbiamo duro… eh, Piscitello? Noi che sappiamo cosa vuol dire combattere… Perchè dovete imparare, voialtri giovanotti, che cosa voleva dire fare i pidduisti una volta! Come si chiamava quel giudice, quella testa di… quel Borrelli, ecco! Ce n’è voluta per levarci di torno la gente come lui… eh, Piscitello?”. E Piscitello annuiva.
“Quel Borrelli! Ma ha fatto la fine che meritava, alla fine. E quel Woodcock! E quella Boccassini! Ce n’è voluta, eh, Piscitello? No, no, non fate questa faccia, camerati. Lo so anch’io che ‘sti nomi non si potrebbero dire. Ma fra noialtri pidduisti…”.
“Camerata Brunetti, la sapete l’ultima sul camerata Calderoli? Dunque: il camerata Calderoli va a Washington per una visita di Stato…”. Ma a questo punto il capufficio Brunetti tossiva severamente, e tutti si rimettevano al lavoro.
Lasciamo trascorrere gli anni sulla vita dell’impiegato Piscitello. La guerra di Babilonia, l’Afganistan, le leggi antislamiche, l’oro alla patria, il Pakistan… A ognuna di queste memorabili svolte della Storia, il Capo s’affacciava alla televisione urlando: “Lo volete voi?” e milioni d’italiani immediatamente sbraitavano “Sì! Lo vogliamo! Vogliamo vivere pericolosamente!”.
In realtà, da lunghissimi anni, gli italiani non desideravano altro che di evitare ogni sia pur minimo fastidio: bastava tenere in casa un ritratto di Caselli o una copia della vecchia Costituzione per essere già schedati come antipidduisti.
Neanche Piscitello era un eroe. E’ con un certo stupore dunque che lo ritroviamo, nell’ottobre 2006, in un fascicolo della polizia. “Il nominato Piscitello Antonio trovandosi in un pubblico esercizio veniva pubblicamente sorpreso a sbadigliare, come da materiale fotografico allegato, in concomitanza alla trasmissione, da parte dell’Apparecchio Televisivo Autorizzato, del Bollettino di Guerra numero millecinquecentosei relativo all’avanzata delle nostre gloriose truppe fra i mondi dell’Afganistan Occidentale…”.
Nessuno fu mai in grado di provare che lo sbadiglio di Piscitello avesse un significato politico, che in verità neanche lui stesso sarebbe forse sarebbe riuscito a stabilire. Questo gli evitò di essere spedito al confino a Bolzaneto, ma non di essere sospeso per un mese, al municipio di Caloria, dal lavoro e dallo stipendio. Un mese che il povero Piscitello passò quasi interamente a letto. Il ventinovesimo giorno, lo venne a trovare il capufficio Brunetti.
“Comodo, comodo, Piscitello!”.
“Ma eccellenza… Ma camerata…”.
“Quale camerata, Piscitello! Qua siamo fra gente libera, grazie a Dio!”.
“Ma… come… il Presidente… la Piddue…”. A questo punto, successe una cosa incredibile.
“Dài, Piscitello! – fece il capufficio Brunetti – La sento anch’io radio Samarcanda!” e gli strizzò l’occhio.
Ora bisogna sapere che il nostro Piscitello da più d’un anno quasi tutte le sere, chiuso nel gabinetto, tirava rumorosamente la catenella, e poi accendeva a bassissimo volume la radio.
La radio era assai disturbata, e le parole “amici italiani buonasera” arrivavano fioche e lontanissime, fra lo scroscìo dello sciacquone: ma a Piscitello bastavano per tirare avanti un altro po’.
Prudenza avrebbe voluto, a quel punto, che Piscitello protestasse indignato, che giurasse sul sacro nome del Capo che mai e poi mai… ma non ne ebbe la forza. Rimase a guardare come un intontito il capufficio che metteva la mano in tasca, ne cavava alcuni biglietti da cento euri e li deponeva garbatamente sul comodino.
“Qua, Piscitello! Ti ho dovuto sospenderre, lo sai, perchè altrimenti la loggia… Ma lo stipendio di questo messe, se permetti, te lo voglio rifonderre io, di tasca mia!”.
Piscitello spalancò tanto d’occhi, in un enorme sorriso riconoscente. Per un quarto d’ora rimasero a parlare di Samarcanda e della misteriosa voce del Colonnello Santoro, che secondo Brunetti era piccolo grasso e coi baffi e secondo Piscitello invece alto, biondo e cogli occhi azzurri.
Improvvisamente: “Ora basta con questi disfattismi, Piscitello! – urlò il capufficio – La prossima volta a Bolzaneto, altro che un mese!”.
Piscitello non ebbe il tempo di impallidire, che già la signora Assunta, che egli non aveva visto entrare, era uscita, e già il capufficio aveva nuovamente cambiato espressione (“Allora, Piscitello: restiamo intesi, eh?”), gli aveva nuovamente strizzato l’occhio ed era uscito pure lui.
Piscitello non poteva saperlo. Ma la scoperta della democrazia, che in quei mesi andavano facendo il capufficio Brunetti e molti altri italiani importanti come lui, in fondo era tutta una questione di spaghetti. Da un anno, infatti la MacDonald di Chicago era entrata pesantemente nel settore spaghetti: spaghetti sintetici, naturalmente (ottenuti dal disboscamento delle foreste ancora sopravvissute in Borneo e in Thailandia) ma pur sempre spaghetti: a milione, a tonnellate, a transatlantici interi.
Ora, il mercato degli spaghetti era in mano da tempo immemorabile di alcune corporation italiane, la Fiat, Mediaset e la De Benedetti: nessuna delle quali aveva voluto dar retta alle pressanti ammonizioni (“il monopolio degli spaghetti non è compatibile con la democrazia”) del Presidente Obama. Così, la macchina si era messa in moto. Alcuni esperti scoprirono che tutto sommato anche l’Italia, con un po’ di buona volontà, si poteva considerare parte del Medio Oriente. E il Medio Oriente rientrava, secondo gli Accordi di Las Vegas del 2002, nella sfera d’influenza della McDonald.
Le truppe americane sbarcarono a Caloria nel luglio 2011. La resistenza fu minima, perchè già nelle tre settimane precedenti alcune operazioni chirurgiche con missili ed elicotteri d’assalto avevano provveduto a spazzare via Palermo, Torino, Napoli, la parte occidentale di Genova, sei battaglioni italiani e, purtroppo, un rifugio probabilmente gremito da circa milleseicento orfanelli dell’Opera San Giovanni di Dio.
La Guardia Leghista, che aveva giurato di bagnarsi sul bagnasciuga nel sangue degl’invasori, si era semplicemente dissolta; il Capo, travestito da soldato americano, era stato catturato dai partigiani a Milanofiori e fucilato sul posto.
A Caloria, dicevamo, gli americani sbarcarono senza incontrare difficoltà alcuna, e nel giro di ventiquattrore avevano già installato un’amministrazione civile funzionante: ne facevano parte ex-piduisti, imprenditori, due capimafia dissidenti, l’ex-segretario di An, Melissa P., l’ex-sindaco Bianco e il capo dei Giovani Industriali.
Tutti costoro si riunirono, formarono una Commissione per l’Epurazione, e mandarono a chiamare il pidduista scelto Antonio Piscitello. Capo della Commissione era l’ex-capufficio (ora Capodivisione) Brunetti.
“Il Piscitello…”, “Quel Piscitello…”, “Il nominato Piscitello…” si sentiva confusamente enunciare da dietro la porta chiusa della Commissione.
Dopo alcuni minuti la porta si aprì e Piscitello ne venne fuori, pallido, a testa bassa, senza una parola. “Ma la prossima volta, si ricordi – lo inseguì la voce del Commissario Brunetti – a Bolzaneto la mando, altro che un mese!”. Se ne tornò a casa sua, lentamente, e andò difilato a ficcarsi a letto. Il ventinovesimo giorno, lo venne a trovare il capodivisione Brunetti…
Riccardo Orioles
(ha collaborato Vitaliano Brancati)
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Il muro di Sicilia e quello di Berlino
Qual è peggio dei due? Mah. Intanto la gente crepa su tutt’e due
Ci sono poche cose più inutili di questo numero di Ucuntu, in questo buffo paese in cui il principale argomento di politica è il numero e l’età delle ragazzine comprate dal rimbambito monarca. Leggetelo, se proprio volete, come una semplice testimonianza: fra gli italiani, e siciliani, del duemila e rotti non tutti erano del tutto privi di vergogna, non tutti prendevano atto. Leggete questo, ora o fra vent’anni, e non confondeteci con gli altri.
Perché quel che è successo a Catania in questi giorni è, nella sua ordinarietà, assolutamente nitido come segnale; equivalente a quello dei buoni cittadini di Berlino o Vienna che, sorridendo distrattamente, guardavano gli ebrei afferrati e portati via.
Succede, e anche questo è significativo, a Catania, cioè in una delle due o tre città d’Italia in cui il potere mafioso è totalmente integrato, da tre decenni ormai, in quello dello Stato. Succede anche in citttà, d’accordo, d’inciviltà più recente. Ma parlino gli altri, se vogliono, delle loro vergogne; noi, delle nostre.
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La storia è molto semplice: più di cento profughi, di cui metà bambini, arrivano dopo pene indicibili da noi in Sicilia, sbarcano sulla nostra terra. Un tempo, le donne si sarebbero affrettate a portare coperte e viveri, e gli uomini vino. Adesso, l’affare è di competenza della forza pubblica.
Rastrellano i disgraziati, li chiudono in uno stadio, inventano qualche chiacchiera per tenere a bada i pochi cittadini accorsi, e rimandano le pecore al lupo. Che è uno dei tanti tiranni africani, odiati dal popolo ma con una buona polizia: tutti, da qualche anno in qua, fraterni amici dell’Italia o almeno dei suoi governanti.
Il rapporto fra noi e l’egiziano Mubarak, o il librico Gheddafi, è infatti chiarissimo su questo punto: l’Italia paga; essi impediscono con ogni mezzo, comprese tortura e morte, ai loro infelici sudditi di venire e infastidire noi ricchi.
Cento o duecento vittime, uccise mentre fuggivano dal Muro di Berlino, disonorarono – e giustamente – i regimi orientali, concorsero al loro crollo e furono e sono invocate come prova della disumanità e tirannia di quei regimi. Oggi le vittime si contano a migliaia e decine di migliaia, e noi tutti italiani – meno chi vi si oppone – ne siamo conniventi.
Vergogna, vergogna, vergogna. E vergogna maggiore su chi, come noi sicilaini, ha conosciuto la fame, come i poveretti di ora, e ha dovuto emigrare. Ma le angherie degli svizzeri – e dei tedeschi, e dei francesi, e dei belgi, e di tutti quei popoli presso cui la necessità ci costringeva a emigrare – non furono mai paragonabili a quelle che gli emigranti di ora subiscono da noi italiani degenerati. Peggio delle violenze (che non mancano) è odiosa l’indifferenza, e la Sicilia e l’Italia ne danno adesso – diversamente da ancora pochi anni fa – triste prova.
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Non saprei che altro aggiungere. E’ futile, di fronte a questo, dilungarsi sulle politiche nazionali e locali che al confronto appaiono sempre più esercitazioni di notabili più o meno incartapecoriti; l’unico partito che fa politica, a quanto pare, è la Fiom e tutti gli altri sono struzzi che differiscono per il diverso livello di profondità a cui seppelliscono la testa.
Due osservazioni soltanto. La prima riguarda la quasi totale indifferenza con cui la stampa nazionale ha accolto questa tragica vicenda, con l’unica benemerita eccezione del (fuori moda) Manifesto.
A Catania, quasi contemporaneamente ai fatti, si svolgeva uno dei tanti periodici dibattiti sull’informazione. Nessuno degli intervenuti ha ritenuto opportuno mentovare i poveri emigranti che proprio in quelle ore andavano incontro al loro tragico destino.
Né alcuno dei valorosi politici piombati giù da Roma ad aprire nell’occasione la campagna elettorale ha perso tempo a recarsi immediatamente allo stadio o all’aeroporto, a difendere i poveretti, che se ne sarebbero giovati. Liberali sì ma “galantuomini”, nell’accezione veghiana.
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L’altra considerazione riguarda invece i nostri ragazzi, i miei colleghi di Ucuntu. Che dalle primissime ore, senza porsi il problema di cosa sia o non sia l’informazione, si sono fiondati sul posto, a dare “copertura giornalistica” – come si dice – all’evento, che subito avevano percepito come importantissimo, e per solidarizzare con gli emigranti.
Fatiche e coraggio sprecati, perché dal punto di vista dei media il loro piccolo giornale, non ripreso dai grossi, non basterà certo a mutare l’opinione pubblica; e dal punto di vista civile le poche decine di cittadini presenti, fra cui essi stessi, non hanno potuto fare molto di più che richiamare i diritti e prendersi qualche spintone.in mezzo agli altri.
Non sono stati furbi per niente, i miei colleghi e amici: potevano andare ai dibattiti, o in qualche carriera politica, invece di perdere tempo così per niente. Salvo che per una cosa che un tempo era importante, fra di noi siciliani: la dignità.
www.ucuntu.org
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Ricominciare da Telejato
Due storie di cronisti minacciati (uno in Sicilia l’altro in Calabria) che non riguardano solo il giornalismo ma proprio la politica: la nostra
Non è una storia importante, quella di Pino Maniaci e di TeleJato. Si svolge in un pezzo d’Italia (Partinico e dintorni) in cui la mafia comanda da quasi cent’anni, tollerata da Crispi, Giolitti, Mussolini, Fanfani, Andreotti e infine Berlusconi. Non è un’Italia importante, infatti, Partinico; si può ben delegarne il controllo, in cambio di qualche voto, a Cosa Nostra.
E tutto va avanti così, banalmente, una generazione dopo l’altra. L’Italia civile, ogni tanto, manda giù una telecamera: un servizio, una fiction, un’ora di folklore.
Finché, improvvisamente, ti spunta una telecamera indigena, che senza sapere un cazzo d’informazione comincia fare informazione davvero. Cioè ventiquattr’ore su ventiquattro, dal basso, in mezzo alla gente del luogo e con parole locali. Ridendo e sputtanando i boss locali: “Tano Seduto!”. “Fardazza!”.
Si chiami Peppino Impastato o Pino Maniaci, il giornalista indigeno non è mai presi sul serio (da vivo) dai giornalisti ufficiali.
Ci volle del bello e del buono, l’anno scorso, per fare ottenere un tesserino a Pino. Dovette fiondarsi a Palermo il presidente dell’Ordine in persona, Iacopino, e imporlo ai riluttanti colleghi locali alcuni dei quali (Lazzaro Dantuso e Mannisi) minacciarono di uscire dall’Ordine se vi fosse stato accolto Maniaci.
Seguono alcuni mesi “normali” (la solita pastasciutta, le solite minacce, i soliti tg sui Fardazza, le solite aggressioni in piazza) in cui Pino, senza far troppo caso dei “colleghi”, continua a tirare la carretta di TeleJato paziente e imperturbabile come un somaro.
Poi, con l’estate, arriva un bel regalo: un lbro di un collega “antimafioso” (vedi pag.4) che dedica a TeleJato un capitolo intero: per dire che è tutta una buffonata e che Pino è un ciarlatano.
Caselli, don Ciotti, i “vecchi” di Radio Aut e dei Siciliani, l’antimafia insomma, si mettono pubblicamente accanto a Pino. I più intimi lo consigliano: “Eddài, non te la prendere, sono cose che passano, continua a fare il tuo dovere”.
E lui pazientemente riafferra le stanghe e si rimette a tirare, povero e indifferente come prima. Il collega calunniatore intanto fa carriera e finisce in Rai: e non da Bruno Vespa ma da Santoro. Così va il mondo.
Maniaci perde la pazienza, ma brevemente, soltanto quando l’ennesima minaccia (che Procura e Scientifica valutano fra le più dure in assoluto) colpisce non più solo lui, ma anche la sua famiglia. Dice alcune parole, ad alta voce. Eppoi si rimette a lavorare. “Noi non ci fermeremo”.
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Parlo di Pino perché sono siciliano, e mi è quindi più facile scrivere di lui. Ma un caso abbastanza simile, quasi contemporaneamente, si è verificato in Calabria (vedi Ucuntu 18 ottobre) dove il cronista Luigi Musolino, più volte minacciato dalla ‘ndrangheta, viene trasferito d’autorità dopo aver fatto dichiarazioni su politici non propriamente antimafiosi. Il suo direttore è uno “di sinistra”, Sansonetti, il cui riferimento politico, se non ho perso qualche puntata, è addirittura Vendola. Che certo, come Santoro, non è tenuto a occuparsi di tutti i particolari, e in particolare della sorte di un misero cronista calabrese o siciliano.
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Torniamo su questi due nomi, che i nostri lettori (e di non molti altri giornali) già conoscono, perché li riteniamo importantissimi per il nostro mestiere, per il nostro Paese, e per lo schieramento politico cui apparteniamo, la sinistra.
Maniaci e Musolino non sono dei semplici giornalisti. Giù da noi, sono il giornalismo.
Maniaci e Musolino non sono dei semplici giornalisti. Giù da noi sono le sentinelle della Nazione,.
Maniaci e Musolino non sono un problema della sinistra. Giù da noi sono il problema.
Nel momento in cui (forse) riusciamo a cacciar via Berlusconi, a ridarci un governo, saremo noi di sinistra in grado di governare meglio di prima, di affrontare con la durezza e serietà che in passato è mancata i problemi vitali: la mafia, l’informazione libera, la non-dignità sul lavoro?
Nei casi di Musolino e Maniaci compaiono esattamente questi temi. Con nemici e responsabili di destra ma con un’immensa miopia – colpevole – da sinistra.
Perciò io qui chiedo formalmente a Santoro di esprimere pubblicamente solidarietà a Maniaci (finora non l’ha fatto) e a Vendola di prendere pubblicamente le distanze da Sanonetti (non l’ha fatto). Insomma di sostenere per quanto possibile la nostra antimafia povera e paesana, scegliendo i militanti sul campo e non i cortigiani.
Mica siete obbligati, caro Michele e caro Nichi, a comportarvi così impoliticamente.
Se non lo farete continuerò e sostenervi per disciplina e dovere, bugia nen, come un sergente sabaudo. Se lo farete, sarete molto più che dei re (o dei politici) per me e per quelli come me: sarete dei compagni.
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Appello/ In Piazza per Telejato
Coppola Editore, Corleone Dialogos (Arci-Libera) Gruppo Facebook “Quelli che fanno come Telejato”e l’associazione Rita Atria lanciano un appello di solidarietà per la Redazione di Telejato Ennesima lettera minatoria nei confronti dell’emittente Telejato che trasmette in una zona calda ed è prezioso strumento di informazione per i territori del partinicese e del corleonese. Pino Maniaci e famiglia non vanno lasciati da soli, per questo vi chiediamo di aderire all’iniziativa scendendo,il 28 Novembre alle ore 10:00, in Piazza a Partinico, per dire ai mafiosi locali che Pino Maniaci e la sua famiglia non sono soli. Alla solidarietà fisica e umana, sarà gradita la solidarietà finanziaria.
Per aderire: redazione@corleonedialogos.it
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Vecchi e nuovi
Saviano da quando ha lasciato il suo vecchio sito Nazione Indiana non è migliorato. Ultimamente ha piantato là una gran bischerata, occupandosi con leggerezza di Peppino Impastato e dando della sua lotta una versione da fiction, ignorando ad esempio il ruolo decisivo che ebbero, con gran rischio e coraggio, compagni come Umberto Santino e il suo Centro Impastato.
Umberto (che non per la prima volta viene ingiustamente cancellato dalla storia “ufficiale”) giustamente se n’è doluto e ha protestato. Bene. Poi, però, ha preso carta e penna e ha minacciato causa all’editore di Saviano. Male.
Io spero, e anzi mi permetto umilmente di chiedere, che questa faccenda finisca con un sorriso reciproco e una stretta di mano. Due antimafiosi, il più grande dei vecchi e il più famoso dei nuovi! Eppure non andrà così, lo sento. E anche questo è un segnale.
Io ho sempre sostenuto che l’antimafia dovrebbe insegnare alla politica, fare (vera) politica essa stessa. Ma occorre un colpo d’ali.
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“Ha da veni’ er Ticket”
– Eh, va là! Dov’è che lo vedi, tutto ‘sto Sessantotto?”.
– Che ti devo dire. Anche allora mica la tv se l’aspettava. Intanto…
– E chi sarebbe il capo di ‘sto sessantotto? Vendola? Beppe Grillo? Di Pietro?
– Beh, mica facile fare il sessantottino se perdi tempo con un partitino intestato al tuo nome. E allora son stati proprio i capi, come li chiami tu, a sfasciare tutto. Stavolta magari se ne fa a meno.
– Vabbe’, le solite fantasie. E intanto Berlusconi…
– Ma intanto ridendo e scherzando ci abbiamo guadagnato un’opposizione. Prima non c’era e ora da sabato c’è.
– Ma dai!
– Mica lo dico io. Il Corriere lo dice. Leggi qua: “La Fiom si fa partito”., E il Corriere, quando sente guai, se ne intende…
– E il piddì? E Bersani? Che fine fanno?
– Bersani è uno serio, e a quest’ora s’è già accordato con Vendola per fare il ticket.
– Il ticket?
– Te lo ricordi quando c’era Prodi e Veltroni? Il vecchio e il giovane, l’Emilia solida e la città futura, i conti in ordine e la poesia…
– E dai, Veltroni… Tocco palle a solo pensarci.
– Anch’io, e difatti Veltroni ha fatto la fine che ha fatto. Ha accoltellato il povero Prodi fra l’altro. Ma Vendola è un’altra cosa. Vendola non tradisce. Bersani tiene su la baracca, e lui la spinge avanti.
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Italo Calvino (“L’avventura di due sposi”) wrote:
< L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei.
Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza”
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robin@sherwood.co.uk (FB: happyfellows) wrote:
La freccia nera
< Sibila il vento la notte si appresta
e la cupa foresta minacciosa si fa
passa ma trema se senti un fruscio
forse è un segno d’addio
che la vita ti dà
lascia la spada se il cuor non ti regge
perché questa è la strada
che da noi fuorilegge
ti porteràààààààààààà
lala lalala la
la freccia nera fischiando si scaglia
è la sporca canaglia che il saluto ti dà
vieni fratello è questa la gente
che val meno di niente
perché niente non ha
ma se il destino rovescia il suo gioco
nascerà nel mattino
una freccia di fuocooo
la libertàààààààààà
la la lalalala lala >
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“A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?” (Giuseppe Fava)
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