Abbiamo dunque dato particolare risalto ai momenti più “politici” (non mai, ovviamente, di partito) di essa: fra cui SicilianiGiovani, la singolare esperienza fra scuola di giornalismo e movimento giovanile che formò tutta una generazione di giornalisti e militanti civili sulla via di Giuseppe Fava. Esperienza tuttora validissima e quindi da riproporre e studiare non solo sotto il profilo storico ma anche dell’utilità immediata.
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A tanti anni di distanza, la storia di Giuseppe Fava è una delle pochissime che ancora continuano ad affascinare i giovani e a dar loro un modello di giornalismo, di politica e di vita. Fu lui a smascherare i legami fra mafia e poteri economici e sociali; fu lui a considerare la lotta non come un semplice “lottare contro” ma anche e soprattutto come un “lottare per”. Non casualmente, nel primo numero dei Siciliani si parla dei cavalieri mafiosi (era già una rivoluzione, questo associare mafia e imprenditoria) ma anche, con pari importanza, di “donne siciliane” e di “amore”.
Amava profondamente la vita; la lotta contro i poteri disumani era per lui solo un mezzo per liberare profondamente quello che abbiamo dentro, per conquistare quella felicità e quella gioia che, pur contrastate e difficili, sono il lato più nobile della condizione umana.
Su questa via ebbe intuizioni fortissime, ben più avanzate dell’intellettualità ufficiale che lo circondava e che lui abbandonò coscientemente per affidare tutte le sue chances a noi ragazzi. Non c’è che Pasolini, nella cultura italiana, ad essergli paragonabile per radicalità e umanità di pensiero; ma, molto più di Pasolini, egli fu un militante.
Moltissimo resta ancora da scoprire, della sua profondità e poesia, ai futuri studiosi; a noi che l’abbiamo conosciuto resta la felicità dei ricordi e il dovere di trasmetterne il più possibile – come facciamo da sempre, e non senza risultato – ai giovani che via via si affacciano.
Spessissimo il “suo” giornale cambia di nome; eppure, in un quarto di secolo, ritorna ancora. Siamo già alla quinta generazione (la mia, quella dei SicilianiGiovani, quella di Avvenimenti, l’Alba e dei Siciliani Nuovi del ’93), quella dei primi anni del nuovo secolo; e questa) di ragazze e ragazzi che incontrano, immediatamente comprendono e, ognuno alla sua maniera, ricostruiscono il mondo di Giuseppe Fava.
Pochissimi intellettuali hanno avuto tanta ventura: di fronte alla quale decisamente sbiadiscono la mediocrità e l’assenza della cultura e della politica “ufficiali”
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Questi, per noi di Lavori in corso e di Ucuntu (dei Cordai, della Periferica, della Fandazione, di Telejato, di Libera, di AdEst, del Clandestino…) sono giorni di lavoro duro, coi seminari e gli incontri, fra Palazzolo e Catania, di riepilogo, di progetto, di studio operativo. Tre cose sono mportanti quest’anno, e sono le nostre sfide.
1) continuare e concretizzare il lavoro di quest’estate a Modica: abbiamo individuato l’obiettivo giusto – l’integrazione fra le testate, la rete – ma poi ci siamo arenati;
2) aprire con professionalità e determinazione tutto un settore nuovissimo (gli ebook mobi epub e pdf, il settore video, la produzione di “giornali” e libri in questi nuovi formati) che stanno lì ad aspettare esattamente gente come noi;
3) partire col settimanale di internet, un’evoluzione di Ucuntu ma nazionale; se ne discute da molto, con il meglio di internet (Gliitaliani.it, Antimafia2000, Agoravox, Liberainformazione); siamo indietro solo per mia mancanza personale, non avendo portato a termine (per malattie, problemi e altre cose noiose) la quota di lavoro che dovevo fare. Me ne scuso umilmente e mi impegno a presentare il progetto entro la fine del mese; questo ovviamente significa aprire tutta una nuova impresa collettiva.
Il momento è ottimo: più si sviluppano le tecnologie e meno abbiamo bisogno di imprenditori (che in trent’anni se ne sono sempre fregati sia di Giuseppe Fava che di noi). Ma ci vuole aggressività, rete fra noi liberi, voglia di concludere, e competenza.
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Non so come avete passato il capodanno. Di noi, meglio di tutti uno dei nostri redattori migliori, uno dei più giovani “allora” ma oramai uno dei veterani: ha trovato un posto di cameriere precario per capodanno e l’ha passato così, servendo a tavola, con pochi auguri di fretta via sms – c’era da lavorare. Nè il giornalismo nè l’antimafia ti aiutano a sistemarti, a vivere come quelli perbene. E anche questa è la strada di Pippo Fava, che si vendette la casa per i Siciliani.
Ne valeva la pena? Io ritengo di si. E’ bella la nostra vita, con tutti i suoi dolori e le pene, quando la stai vivendo per qualcosa. E quale premio e che gloria, per Giuseppe Fava, aver saputo suscitare, in così tanti anni, tanta fedeltà! Nessun altro, o pochissimi, ha mai avuto altrettanto.
Così, buon anno a tutti, amici miei. Vogliamoci bene a vicenda, lavoriamo insieme, guardiamo avanti, aiutiamoci. E comincia un altr’anno dei Siciliani.
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Sciopero generale? Sì, ma antimafioso
L’impresa-mafia sempre più potente
Cos’è cambiato da allora? Allora la mafia comandava a Catania, ora in tutta Italia. Ha i suoi sottosegretari, i suoi governatori, i suoi opinion maker riconosciuti. Questo per limitarci a quelli ufficialmente riconosciuti, se no dovremmo aggiungere “i suoi ministri e i suoi presidenti”. E i suoi imprenditori, naturalmente, che non è una novità.
La cosa più importante, tuttavia, non è che la mafia è forte, è che viene imitata. Il suo modello, cioè, più o meno consciamente è diventato il modello vincente di quasi tutta la politica e di buona parte dell’impresa. Non più solo a Catania, ma anzi soprattutto a Roma e Milano.
Queste ultime, nei confronti di Catania, sono quel che Catania era una volta nei confronti di Palermo: il posto dove la mafia “non esiste”, il posto dove “non ammazzano nessuno”, il posto dove “non facciamo l’esame del sangue agli imprenditori” e dove il boss Santapaola giocava a bridge nei migliori circoli della città. Una mafia moderna, insomma, digeribile e perbene. I catanesi credevano di essere ancora a Catania e invece erano già a Corleone, a Medellin, nel terzo Mondo.
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E noi, dove siamo adesso? Qualche esempio veloce, per capirci in fretta. Buona parte degli affari per l’Expo di Milano (il business del decennio), e comunque quasi tutto il movimento terra, ruotano attorno a capitali calabresi. L’altro giorno a Vibo Valentia un tale, che aveva ruggini con una famiglia vicina, l’ha sterminata freddamente – otto morti – in un vero e proprio scontro fra clan tribali. L’esercito italiano, tuttavia, non pattuglia Vibo Valentia (o Rosarno) ma Kabul.
Cacciata (grazie ai Siciliani) da Catania la Famiglia Rendo, quella di cui parlavano Fava e dalla Chiesa, si è riciclata in America e in Est Europa. Negli Stati Uniti una società da lei acquisita del ’96, la Invision, ha ottenuto anni fa l’appalto della security dei venti principali aeroporti nazionali. In Ungheria, la Famiglia ha acquisito diversi quotidiani a Budapest, ristrutturandoli a modo suo. In quel Paese, due settimane fa, hanno approvato una legislazione sui media estremamente repressiva.
Nel Sinai, a poche ore di volo da qui, alcune centinaia di emigranti sono stati catturati da una banda di beduini, che li ha tenuti in ostaggio per settimane, violentando donne, uccidendo uomini e rivendendone gli organi a cliniche clandestine. Tutto ciò nell’indifferenza del governo locale e della comunità internazionale, che proprio in questo caso, quando avrebbe fatto benissimo a mandar truppe, non è intervenuta.
Alcuni degli emigranti, dopo, sono stati arrestati dalla polizia egiziana per immigrazione clandestina. I governi egiziano e, libico, infatti, sono lautamente finanziati dai peggiori governi europei – fra cui il nostro – per stroncare l’emigrazione in Europa con qualunque mezzo, compresi terrorismo e tortura.
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“Accordo storico e positivo” ha detto Berlusconi del minestra-finestra di Marchionne. Ci mancherebbe altro. Per non lasciare equivoci, subito dopo ha detto che ce l’ha con i “magistrati eversivi” e con gli studenti (escluse, probabilmente, le veline).
Stupisce che di fronte a un nemico così determinato (un sindacalista ha ricordato che l’ultimo episodio del genere risale al 1925, quando Mussolini abolì nelle fabbri che le commissioni interne, a manganellate) la si nistra sia così farfugliante e incerta, com preso il buon Bersani, che pure ultimamente aveva fatto sperare bene.
Qualcuno, come Fassino (che a suo tempo elogiò Craxi e lo mise anzi fra i padri fondatori) si schiera direttamente con Marchionne: ”Fossi un operaio voterei per lui”. “Prova a fare l’operaio per davvero”.
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Se tutto ciò porterà, come ci sembra logico, a uno sciopero generale, a noi piacerebbe moltissimo che fosse anche uno sciopero generale antimafia. Uno sciopero del genere, in realtà, di fatto non potrebbe che essere antimafia, visto chi sono buona parte dei peggiori imprenditori: ma sarebbe bene che lo fosse anche esplicitamente.
Lo sciopero antimafia sarebbe non un momento, ma il momento decisivo dello scontro italiano, e bene fa la segretaria della Cgil (a proposito, avete notato che l’unica donna importante, nella politica italiana, sta proprio alla Cgil?) a non volerlo scagliare senza una perfetta preparazione.
Lo scontro, e questo è sempre più chiaro, molto più che politico è sociale. Difficilmente sarà deciso dalla “politica” (con questo termine in Italia si indica un ceto di circa duecentomila persone, che si chiamava la noblesse in Francia nel 1788). Eppure di una politica c’è bisogno, e non improvvvisata nè casuale.
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“… L’incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale.
Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare dal governatore della Banca d’Italia… (…). Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l’incarico ad un eminente della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti…”.
L’idea di una soluzione di “salute pubblica” ormai come vedete si affaccia – questo era Scalfari – anche nella classe dirigente: che però pensa a banchieri o a notabili illustri, magari ex (o moderatamente) berlusconiani. Congelare tutto, e poi si vedrà
Ma la crisi è tanto urgente e tragica, soprattutto per la presenza dei poteri mafiosi, che prendere tempo non servirebbe a niente, e men che mai affidarsi (ancora) a banchieri e imprenditori.
Se “salute pubblica” dev’essere, lo sia davvero, non dando il potere ai notabili ma ai resistenti con le carte in regola, sul precedente del Cln. Governo di Resistenza, unitario ma ostile ai padronati, e con alla testa non un imprenditore o un banchiere ma un uomo dell’antimafia, un servitore di Stato.
Buon anno.
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Il nuovo procuratore chiamato a sfidare la borghesia mafiosa catanese
Nella foto [ http://pinofinocchiaro.blogspot.com ] , a sinistra il costruttore edile Carmelo Rizzo, imprenditore contiguo al clan Laudani, ucciso nel 1997 dai “mussi” braccio armato di Cosa Nostra catanese; accanto, con la giacca, il procuratore aggiunto di Catania, Giuseppe Gennaro. Proprietario di una villetta costruita a San Giovanni La Punta dall’impresa controllata dai Rizzo’s per conto dei “mussi”.
Pino Finocchiaro
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Quel palazzo detto di giustizia
Dobbiamo batterci per leggi come per mura della città (Eraclito)
Ammantati, Catania, di Luce e di Giustizia! (Giovanni Paolo II)
E’ in corso l’attività di copertura del posto di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, la quale impegna nella formulazione di parere sulle singole istanze, anche i Consigli Giudiziari dei Distretti in cui prestano servizio gli aspiranti. Concorrono al posto i magistrati, operanti a Catania, Gennaro, Scalia, Siscaro e Tinebra.
Il posto fu vacante nel ’96; lo è stato di nuovo nel 2006; lo sarà nel prossimo febbraio per collocamento a riposo dell’attuale titolare, dott. D’Agata.
Nella prima di dette occasioni pervenne al CSM un ampiamente motivato auspicio, si facesse cadere la nomina sopra un estraneo all’ambiente : a costo, se necessario, di riapertura dei termini per la presentazione di istanze. L’autore di quello scritto, Presidente da molti anni del TpM di Catania, tornava ad affermare sia la responsabilità della devianza amministrativa nel sinistro primato locale di criminalità minorile (messo in luce dal suo Ufficio, nel ’94, con accurata indagine comparativa estesa a tutto il Paese) e sia la dipendenza del malaffare dilagante dalla inadeguatezza dell’azione repressiva, o dall’aperto rifiuto di reprimere. La corruzione, impunita, distraeva dal soddisfacimento di pubblici bisogni (bonifica dei quartieri deprivati; impianto di forme adeguate di assistenza educativa) risorse pubbliche ingenti : come le relazioni a sua firma, indirizzate al Procuratore Generale, deploravano da tempo; e un clamoroso appalto, a tangenti, di importantissima opera pubblica, restava senza conseguenze per il protagonista. Da questo sostrato cresceva la foresta mafiosa.
Dieci anni dopo, nel 2006, lo stesso magistrato Scidà – da tempo in pensione, ma non più solo – rinnovava quella pressante invocazione, mediante scritti e con interventi in pubbliche affollate riunioni.
E ora, nel 2010, di nuovo solo, nella città più rassegnata che mai, egli ha depositato presso la Segreteria del Consiglio Giudiziario, in vista dei pareri accennati in principio, una circostanziata scrittura (Per capire il caso Catania, pag. 3 + 30) della quale saranno qui pubblicati la premessa e l’indice, insieme con una delle pagine conclusive.
Giovambattista Scidà
presidente emerito Tribunale per i Minori di Catania
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Quasi un promemoria,
ai ragazzi dell’Alba, allora come adesso
Scacciato dai padroni della terra
anche il ragazzo Michele molti anni fa se ne partiva
per città senza mare, schiavo
– come tanti prima di lui – dei vincitori
Se la Sicilia ha bandiera, non ha trinacrie alate,
non colori brillanti di baroni e di re.
Una zappa fangosa è il nostro unico stemma,
una valigia pesante, per le strade del mondo, il nostro regno.
Così per molti secoli. Antichi padroni di schiavi
e baroni feudali, “sorci” di Re Ferdinando,
e borghesi di “Talia”, notabili grigi di paese
e rozzi gerarchi neri, padroni dell’eroina e Cavalieri:
dalla Sicilia stessa in una ininterrotta catena
sortivano gli sfruttatori dei siciliani.
E così per molti anni. Di quando in quando
uno degli sfruttati gridava. Capi di ribelli organizzarono
– alle radici del tempo, sotto Roma – tre rivolte di schiavi:
Spartaco, loro fratello, lottò contemporaneamente a loro
che fecero della rocca di Enna la capitale degli schiavi.
Furono crocifissi. Re Federico, nel medioevo,
squartò e arse vivi a decine i servi della gleba ribelli:
fuggivano nei dammusi. Il conte
di Modica, signore di vita e di morte
dovette fuggire una volta dalla folla
– che pochi giorni dopo fu decimata – dei contadini.
Così passarono i secoli. Poi gli antichi baroni,
man mano che il progresso cresceva
e nuove cose venivano dall’Europa
si trasformarono – ma sempre
restando se stessi – in “galantuomini” e “civili”.
Arrivò Garibaldi: ma un’altra abile trasformazione
li mise per altre sette generazioni al riparo
dalla sete di vivere dei siciliani. Ed è passato il tempo
e i Cavalieri di oggi non sono affatto casuali:
catene infinite li legano alle radici
dell’ingiustizia arcaica, nata all’origine, su questa terra.
Neanche noi lo siamo. Dopo generazioni di sconfitti
le generazioni dei giovani sempre si sono riannodate
all’insaputa di tutti. Le bandiere rosse nei feudi
– Portella delle Ginestre, Turiddu Carnevale, Miraglia –
fiorirono sulla lunghissima catena.
Ed altro tempo è passato. Oggi i discendenti degli schiavi
hanno finalmente un ponte da attraversare:
possono forse vincere, dopo anni e anni,
se fantasia e ragione s’allargheranno dappertutto
a partire da qui. E questo è tutto. Nelle poche ore
e nelle cose modeste che ci tocca fare
c’è un concentrato antichissimo, grande, di lotte e di dolori
che ora vengono al nodo. Per questo esistiamo,
ora che una strana ironia – benevola, probabilmente –
affida ai deboli, agli sparpagliati, ai ragazzini
la sorte dei cavalieri e degli ultimi baroni.
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