San Libero – 96

Luigi wrote:
<Hai scritto che “Alcune guerre, per quanto raggricci dirlo, sono da fare. Questa del terrorismo, secondo me, e’ una di quelle: perche’ il terrorismo e’ pericolosissimo e perche’ e’ la punta di lancia di un sistema di potere che parallelamente si muove sul piano finanziario”.
Ma pensa alle imprese terroristiche compiute dagli americani: hanno invaso il Vietnam a colpi di napalm e bombe al fosforo; hanno manovrato in Indonesia nel 65 per spodestare Sukarno causando 1 milione di morti; hanno sostenuto il golpe di Pinochet in Cile (1973) che provoco’ 5000 morti e 20.000 esecuzioni di massa; hanno appoggiato il golpe in Argentina (1976) che fece 15.000 morti e un numero imprecisato di desaparecidos; gli squadroni della morte e le giunte militari manovrate dalla Cia in Guatemala hanno procurato 150.000 morti; hanno foraggiato i terroristi anticubani contro il legittimo governo di Castro; hanno finanziato le sanguinarie milizie sudafricane al tempo dell’apartheid; hanno tollerato il massacro a sangue freddo di 2000 profughi nei campi di Sabra e Chatila (1982) e (1978 e 1982) i bombardamenti e l’invasione israeliana in Libano (ventimila morti di cui l’80Àivili); hanno invaso Grenada nell’83, e Panama poco dopo (2000 civili morti bombardati); i raid Nato sulla Yugoslavia hanno causato la distruzione di scuole e ospedali e l’uccisione di 3000 civili di cui 1000 bambini; il massacro dei palestinesi e’ realizzato quotidianamente con finanziamenti e armi americane. E perche’ non consideri tutte le conseguenze provocate dall’Accordo Wto sulle Barriere Tecniche al Commercio, o dalle politiche di lacrime e sangue del Fondo monetario internazionale? Washington ha detto no alla ratifica della messa al bando delle armi batteriologiche e ha ripreso la produzione di armi biologiche, ha rifiutato di approvare la messa al bando degli esperimenti nucleari, delle mine antiuomo e del traffico di armi leggere, ha detto no alla ratifica del trattato di Kyoto sui gas serra, ha negato le misure contro i paradisi fiscali e di riciclaggio di denaro sporco e rifiutato trattati internazionali che limitavano in qualche modo la corsa al riarmo.>

* * *

Di lettere cosi’ ne sono arrivate parecchie. L’elenco di Luigi e’ sostanzialmente corretto. L’impero americano (come, a suo tempo, quello russo) ha spesso adottato politiche che sono costate vite umane. Ha fatto, in senso lato, “terrorismo” E allora come si fa a sostenere una guerra “degli americani”?
Potrei rispondere che in effetti io non sostengo affatto la guerra degli americani ma quella – se ci fosse – delle Nazioni Unite. E che la guerra cosi’ com’e’ condotta non e’ affatto una guerra ma un’inutile “operazione di polizia”, a fini propagandistici, contro vittime per lo piu’ innocenti; che sarebbe piu’ utile prendere misure serie per il controllo della finanza, dei poteri terroristici e mafiosi (fra cui Laden) e cosi’ via. Queste cose le ho scritte, e vorrei che Luigi le rileggesse. A questo punto pero’ il problema che la sua lettera pone e’ piu’ complesso, e riguarda il nostro atteggiamento generale nei confronti della guerra.
La guerra, nella nostra cultura, arriva essenzialmente col 1914: la Grande Guerra. Prima d’allora, la guerra – con eccezioni – era una cosa da specialisti, che non riguardava molto la nostra vita quotidiana: generali, monarchi, ussari col colbacco. Non era una cosa “moderna”. Moderni erano la luce elettrica, il sindacato, la domenica fuoriporta, le elezioni – tutti i tasselli civili, conquistati faticosamente a poco a poco, che distinguono il modo di vivere “moderno” da quello “di prima”. Poi arrivo’ il massacro, e la guerra fece irruzione in tutte, senza eccezioni, le nostre piccole vite quotidiane. La morte per violenza, la stampa censurata, l’irregimentazione: nel giro di cinque anni, fra il 14 e il 19, queste cose divennero assolutamente “normali”. E quando la guerra fini’, “normali” continuarono a rimanere.
In questo mondo inselvaggito, cominciarono ad aggirarsi strani animali. Un disoccupato come milioni di altri, un pittore di cartoline con l’hobby di fare discorsi, sali’ al potere in uno dei grandi stati d’Europa. Porto’ con se’ alcune delle nuove idee “normali”: che milioni di uomini, ad esempio, dovessero essere serenamente uccisi perche’ “non sono come noi”. Non aveva grandi forze, all’inizio: ma gli fu dato il tempo di crescere e di accumularle perche’ tanto era l’orrore che nella gente buona suscitava ormai la parola “guerra”, che ognuno istintivamente rifuggiva dall’idea di usare violenza a chiunque – persino a Hitler. I giovani come Luigi – persone buone, civili, il sale e il succo dell’Europa umana – scesero in piazza a manifestare contro la guerra, contro qualsiasi guerra. Dovettero combatterla qualche anno dopo. Bin Laden non e’ Hitler. Ma fa del suo meglio per essero. E va fermato.
Allora: e’ vero, l’America ha ucciso molti esseri umani. Noi siamo sempre stati dalla parte delle vittime, ed abbiamo anche ammesso – i migliori di noi, con riluttanza – il diritto di queste vittime a difendersi, anche con le armi. I vietnamiti facevano bene a sparare contro gli americani. Mandela era nel giusto quando combatteva contro i razzisti. I palestinesi hanno diritto a fare l’intifada. Ciascuna di queste frasi comporta una guerra. Ciascuna di esse implica la distruzione di vite umane. Eppure (noi di sinistra lo sappiamo) sono frasi giuste.
Io penso che nella storia della sinistra le pagine piu’ nobili siano quelle scritte in una foresta della Bolivia, su una vecchia agenda farmaceutica, da un asmatico medico sui quarant’anni: “Catturati altri due soldaderos. Gli abbiamo fatto una predica, e poi li abbiamo lasciati andare”. Eppure, anche quella era guerra.
Noi non siamo mai stati contrari “alla guerra”, noi compagni. Abbiamo invece sempre saputo che la guerra e’ una cosa seria e dura, non una telenovela maschilista, che costa sempre moltissimo a tutti, che uccide sempre al di dentro anche chi la fa; che non e’ gloria, non e’ televisione, che va scelta con la piu’ disperata attenzione su quando farla e su come farla. Eppero’, quand’e’ stato il bisogno, l’abbiamo fatta.

* * *

Adesso, e’ il caso? Nelle forme attuali, no. Uccidere i disgraziati (questo stanno facendo) e’ evidentemente un delitto. Stringere il fronte interno, censurare le tivvu’, far passare ogni sorta di mascalzonata (in Italia, approfittando della “guerra”, fanno passare leggi per salvare i mafiosi), questo non e’ guerra contro il terrorismo, e’ politica e propaganda. Come potrei appoggiare una cosa del genere? Ma noi non possiamo limitarci a denunciare questo. Dobbiamo farci carico – noi sinistra noi compagni – dei problemi di tutti, ed anche di quelli degli americani. Non di Bush o di Gates: degli americani.
E la verita’ e’ questa, che degli esseri umani americani sono stati bestialmente macellati (dicono quattromila, ma io credo molti di piu’) esattamente come i vietnamiti o i palestinesi. Noi abbiamo difeso i vietnamiti e i palestinesi. *Quindi* ci tocca difendere anche gli americani. Se non lo facessimo, non saremmo piu’ degli amici degli uomini, sinceramente preoccupati di ciascun individuo e della sua sorte. Saremmo dei politicanti qualunque. Non avremmo il diritto di dire “viva l’intifada”.
Difendere gli americani significa usare al meglio che possiamo, a beneficio loro (in questo caso) la ragione. Significa in primo luogo metabolizzare il *loro* dolore, l’enormita’ del massacro subito; non rimuoverlo. Non l’abbiamo fatto con gli altri. Significa ammonire senza equivoci sull’ingiustizia che essi commettono (bombardamenti compresi) ma contemporaneamente suggerire con sincerita’ i mezzi possibili perche’ sia fatta giustizia. Questi mezzi comprendono una guerra. In primo luogo, la riforma finanziaria che metta sotto trasparenza e controllo le multinazionali, la United Fruit come quella di Bin Laden; in secondo luogo, la politica di collaborazione che rimetta in primo piano l’Onu e dia giustizia a popoli oppressi come i palestinesi. In terzo luogo, l’eliminazione dei regimi filoterroristi (questi si’, stati-banditi) come la monarchia saudita e la giunta militare pakistana. In quarto luogo – se no tutto il resto sarebbe ipocrita – la guerra. Una spedizione internazionale, sotto l’egida dell’Onu e al comando di generali russi, norvegesi o indiani, non per bombardare a casaccio degli innocenti ma per occupare militarmente lo stato hitleriano dei talebani. Questo potrebbe significare un Vietnam, dal punto di vista delle perdite e della lacerazione della comunita’ americana. Ma e’ l’unica strada realistica. Tutte le altre sono una rimozione del problema, con in piu’ la prepotenza e il delitto di far pagare Bin Laden a chi non ne ha colpa.

* * *

Io mi auguro, caro Luigi, che tu sia stato alla marcia della pace contro i bombardamenti: e’ la cosa piu’ degna che un giovane civile e buono come te possa aver fatto in questi momenti. Ma non sorridere, pero’: perche’ subito dopo ti dico che, se anziche’ di bombardamenti domani si parlasse di spedizione dell’Onu, io mi aspetterei non solo che tu l’accettassi e la sostenessi, ma addirittura che accettassi di rischiare la vita per porla in atto.
Abbiamo avuto polemiche, in passato, con lettori (anzi, per lo piu’ lettrici) americani che ci accusavano di essere antiamericani. Questo e’ vero, siamo antiamericani: nel senso che consideriamo profondamente sbagliate, e dannose per molti esseri umani, molte politiche americane. Ma proprio per questo, nel momento in cui gli americani – gli uomini e le donne americani – hanno bisogno di amici, noi lo siamo. Amici che dicono la verita’, non sudditi servili. Da questo punto di vista, siamo i soli filoamericani che esistano in Italia: gli altri, quelli che ascoltano lo Stars&Stripes con la mano sul cuore, son solo dei mascalzoni che approfittano dell’occasione per pagare qualche debito ai loro amici mafiosi.


Effetti collaterali. Fra gli obiettivi di missili e bombardieri manca – al momento in cui scrivo – proprio quello che ragionevolmente avrebbe potuto essere considerato il primo e piu’ immediato, quello che avrebbe potuto dare subito un senso indiscutibile alla guerra e che tecnicamente era il piu’ facile da colpire. Parlo delle immense coltivazioni di oppio, e dei relativi depositi, da cui proviene il settantacinque per cento dell’eroina del mondo. Sarebbe stato un colpo terribile per i talebani, che si finanziano con esso, e sarebbe stata un’azione di fronte alla quale nessuno avrebbe potuto avere nulla a che ridire. Pero’ l’oppio, fino a questo momento, non e’ stato bombardato; non e’ stato ragggiunto nemmeno da qualcuno di quei micidiali “effetti collaterali” che si sono invece abbattuti sulle casupole dei montanari. I soldi dell’oppio vanno solo ai talebani?


Democratici. Trattative riservate di esponenti inglesi (in vista del ritorno del re a Kabul, dell’auspicio di un governo unitario afgano dopo l’eventuale vittoria mujeddin, della necessita’ di dare un contentino ai pakistani, ecc.) con l’ala “moderata” dei talebani. Vengono definiti: “talebani democratici”.


Promemoria. Charles Cogan, ex responsabile Cia per l’Afganistan: “La nostra missione principale era di arrecare il maggior danno possibile ai sovietici. Non avemmo mai le risorse o il tempo necessari per dedicarci ad investigare sul traffico di armi, e non credo che dobbiamo rammaricarci per questo. Ogni situazione comporta delle conseguenze e le conseguenze erano in termini di droga. Ma l’obiettivo principale era stato raggiunto. I sovietici avevano lasciato l’Afghanistan”.


Obiettivi sensibili. Fra i tanti “obiettivi sensibili”, che i terroristi potrebbero cercar di colpire a un certo punto sarebbero stati elencati anche i Templi di Agrigento. Ma non c’e’ bisogno di nessun talebano per distruggere i Templi. Ci pensa gia’ la popolazione locale.


Background. A Wall Street, l’undici ottobre, improvvisamente si diffonde la voce della cattura di Laden. La Borsa sale subito, sia a New York che a Londra. Diversi brokers accumulano qualche miliardo sull’improvvisa ondata al rialzo. Poco la voce viene smentita, e la Borsa torna a calare. Ma i miliardi restano nelle tasche di chi li ha acchiappati. Uscendo dalla Borsa uno dei brokers, quello che ha guadagnato di piu’ col rialzo, si toglie la maschera di gomma e se ne va tranquillamente col suo solito turbante e la sua solita barba da santone.


Solidarieta’. Concerto per le vittime, con Michael Jackson e Mike Jagger. Problema: chi dei due va messo prima sui manifesti? “Io – dice Jackson – Ordine alfabetico”. L’ex Rolling allora s’incazza e se ne va.


As usual. Salgono in Borsa le azioni della Bayer, la casa farmaceutica che produce l’unico vaccino disponibile contro l’antrace. La fortuna della Bayer deriva dall’annunciata diffusione di massa, a scopo terroristico, di spore d’antrace. Un mese fa le azioni della Bayer avevano invece subito un crollo dopo la denuncia dei potenziali effetti letali di un medicinale da essa destribuito.


Talebani. Bolzano. Un gruppo di ragazzini, almeno otto, circonda, insulta e picchia selvaggiamente due giovani donne sorprese a scambiarsi un bacio (“Brutte lesbiche!”) fra loro. Delle due ragazze una riesce a scappare, l’altra finisce all’ospedale con gravi lesioni per calci e pugni.


Prevenzione. Ad Agrigento, nel centro d’accoglienza locale (un centinaio di profughi vi vive ammassato in attesa di decisioni) le autorita’ hanno proibito ai ricoverati di accendere i televisori. La misura e’ stata motivata dalla necessita’ di evitare che costoro, in gran parte curdi e musulmani, potessero “eccitarsi” nell’ascoltare gli appelli alla guerra santa o in generale seguendo i telegiornali.


Ecchisenefrega 1. In corso a Palermo, dal 25, il processo d’appello al senatore Andreotti, in primo grado assolto dall’accusa di associazione mafiosa. Il pubblico ministero annuncia nuove prove. Ma noi abbiamo ben altro a cui pensare, dai talebani al Grande Fratello.


Ecchisenefrega 2. In Italia, di questi tempi, i magistrati vengono licenziati per difformita’ d’opinioni col ministro, oppure lasciano per protesta il ministero, oppure chiamano il Csm per essere protetti dall’accusa di perseguitare con prove false poveri innocenti industriali, oppure ricevono lettere da colleghi stranieri che chiedono perche’ l’Italia non e’ piu’ interessata ai reati internazionali, oppure sono obbligati a cercarsi gli imputati eccellenti (Previti: “Al processo non ci vengo: non sto bene”) fin dentro le ville, oppure si trovano di fronte in aula, a difendere i mafiosi, ministri sottosegretari di stato, oppure invocano il Presidente della Repubblica perche’ per amor di Dio dia un occhio a queste nuove leggi che lasciano via libera alla delinquenza organizzata. Ma gl’italiani sono troppo occupati (vedi sopra), e anche il Presidente ha fin troppo da fare coi talebani.


Yes Logo. Secondo un’indagine dell’Istituto di psicologia Ipsa su un campione di duemila fidanzati, la maggior parte delle ragazze italiane – circa l’ottanta per cento delle intervistate – accetterebbe l’idea di sponsorizzare la propria cerimonia nuziale (logo sull’abito, slogan in municipio, ecc.) in cambio di un contributo alle spese.
(Questa notizia vi e’ stata offerta dalla ArfDonald, cibi per cani. Rendi felice il tuo migliore amico. ArfDonald, e sai cosa mangia).


Palermo. Blitz della polizia in discoteca, circa settecento studenti sorpresi in pista a ballare invece di andare a scuola, alle undici di mattina. Rastrellati e riconsegnati ai genitori i ragazzini, denunciato a piede libero il gestore del locale, tale Lucignolo.


Cuneo. Alla fine, la piazza intitolata a Toto’ l’hanno fatta. A decidere, e’ stata l'”Associazione Uomini di mondo”. Quelli che hanno fatto il militare a Cuneo. Non a Kabul.


Che fine ha fatto il mio amico Ridah, che fuggi’ dal Marocco nel Novanta perche’ (studente d’ingegneria) la polizia del re lo cercava per sovversivo? In Sicilia, a Catania, entro’ alla redazione dei Siciliani e insieme alla mia amica Lea (quella matta biondina, ebrea, che scrive come scriveva un tempo la Cederna) fece un bellissimo inserto intitolato “Siqqilya”, Sicilia in arabo, che descriveva la Sicilia dei mussulmani. Imparo’ XPress e imparo’ l’Html; uno dei primi siti internet, in Italia, si chiamava ImmiNews e lo faceva lui; c’era anche un giornale, un foglio fotocopiato ma impaginato bellissimo, con lo stesso nome.
Sono in pensiero per lui perche’ ha una faccia che pare proprio quella d’un marocchino – difatti, e’ marocchino – e gl’italiani sono spesso feroci, di questi tempi. E per Lea, che ha questo orribile vizio di ragionare e se l’e’ portato dappresso fino alla Padania, dove la gente cita Biffi e Lepanto quando, per riempire i tiggi’, le fanno le interviste volanti in Galleria.
Shalom, Lea e Ridah, salaam a tutt’e due, anzi a noi tutt’e tre. Che i nostri tre dei, almeno con noi, siano distratti e benevoli, che ci lascino vivere, essere amici e ragionare in pace.


Scioperi. Sciopero di una giornata, a meta’ ottobre, nei call center Telecom. Lo sciopero, indetto dai sindacati confederali e autonomi, ha origine nelle ristrutturazioni a cui la Telecom e’ stata indotta anche dai suoi problemi attuali, ma e’ significativo soprattutto perche’ in Italia e’ il primo caso importante di agitazione sindacale “classica” in un settore completamente nuovo, il precariato delle nuove tecnologie.
A Palermo, in particolare, sono scesi in piazza – con cartelli, slogan e tutto – circa duemila “scambisti”, entrati in azienda (sempre a titolo precario) “in cambio” dei genitori andati in pensione prematuramente. Qui la manifestazione sindacale e’ stata organizzata dalla Cisal ma ha avuto un carattere sostanzialmente spontaneo.
In Sicilia, una delle regioni in cui i call center tendono a concentrarsi maggiormente, i giovani addetti a questo tipo di lavoro si contano in parecchie migliaia (quasi quattromila solo a Palermo) e vengono reclutati con contratti della piu’ svariata natura: 450 fra tlc e part-time alla Telecom (piu’ un paio di centinaia di interinali), seicento formazione-lavoro-tlc alla Blu, e cosi’ via; alla 7C, che lavora per l’Alitalia, i ragazzi vengono definiti semplicemente “addetti alla vendita telefonica”; alla Lts, una compagnia telefonica che occupa un centinaio di ragazzi a Palermo, il formazione-lavoro applicato e’ tout-court quello dei metalmeccanici.
Sicilia e Irlanda, in Europa, sono terreno privilegiato per l’installazione di call center a basso costo di lavoro cui vengono decentrate attivita’ di imprese a livello nazionale e internazionale; fuori d’Europa, si tende a preferire l’India, dove la presenza di masse di giovani urbanizzati e scolarizzati rappresenta un buon terreno di reclutamento per i terminali delle grandi aziende europee.


Informazione. La novita’ grossa, quest’anno in Italia, non ha affatto un elevato contenuto tecnologico, anzi come tecnologie va piuttosto sul tradizionale. Parliamo della free-press, la stampa a distribuzione gratuita metropolitana, che in Italia (paese tradizionalmente sottosviluppato, sul piano della carta stampata) ha segnato un successo con pochi precedenti nel resto del mondo. A meta’ dell’anno, i quotidiani free-press – concentrati su Roma e Milano, ma con significative presenze anche in altre citta’ – hanno superato il milione di copie diffuse (un milione di copie e’ piu’ o meno il numero delle copie perse in edicola dai quotidiani italiani fra il 90 e il 99).
A differenza della maggior parte dei paesi europei, l’Italia non ha una grande tradizione di lettura dei quotidiani. I lettori, proporzionalmente, sono circa un terzo di quelli inglesi, tedeschi o olandesi, sono poco piu’ della meta’ di quelli francesi e in alcune zone del paese (in particolare il sud, oggetto negli ultimi anni di totalitarie concentrazioni editoriali) superano di poco quelli greci o turchi. Questo non e’ un problema di vita o di morte per gli editori (i cui profitti sono andati crescendo nonostante la flessione delle vendite) ma e’ certamente un indicatore non ottimistico sul culturale del paese. Nessun giornale e’ mai riuscito a mantenere a lungo in Italia una rappresentativita’ o un’autorevolezza pari a quella dei loro omologhi francesi o inglesi. L’opinione pubblica, da noi, passa quasi esclusivamente per le televisioni e il vecchio “l’ha detto la tivvu'” e’ ancora sostanzialmente l’ideologia informativa corrente.
In questa situazione strutturalmente malsana, e in coincidenza con una crisi verticale della professione giornalistica (una quota crescente di giovani colleghi lavora ormai regolarmente senza un contratto di lavoro che ne garantisca l’indipendenza) l’arrivo della free-press ha segnato probabilmente il punto di non ritorno.
La tendenza a sottovalutare il dato dell’edicola e a puntare le carte maggiori sulla pubblicita’ adesso viene razionalizzata e ufficializzata: la scelta del lettore pagante e’ niente, la pubblicita’ e’ tutto. Il lettore, che una volta bisognava corteggiare per convincerlo a tirar fuori il famoso resto del caffe’ (che costava un carlino meno, appunto, gli spiccioli per il giornale) adesso e’ semplicemente un numero nella statistica dei contatti pubblicitari, un frammento di audience: in questo senso e’ del tutto analogo, strutturalmente, allo spettatore televisivo. Di cui pero’ non possiede il telecomando.
La qualita’ dei free-press finora sperimentati non e’ generalmente eccelsa. Notizie-flash, molto (o moltissimo, secondo i casi, enterteinment) taglio da notiziario televisivo. Alcuni prodotti (ad esempio Metro) sono, entro questi limiti, abbastanza civili; ad altri (ad esempio Leggo Roma) invece mancano solo le veline – intese come ragazze, non come Minculpop – per essere la versione stampata di un varieta’ alla Bonolis; gli altri si collocano fra questi due limiti, ma sempre e comunque con un'”ideologia” rigorosamente televisiva. Col che la funzione di riflessione e dibattito della carta stampata, quella su cui abbiamo costruito tutto il nostro modo di essere negli ultimi due secoli, se ne va tranquillamente a farsi benedire.
Pero’, non e’ il concetto di free-press in se’ quello che crea l’effetto-televisione. Sono le tre particolari caratteristiche con cui esso si concretizza qui ed ora.

  1. Siccome nessun gruppo di giovani giornalisti, e nessun impreditore “progressista” ha mai preso in seria considerazione la free-press quando si era in tempo a imprimerle un volto diverso, essa e’ diventata una creatura o di grandi gruppi multinazionali o di editori italiani preesistenti che la portano avanti essenzialmente per ragioni “politiche”, alimentandola con i residui di lavorazione dei propri quotidiani tradizionali;
  2. Siccome, per motivi di agevolazioni politiche ecc., e’ risultato piu’ semplice individuare il target della free-press negli utenti dei mezzi di trasporto urbano, i prodotti sono stati progettati strutturalmente per un tempo di lettura assai breve. Tempo breve non vuol dire necessariamente notizie-slogan. Ma certo, non vuol dire nemmeno l’opposto.
  3. In conseguenza del primo e del secondo punto (e anche per la mancata assimilazione delle lezioni ricevute, sul piano della tempistica, dalla web-communication) la periodicita’ del nuovo prodotto e’ stata automaticamente assimilata a quella del quotidiano. Ora, in Italia il quotidiano e’ tradizionalmente, fra tutti i paesi del mondo, quello che meno si basa sull’approfondimento, delegato senz’altro (con poche e non mai abbastanza lodate eccezioni) al mondo dei magazines anzi, come da noi si dice, dei “maschili”.

* * *

Nell’arrivo sul mercato – sia pure cosi’ distorto – della free-press c’e’ pero’ una straordinaria riscoperta, un ritorno alle radici. La comunicazione e’ a pagamento solo da un tempo relativamente recente. Lo Spectator si paga, e in questo senso seleziona sul piu’ moderno terreno possibile (quello dello strumento-denaro, da poco giunto a piena maturazione in quello scorcio di Settecento) una nuova classe di lettori, che e’ quella a cui fino a una generazione fa appartenevamo. Ma prima, la comunicazione era “gratuita”. Lo era la cattedrale medievale con le sue storie e le sue vetrate, lo era il cartello d’avviso, lo erano i graffiti… Tuttora, ci sembrerebbe strano dover pagare per la comunicazione che ci fornisce un segnale di divieto di sosta. La comunicazione, cioe’, oltre che una merce, puo’ essere un servizio.
Da chi fornito? Dal vescovo della cattedrale, dallo stregone della tribu’ col suo nerofumo, dal sindaco-notabile del paese. Oppure, colla sua pera a carboncino sul muro, da un Gavroche. Da pochi soggetti, in passato, pochi e coincidenti in genere col potere.
Ma oggi c’e’ XPress, c’e’ Html, ci sono le laserwriter, c’e’ la scolarizzazione di massa; c’e’ la Rete. Siamo sicuri che la comunicazione, in una societa’ postindustriale, sia ancora solo, o prevalentemente, una merce? Che non possa tornare ad essere un servizio, proveniente stavolta da un’infinita’ “democratica” di punti-sorgente?
La free-press, naturalmente, non e’ ancora questo. Ma denuncia gia’ la possibilita’ di ottenerlo, e la difficolta’ d’accontentarsi, in prospettiva, di meno di questo.


New Economy. Seattle. E’ stato indetto un concorso, aperto alla partecipazione di tutti gli architetti ed artisti che intendano prendervi parte, per un “Monumento ai disastri della New Economy”. Il soggetto e’ libero. I progetti verranno esaminati da un’apposita commissione, che provvedera’ a scegliere il piu’ idoneo e a collocarlo in un luogo centrale della citta’.


Old Economy. Secondo l’Adusbef, associazione di utenti bancari italiani, i premi (e i profitti) delle assicurazioni auto in Italia sono aumentati del 67,8 per cento negli ultimi cinque anni.


Politica. Linux ha raggiunto e superato la quota del 27 per cento sul mercato dei web-server (quelli, per intenderci, che fanno girare l’internet). Nello stesso settore, i prodotti basati su Windows, un tempo praticamente senza rivali, si attestano oggi poco sopra il quaranta per cento. E il trend, secondo la maggior parte degli analisti, e’ di una ulteriore diminuzione del divario fra i due sistemi.
E’ una notizia politica. Per molti anni corporation con risorse pari o poco inferiori a quelle di Microsoft (Ibm, Apple e altre ancora) hanno tentato con tutti i mezzi di spezzare il monopolio Gates, senza pero’ riuscirvi. Apple, che pure era partita in vantaggio quantitativo e con un corredo tecnologico di primissimo ordine, alla fine ha dovuto accontentarsi di difendere una nicchia d’elite fluttuante attorno a un cinque per cento. Ibm, la firma storica del personal computer e forse del computer, e’ arrivata a produrre (con le due serie Os2) il piu’ efficiente system mai progettato. Eppure anche lei, nonostante le ingentissime risorse investite, all’arrivo dell’internet ha dovuto ristrutturare completamente le sue strategie, rinunciare di fatto alla concorrenza Microsoft e riallocarsi (con successo) su un terreno – quello dei contenuti avanzati e dell’interazione – completamente nuovo. Linux, invece, a quanto pare ce l’ha fatta. Dopo appena dieci anni, quello che sembrava un simpatico hobby di studenti geniali e’ entrato di prepotenza sul mercato e insidia concretamente il piu’ grande monopolio del pianeta. Il successo piu’ eclatante e’, come abbiamo detto, questo dei server di rete: ma in effetti Linux e’ significativamente presente (molto piu’ di Mac e di Os2) anche nell’utenza domestica e universitaria, e’ diffusissimo a livello di pubblica amministrazione in almeno due importanti paesi (Germania e Cina) e si pone sempre piu’ come modello nei confronti di altri sistemi operativi (l’ultimo system Apple, il MacOs X, sarebbe impensabile senza Linux, di cui riprende apertamenente parecchi temi).
In un mondo sempre piu’ impazzito e sempre piu’ culturalmente collassato, sempre piu’ in bilico fra apocalisse e integrazione, un prodotto tecnologico di altissimo livello e’ riuscito a conquistarsi un ruolo significatico nella nostra vita quotidiana (e dunque liberandola, per quanto di sua competenza, dallo strapotere dei monopoli) semplicemente affidandosi alla creativita’ individuale, alla ricerca no-profit, alla democrazia condivisa di una comunita’ di liberi programmatori: senza multinazionali dinosauriche, senza megamanager, senza imbrogli di Borsa. Semplicemente, funzionando.
Marx avrebbe fatto salti di gioia se avesse potuto prevederlo. Linux e’ la dimostrazione vivente del fatto che non occorrono apocalissi per cambiare il mondo.


Bertolt wrote:

Agli squali, sono scampato.
Le ho fatte fuori, le tigri.
A divorarmi, alla fine,
ci riusciranno i pidocchi.