Quando la fede somiglia al marketing
di Ivana Sciacca, foto Ivana Sciacca e Paolo Parisi
Sul calendario la ricorrenza di Sant’Agata è segnata il 5 febbraio ma qui a Catania, dove è la Patrona, la festa in suo onore è iniziata molto prima.
Il sindaco Bianco, alla vigilia della processione, dalle colonne de “La Sicilia”, riesumando la citazione del poeta illetterato Andrea Pappalardo, ha fatto tuonare nel suo incipit un “Sugnu Catanisi e mi la vantu: lu fistinu ‘n Catania è spaventu! “, aggiungendo inorgoglito che questa festa i catanesi ce l’hanno nel DNA.
È vero: i catanesi sono così, veri cittadini una volta l’anno, devoti on the road per ostentare la loro fede “sconfinata”. Che poi la fede sia una questione intima e personale e si esprima più attraverso le azioni concrete di ogni giorno non importa, o forse importa solo nella misura in cui danneggerebbe il business che si innesca intorno a questa processione.
Per quanto possa non sembrare, Catania rimane profondamente divisa anche durante questa festa. Infatti il disordine e l’illegalità che serpeggiano durante questi giorni rispecchiano la parte peggiore della città: quella a cui della giustizia non importa proprio niente: né di quella divina, figuriamoci di quella terrena.
Non a caso si batte da ben 7 anni il Comitato per la legalità nella festa di Sant’Agata: per dare voce all’altra parte della città, quella che prima di invocare la giustizia divina lotta per quella terrena, perché è nell’al di qua che bisogna iniziare a fare i conti con la propria coscienza.
Quest’anno la festa doveva essere più “pulita”: le candelore collocate davanti al fercolo, l’isola della legalità al Borgo, la fiera al Porto… Insomma una processione più ordinata, meno selvaggia.
Gli orari, almeno durante la prima giornata, sono stati addirittura da record: da molti anni non si arrivava alle tappe del percorso con una simile puntualità. Peccato che il giorno dopo la Santuzza abbia fatto il suo rientro nella Cattedrale non all’alba, come previsto, bensì verso le 10,30 del mattino.
I devoti insomma ci hanno provato anche quest’anno ad essere dei cittadini esemplari. Il fatto che poi non ci siano riusciti del tutto è un altro discorso. Molti di loro hanno pure acceso le torce negli spazi preposti, come imposto dalle ordinanze comunali, rendendo così giustizia alla memoria di Andrea Capuano, il ragazzo morto nel febbraio 2010 per un incidente stradale causato dalla cera lasciata in via Etnea.
Certo, qualche devoto un po’ più furbo degli altri ha acceso la propria torcia dove gli è parso e piaciuto ma purtroppo per alcuni è proprio irresistibile sentirsi “superiori” ad ogni regolamento. Questi furbacchioni per la tradizione farebbero davvero di tutto ma forse non sanno (o non vogliono sapere) che l’usanza delle torce è stata introdotta solo qualche decennio fa e con il cerimoniale tradizionale della festa, codificato da don Alvaro Paternò nel Quattrocento, non c’entra assolutamente niente. È piuttosto uno dei tanti “magnamagna” che l’ingegno catanese si è inventato per lucrare sulla devozione.
Che poi siano soldi sprecati neanche a discuterne! Il significato simbolico che queste candele hanno assunto per la maggior parte dei credenti non è passibile di alcuna riflessione razionale.
Sembreranno discorsi da eretici dire che i soldi spesi per le torce potrebbero essere destinati a persone davvero bisognose, oppure sostenere che donare monili preziosi alla Santuzza è un’usanza discutibile visto che, al di là di tutto quello che la martire può rappresentare, un simulacro non ha materialmente bisogno di questi doni, non più di chi invece vive in carne ed ossa nella miseria. Tuttavia questi discorsi non hanno la pretesa di offendere il credo di chi in queste cose ci crede davvero ma potrebbero costituire uno spunto di riflessione per una fede meno esteriore e più vicina al Vangelo.
Infine un pensiero va a chi ha stilato anche quest’anno il programma della festa, e cioè al Commendatore Maina: in quanto rigido e fedele custode del rituale agatino, ha ricevuto quest’anno la Candelora d’Oro, onoreficienza da lui stesso coniata dieci anni fa per designare personaggi particolarmente in vista per la loro “agatitudine”.
Da quando alcuni pentiti hanno rivelato l’oscena presenza di infiltrazioni mafiose in questa festa (testimonianze peraltro mai smentite), eravamo in molti ad aspettare le dimissioni del Commendatore: sarebbe stato un timido ma importante segnale di cambiamento sostituirlo con qualcuno che non avesse scheletri nell’armadio. Ma invece niente.
Maina è rimasto lì, impassibile: come a voler dimostrare che la fede, se usata con la stessa maestria di un esperto di marketing, può rivelarsi un potente strumento di salvezza, se non nel Regno dei cieli, almeno in questa città. Questa città che la martire Agata prova a compattare per 3 giorni e che poi torna a disgregarsi restando perennemente indecisa tra il bene e il male.