Gaetano Cellura
Nel 1972 due omicidi scuotono Ragusa. Il 25 febbraio viene ucciso Angelo Tumino, ingegnere e costruttore edile, un passato da playboy e da esponente politico del Movimento Sociale Italiano, negli ultimi anni si occupava solo di antiquariato ed era “noto per la spregiudicatezza con cui conduceva gli affari”. Il corpo fu trovato in campagna, a dieci chilometri dalla città, ma non la sua auto, né il proiettile che l’aveva colpito “al centro della fronte” e che era fuoriuscito dalla nuca.
Il 27 ottobre a essere freddato con sei colpi di pistola è Giovanni Spampinato, un giovane di ventisei anni, corrispondente dell’Ora, che dell’omicidio di Tumino si occupava scrupolosamente.
L’Ora aveva già pagato un alto tributo per gli attentati mafiosi e le bombe fasciste alla propria sede, e per l’omicidio di Mauro De Mauro. Spampinato ne era uno dei corrispondenti più bravi. Non si limitava a raccontare i fatti, investigava e andava alla ricerca della verità. Tutte le mattine veniva svegliato dal responsabile della redazione di Palermo e insieme concordavano l’articolo di cronaca della giornata. Giovanni Spampinato aveva concentrato la sua attenzione sul neofascismo nella Sicilia orientale. Intrecci s’erano stabiliti nel traffico di armi e sigarette di contrabbando provenienti dalla Grecia dei Colonnelli tra la mafia e l’eversione nera legata a Junio Valerio Borghese.
Nel caso Tumino ci mise lo stesso impegno. Quello di sempre.
Spampinato capì che l’omicidio del noto antiquario aveva retroscena riconducibili agli ambienti della destra neofascista. E ogni sua corrispondenza si rivela un atto d’accusa, una tappa di avvicinamento alla verità. Il volto e il nome del probabile assassino appariva sempre più chiaro. E si trattava di un altro giovane, Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale di Ragusa. Studente di giurisprudenza, dipendente dell’amministrazione provinciale di Ragusa, Roberto Campria era amico di Tumino, forse in rapporti d’affari con lui, e ne frequentava la casa. Dove fu trovato, dopo l’omicidio, intento a “sistemare delle carte”, scrisse Spampinato. E nelle ore che precedettero quella in cui venne accertata la morte dell’ingegnere (stando sempre alle rivelazioni di Spampinato) furono visti insieme sulla macchina da una vicina di casa, dal benzinaio e da altre persone. Considerato il maggiore indiziato dell’omicidio, Campria fu più volte “torchiato” dagli inquirenti. Ma a un certo punto, per la lunghezza delle indagini, in città si sparse la voce che si tendeva ad archiviare l’inchiesta.
Spampinato denunciava tutto questo. E alla fine di ogni articolo firmava la propria condanna a morte. Una notte d’autunno Roberto Campria, che si dichiarava estraneo all’omicidio di Tumino, lo mise a tacere per sempre sparandogli. “Lui mi ha ucciso moralmente – disse mentre si costituiva – io l’ho ucciso fisicamente”.
Vittorio Nisticò scrisse (L’Ora del 28 ottobre 1972) che all’impegno di Spampinato non aveva fatto riscontro quello delle autorità ragusane. “A cominciare dallo stesso padre dell’assassino, che avrebbe dovuto perlomeno sentire il dovere di dimettersi dalla delicata carica di presidente del tribunale” appena il nome del figlio era affiorato nella “torbida vicenda”. La torbida vicenda del primo omicidio, ancora oggi oscuro e impunito.