di Mario Libertini
Napoli, il calzolaio dei Quartieri Spagnoli si racconta
Pochi minuti di cammino separano la fermata della metro Toledo dalla bottega di Ciro in via San Matteo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli. Lungo il tragitto i camerieri cercano di abbordare i passanti e li invitano a sedersi ai tavolini su entrambi i lati del vicolo. Un gruppo di giapponesi con l’auricolare nelle orecchie ascolta la guida turistica dal forte accento partenopeo. “Qui accanto c’è una sede del Comune, da diciannove anni è chiusa –racconta Ciro- In questo vicolo c’erano la sede del municipio, il bar, il sarto, il tipografo, il pellettiere, il gommista, il falegname, il barbiere, il venditore di bibite, l’orefice, il salumiere, la pizzaiola e lo scatolaro. Ora non c’è più nessuno, e tra qualche mese me ne vado pure io. Non c’è più tanto lavoro, e poi tengo un’età. È arrivato il momento di chiudere”.
Ciro ha iniziato a fare il calzolaio a Caserta. Nel ’50 è arrivato a Napoli. Dal ’54 si è insediato in via San Matteo. “Prima questo era il più bel quartiere di Napoli. Dopo il terremoto dell’80 ci hanno abbandonato”, dice guardando la stradina dal vetro della porta della sua bottega.
“Ho tre figli, due sono professori, uno è dottore in economia. Sono tutti sistemati e con figli. Loro non ne hanno mai voluto sapere di imparare il mestiere. In passato mi volevo allargare e aprire un negozio di scarpe, ma loro non volevano lavorare con me, volevano studiare. Per fortuna sono riuscito a mantenerli fino alla laurea, anche grazie alle borse di studio”.
Nel frattempo entra con discrezione una vecchietta, con un velo in testa e un paio di occhiali rossi. “Suora, ditemi!”, dice Ciro. “Scusate – fa lei –, voi tenete la macchina che allarga le scarpe, vero? Volevo solo informarmi, così la prossima volta vi porto le mie”.
Poche paia di scarpe negli scaffali, un tavolo da lavoro usurato dal tempo, pieno di piccoli attrezzi e di chiodi. Alle pareti delle foto di Maradona, un poster con la squadra del Napoli di qualche anno fa, delle immagini di Totò, Massimo Troisi e Pino Daniele. Tra le mensole degli scaffali dei santini, il quadretto della Madonna e un crocifisso. Sulla parete opposta un calendario con una bella ragazza nuda.
“Lo vuoi sapere perché questo lavoro non va più? – chiede Ciro mentre prende uno stivale – La vedi questa scarpa? È tutta scollata, per il lavoro che faccio devo chiedere almeno cinque euro. Sai quanto costa questo stivale? Dieci, forse venti euro. Ecco perché nessuno mi porta più le scarpe per ripararle. Non conviene, si comprano a poco prezzo, e quando si rompono si ricomprano nuove. Una volta si comprava un paio di scarpe l’anno, e se si rompevano si riparavano. Un sacco di persone vengono qui a lasciarmi le scarpe e poi non vengono più a ritirarle, quando passa troppo tempo quelle che rimangono le regalo”.
Un colpo di clacson rimbomba nella piccola bottega, un uomo su un motorino saluta amichevolmente Ciro; seduto sul sellino posteriore, un bambino con la maglia del Napoli fa il gesto delle corna: “Cornuto!”, urla Ciro ridendo.
“Ho pregato le madri di questo quartiere di portarmi i figli in bottega per insegnargli il mestiere, ma loro non volevano che il figlio facesse il calzolaio. Una volta un ragazzino di dodici anni è venuto per qualche giorno, io gli avrei regalato tutta la bottega, ma lui mi disse che non voleva lavorare, non voleva fare niente. Una mattina mi mandò un ragazzo più grande, voleva i soldi della giornata anche se non era più venuto”.
Ciro porta un maglione a strisce marroni e dei pantaloni scuri, sul naso un paio di occhiali rettangolari. “Per il matrimonio dei miei figli mi sono comprato dei vestiti eleganti. Non li ho mai più usati, io sono un calzolaio, non sono fatto per le cravatte”, afferma mentre si sbottona il colletto del maglione. “Quando tra poco andrò in pensione voglio stare con mia moglie. Mi sono sposato che avevo ventuno anni e mia moglie diciannove. Il sindaco scherzando ci chiese se era un matrimonio o una comunione. Da quando ci siamo sposati ho lavorato sempre, notte e giorno. Ci stava il lavoro e trascuravo la famiglia. Adesso ci sono giorni che vengo in bottega solo per tenerla aperta”.
Un filo di tristezza si intravede negli occhi di Ciro. “Quindici giorni fa mio figlio è andato dal notaio per l’atto di vendita della bottega, non mi vergogno di dire che quella sera mi sono chiuso in stanza e sono scoppiato a piangere. Questa bottega mi ha dato tutto: figli, soldi, matrimonio, vita”.
Ciro si avvia verso l’osteria vicina per pranzare. I turisti giapponesi si fermano incuriositi per fotografare un altarino con una foto di Maradona, Ciro li guarda ridacchiando, prima di girare l’angolo.